MARIA FARINA, Eleonora Duse

In un attento e intelligente testo del 1985, Donne che amano troppo, fattosi presto best-seller, Robin Norwood, una quarantenne psicoterapeuta americana, ha trattato con professionale competenza e sensibilità, il tema dell’eccesso d’amore, di sacrificio e dedizione di tante donne, incapaci di riconoscere nell’uomo scelto per compagno, l’uomo sbagliato, e pur di cambiarlo con il loro amore, pur di non perderlo, assegnando ogni colpa alla loro incapacità affettiva e di comprensione, scendono a compromessi svilenti, tanto tragici quanto grotteschi e comici. Queste donne, che quasi sempre hanno un passato di fanciullezza, adolescenza familiare non positivo, spesso di abbandono, sono condizionate da questo evento e tendono a riviverlo col partner, smitizzandolo nel tentativo di assimilarlo e superarlo, alla ricerca di un rassicurante equilibrio nella coppia, che risiede nel sentirsi amate e necessarie. È l’instaurarsi di una malattia, in quanto la personalità femminile che la subisce, non ne ha coscienza, non è in grado di reagire, pervasa da un senso di colpa che le viene dalla cattiva opinione che ha di se stessa.

E come si manifesta questo “mal d’amore”? Quando nella coppia l’amore si fa malsano, quando per la donna amare significa sofferenza e tutto è concesso all’uomo amato: perdonata ogni mancanza, il cattivo carattere, l’indifferenza, ogni malumore e tradimento. Da qui, l’inizio di una degradante sofferenza in progresso, dove la posizione dominante dell’amato si fa sempre più comoda, disamorata e sfuggente. Queste donne si fanno mamme, infermiere, assistenti, aiutanti, serve, fino a perdersi esse stesse nei vizi del partner, per essergli più vicine, per meglio conoscere le sue sofferenze, sempre guidate dal positivo slancio di redimerlo. Da queste bassezze queste vittime, possono rialzarsi solo amando e rispettando se stesse, mettendo in primo piano con determinazione la loro dignità, il proprio valore di persona umana.

Eleonora Duse, sguardo malinconico, tristezza atavica. Esordisce nella compagnia teatrale ambulante di famiglia, a quattro anni, nel ruolo di Cosette. In miseria, lontana dal prosaico mondo borghese, orfana di madre a soli quindici anni. Non potendosi permettere un abito per onorare il lutto, risolve il problema con un nastro nero annodato al collo. Cresce così: solitaria, sola e forse questo le segna il cuore. Quando entra in scena penetra il personaggio con rare doti di empatia, sembra conoscere ogni emozione. Inebriante e persuasiva, riesce a conquistare folle in ogni paese, pur recitando nella propria lingua madre. Non si trucca, non indossa gioielli, non è artefatta. Ha l’anima colma di commossa umanità. È appassionata, Eleonora, vive della sua arte, senza l’amore di cui sente il bisogno e che presto la delude. Infine incontra D’Annunzio e ne diviene succube madre, amante, figlia. L’essere Rapagnetta, nato a Pescara nel 1836, è più basso di lei e più giovane di cinque anni. Sembra non avere i numeri per sollecitare l’interesse della ormai “Divina”. «È piccolo ‒ scrive Gide ‒ da lontano la sua figura parrebbe ordinaria o già nota: non c’è nulla in lui che ostenti letteratura o genio. Porta una barbetta a punta di un biondo pallido e parla con voce nitida, un po’ gelida, leziosa. Ha uno sguardo freddo. Lei è molto più che bella. D’un pallore opaco e un po’ olivastro, la fronte solida sotto le ciocche nere, le sopracciglie serpentine, i begli occhi dallo sguardo clemente, una bocca morbida, incredibilmente mobile e plastica. La voce è chiara e fine»: queste sono le voci di cronisti e critici. Ma il fascino del futuro Vate, in quel tempo si è già reso evidente, anche attraverso indiscutibili doti affabulatorie.

La figura di D’Annunzio, la sua capacita di incantare le tantissime donne, sue vittime di ogni classe sociale, ammaliate da una poesia artefatta e falsa, strabordante, col fumo di parole solo suono, insensatezze, esasperazioni liriche decadenti, segnate da una sensualità corrotta, libidinosa. Migliaia di pagine inutili, copiate, artefatte, insincere. Il non riuscire a vedere, in questa miriade di donne sue vittime, la falsità sentimentale, l’amoralità, l’egoismo perverso di questo piccolo uomo, ossesso dal sesso e di se stesso, inutile, maniaco, corrotto e vizioso, rimarrà un’ombra eterna nella loro storia, nella dignità delle donne. Fra D’Annunzio e la Duse la relazione inizia nel settembre del 1895, e tra alti e bassi, si protrarrà per più di otto anni.

