MARILINA GIAQUINTA, Addimora: otto poesie inedite


Dichiarazione di poetica

Come nasce una raccolta poetica? Non lo so. Credo che i motivi siano così diversi e così varii, che ogni raccolta ne abbia uno tutto suo, inconfondibile e unico, come le impronte digitali. Addimora è nata dalla necessità di raccogliere “la selva” di poesie scritte durante l’insonnia delle notti, e di tracciare, per quanto sia possibile per uno scrittore, una linea compiuta, che abbia inizio e si concluda e che, naturalmente, ne presuppone una serie di infinite altre. Sono (forse dovrei meglio dire, “vorrebbero essere”) versi carnali e pieni di disordine, come solo la passione e il desiderio sa esserlo, carnali nel contenuto e nella lingua, fatta di parole “ammiscate” (come la verdura maritata della nonna, come la stessa Storia dell’Uomo, mescola di popoli e di civiltà) delle lingue che conosco, prima fra tutte quella della mia terra: nessuno di noi parla una sola lingua, perché nessuno ha una sola anima e perché ognuno di noi consiste nella propria “geologia” esperienziale,  sedimentata nel corso della vita, e in continuo interminato cambiamento. La difficoltà di dire con le parole note il sentimento del pensiero (e viceversa, il pensiero del sentimento) è il tormento e il rovello di chi scrive: per fortuna, la poesia rompe qualunque argine espressivo, nell’incessante ricerca del suo ritmo e del suo senso: e così le parole diventano strumento di musica, suono significante, onda sonora, fatta di materia e vibrazione, che si spande e conferisce alle cose la loro vera essenza. Ed è così che la poesia rappresenta il suo tempo: in questa proteiforme e vertiginante incapacità di muovercisi dentro, cercando il modo per rimanere umani. In fondo, “Addimora” propone una sua epistemologia dell’esistenza: nel determinismo meccanicistico del mercato, che rifiuta qualsiasi regola che non sia quella del profitto, e che informa di sé anche la scienza e il  suo “progresso”, in cui le diseguaglianze sono considerate conseguenze ineliminabili e ineluttabili, in cui la povertà è così profonda e diffusa da non consentire di considerare “vita” quella vissuta priva dei mezzi che lo stesso sistema economico impone, c’è un solo modo per resistere: quello di riuscire ad essere “l’altro”, quello di riuscire ancora ad amare (m. g.).

 

* * *

 

Vorrei dirti una cosa, anzi!
diciamo un Mongibello di cose!
che fa, diventasti sordacampana?
com’è che ti venne d’inguardiarti?
mannò! è solo per fare un purparlé
che fai lo spinoso com’un ficopalo?
arricògliti forza! bellovalente!
con calmerìa, però, alleggio!
che questa notte pomatosa pare
con questo vaeviene di stelle
con questo schiatto di vento
che stravia le lesionature
e il levaemetti del cuore
e non si vuole ricettare.

E falla una sprudenzia
anziché scaltrignare
quel sorriso tangente
che mi spariglia la carne
e mi porta all’impazzimento
tutta la trovatura dei sensi.

Ehi, ingiuggiolito, non ti vuoi sbalanzare?
che vuoi imbaliarmi a tuo libito?
perché non innanzi a intrepidarti
e a intingolarti con il mio sapore
e m’illabbruzzi licenzioso una lubricherìa?

Mi slambicco m’infebbrìcito e m’imbèllico
e alla fine mi è acchiarato il tuo gioco:
t’immummiasti inflesso perché t’allicca
che sia io ad allumare il tuo foco!

 

POESIA SUGLI ALBERI (ALLA MODA)

Vorrei scrivere una poesia sugli alberi
perché sono molto alla moda
( quanto meno nella poesia ):
sarebbe una poesia piena d’ossigeno
e così ti farebbe respirare meglio.

Scriverei che ti porterei in un bosco
( fitto fitto e papero papero di alberi )
e che ti inviterei a gioire della natura,
tu – scògnito di poesie alla moda –
mi chiederesti – lupo di frainteso –
di giocare al fauno colla ninfa
e io affrontatella e piena di vergogna
per la brutta figura che mi faresti fare
dentro la mia bella poesia alla moda
georgica e bucolica e zufolante tersità
ti costringo a recubare sub tegmine fagi.

Tu che continui a essere ignaro
di questa moda arcadica versaiola,
ti distrai alla vista delle muffe fungine
capellute e carnose e rugiadose
e inizi a smarmittarmi il cervello
con ricette degne del miglior Monzù,
ma io che vorrei ancora scrivere
una poesia alla moda sugli alberi
bacchetto magistra il tuo fuori tema
e intono peana e squarcio TeDeum
di ringrazio e – francescando –
mi rivolgo a fratell’ albero e sorella luce,
abbracciando e baciando tutto
quello che mi capita a tiro,
piroettando felice come in un miusicoll.

Tu – insipiente e noncurante
e diciamo pure menempiponumerouno
di poesie arboree alla moda –
attribuendomi il primato per avere
stonato tutto le note possibili
senza averne mai beccato una giusta,
mi baci la bocca gorgheggina e canterina
dicendomi spiegatore e straviatore
quale natura sterremota desiarola
tra una femmina un mascolo e un albero.

 

*

Non ti apparolai bastaza?
e certo! t’ammanca
la canosciumia della lingua
dell’aedo orbo fan del Pelide
ugual’all’osso che m’abbracci.
E ti acchiòccioli e t’immolluschi
e ti allombrìchi com’un coccillato
e damblè mi agguati bellìgero
e poi t’ascirocchi e t’inghibli
quando sono nelle tue propinquità
e la stanza pare che s’inverna
quando sbalanchi e sfenestri
e sbìfori e strìfori e svasìsti
impulsiato e infuroriato
di stringimento di cannarozzo
e scannamento di vestìne
sacrilegiando l’aria ibridinosa
scodacchiando e smulettando
sciantoserìa di mascolo irto
e poi t’arresti ranocchiato
lazzariatore fesso di carne
a scagnozzarti tutto l’odue
e diocenescansieliberi
se ti allanzo e ti bacio
tu prendi e ricominci
quasi senza fiato.

 

*

Che fa? ancora a dubbiare stai?
Strammapupi e traffichiere
è l’amore, non te lo imparasti?
Che nessun ribellionamento
puoi conzare in messinscena
o armare l’opera o traccheggierìa
o fintare una mezza mortizzerìa
per abboscarti una salvazione,
nonsensato e svolontato ti lassa
e hai voglia a cantriarti linguto
e hai voglia a riflessare a trucchiare
e a tranellare il pensiero nolente:
quando l’amore t’intruffa l’improsatura
e s’incommara fitto fitto col cuore
t’impiena di poesiamento e disìo,
e valentezza ti pare che non sai cogitare
e, sbalanzato dall’ingannosìa dei sensi,
ti fai campaniare dalla notte procellosa.

E adesso che ti sei imbaccalato tutto paro
e appitittato della sua geografia carnosa
adesso è troppo tardi e ti tocca di peniare
perché l’amore è un incatenamento
se t’ammanetta non ti puoi più liberare.

 

*

Ogni cosa vuole il suo tempo
per essere fatta,
(da noi si dice così)
come se non bastasse
il moto lontano della luce,
come se dipendesse
dal senso dalla necessità,
un incominciamento continuo
un’intera sequenza di inizi
una progressione di stati
che non si trasformano mai
una forma possibile che non risulta
l’inesorabile e lenta sorte
che accade a velocità zero
senza volontà e senz’intenzione.

Io per te saprò fare ogni cosa
amore mio
e non avrò bisogno di tempo:
io me la fido a combattere
(da noi si dice così)
che non è verbo di battaglia
ma di resistenza e dedizione
di pazienza e risoluzione
di tenacia e rassegnazione
di affrontanza e volizione.

Io per te saprò fare ogni cosa
amore mio
e non avrò bisogno di tempo:
(da noi si dice così)
picchì l’amuri è sempri capitanu
e accussì ‘a muntagna pari chianu.

 

*

Spiraleggi  e oscillacchi
attritando sprechereccio
e scaldazzandomi il respiro
e l’accomincio della clavicola
(prediligi la sinistra,
e così s’arrifredda
la destra che
pazienta in attesa)
poi
tubacchiando amoroso
sbabbalucchi disìo dispnoico
sbronchiolando tussigeno
sbrodacchi
slinguamenti carichi
di acido deossiribonucleico
lichenando umido la mia bocca
poi
preciando e lecchinando
cocottante e assatirato
dal tuo propriostesso muncimunci
scarenandomi e sbattagliandomi,
mi rostri trinacrio e toccaloro
come una galera fenicia
poi (spero non infine )
tortellinandomi nel brodo
dei tuoi sensi zènzeri,
sbarbazzandomi il mento
e spapillandomi salso e cucuncio,
mi fai sdelliriare e tenorare
baritona e soprana
aria d’opera che solo tu
mi fai cantare!

 

*

Rimani lì, dentro la mia testa
mentre per strada
le ragazze
concitano di amori
che non possono avere,
e la città rimane invisibile
intorno alle parole
e a tutto il resto.

Rimani lì, dentro il mio cogito
a cartesiarmi la mia volenterìa
mentre s’incupiglia
sul libro solo di pagine
la forma della tua caviglia
che non vuole continuare
la curva polputa delle tibie,
epperò non vuole spartirsi
da te che
(sul demipliè del piede manco)
sbarbuzzi e tagliuzzi
erbette e verità
e ti predici
( a taci maci )
la volta giusta dell’insensità.

Rimani lì, e fa che mi si chiudano
gli occhi sulle tue areole serie
quando d’affanno le tiene
il piacere, aghi di voglia spersa
e trovatura di vita desiatrice.

Rimani lì, accorcato tra le mie mani
a spudenziarmi la pace e a poesiarmi,
la voce incutta e cucchiariella
e l’alliscìa ogliácea di mandorla,
incignata p’arrizzarmi la carne
e scandaliarmi e infrevarmi
e farmi bandiare ai quattro venti
che mi scafolli il cuore e i sentimenti.

 

*

Noi siciliani
(dicono)
travagliamo assai
di fantasia,
ci crediamo che le cose esistono,
com’ammuccalapuni
perché ce le hanno contate
una sera, quando la luna
aggigliava bianca
che a nasare l’aria
pareva che tutto s’immicidiasse
squieto di vacanteria,
ammastriata com’è la natura
all’ipsofatto della mimeticherìa.
E per questo purquapà
ci biliamo d’amore,
e allevolte assincopiamo
noi siciliani tracchiggiatori,
che ce l’hanno contato
e noi ce lo apparoliamo
boccalori, di matrinfiglia.
“Ma che? L’amore si mangia?”
“Che fa? Lo vedesti?”
“Che t’accapitò di tastarlo?”
ci hanno stolchizzato
domanderi li santommaso,
e noi siciliani amoranteterni
ci stocchiamo scaltriando
i labruzzi funciuti
e arrispondiamo mussiando:
l’amuri è comu li soddi,
non si mangiano, ma ti saziano,
non s’alluzzano, ma ti campano
e appena li tocchi, si spardano.
E a noi siciliani
che soddi ce li diedero sempre
porcariosi e fotteriosi
solo l’amuri ci arresta
l’amuri p’’a nostra terra,
per scoppolare illichetnùnc
la prepotenteria de li mafiosi.


Biografia di Marilina Giaquinta


 

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