«Vedo il sole», scrive Eleonora nel primo biglietto per Gabriele, definendo il loro incontro “un incantesimo solare”. Il bisogno di sicurezza e protezione come sopra riportato, confonde l’attrice che recita una parte. Il loro, semmai, fu un incontro di reciproco interesse. Il connubio artistico con la più celebrata attrice del tempo, avrebbe permesso al poeta di avvicinare il pubblico ai suoi miti e alla sua poesia. A lei, debole e alla ricerca di conferme, con una figlia e un matrimonio fallito alle spalle, qualche amante passeggero e al tempo di D’Annunzio, legata sentimentalmente e segretamente, da qualche anno allo “scapigliato” Arrigo Boito, premeva rinnovare il suo repertorio e legare la propria arte al rampante astro nascente: il futuro Vate. Ma fondamentale per l’attrice è la ricerca di considerazione, sicurezza d’amore e di legame affettivo, ancora non trovato, come indicato dall’autrice dell’opera sopra indicata. Tanta e disperata è questa necessità dell’attrice, che non riesce a vedere chi ha davanti: si illude e si lascia cullare dalla verbosità interessata, fantastica e astratta, falsamente amorosa, di questo essere assolutamente inaffidabile. D’Annunzio è solo proteso ad ogni costo e morale alla deificazione di se stesso, non incapace di amare, ma di amare oscenamente e oltre ogni morale solo se stesso e per questo capace di ogni bassezza, a costruire un’esistenza inimitabile. La cultura e la storia hanno fatto giustizia dell’evanescenza storica e culturale del Vate: è passato, come passano le mode astruse di ogni tempo. Cosa ci rimane di lui? Le idealità e i modi indicati al fascismo e una poesia che oggi vale solo perché ricorda culture fumose e tempi da dimenticare, inutili ad una ragionevole e corretta etica umana. Eleonora non poteva essere capace di vedere tutto questo, recitava una parte. D’Annunzio poté agire con abile spregiudicatezza, in atteggiamenti di puro calcolo e perseguire il suo acceso narcisismo.

Ridotta a sola dipendenza dal partner, Eleonora arriva a denigrare se stessa e il suo talento d’attrice: «So bene che l’artista che esegue l’opera d’arte non è l’opera d’arte, solo tu sei il creatore e noi tuoi umili strumenti». L’attrice non vede che quell’arte incanta ma non ha nessun valore. Lo mantiene economicamente, ma sta bene attenta a non farglielo pesare: piuttosto umilia se stessa, pur di non far sentire umiliato lui. Sta bene il poeta, profonde capitali non suoi e nel crogiolo degli anni della relazione con la Duse, può farsi prodigiosamente prolifico. Compone La città morta; Sogno d’un mattino di primavera; Sogno d’un tramonto d’autunno; La gioconda; La Gloria; tre libri delle Laudi; Il fuoco; Francesca da Rimini; La figlia di Iorio, con l’aggiunta del rifacimento di Canto Novo, dei Sonnets Cisalpins e della revisione dei racconti giovanili in vista delle Novelle della Pescara. Opere che non reggeranno l’evolversi culturale dei tempi, e svaniranno presto.

Eleonora viene invitata a Parigi e accolta come una regina, eppure non è felice. Arriva poi una lettera di Gabriele e la gioia le esplode nel petto: «Ti ringrazio, ti ringrazio, mi son buttata sulle tue parole. Sto di nuovo meglio. Sei buono, grazie. Purché nulla ti turbi, purché tu ritrovi la gioia di lavorare». Tutta immersa nella cecità della sua gratitudine e del suo bisogno d’amore, Eleonora non vuol vedere i continui tradimenti sessuali del poeta, e accetta supinamente anche quelli dell’attività artistica. Oltre a dar fondo al denaro dell’attrice, D’Annunzio assegna infatti i suoi testi teatrali promessi a lei, ad altre attrici che pensa più atte ad incentivare i guadagni, incurante del fatto che la Duse si fosse, come sempre, adoperata per trovare i finanziamenti, il teatro, gli attori. Finché la collaborazione/convivenza non regge più.

Nel romanzo Il fuoco del 1900, in cui è sottesa la descrizione del loro rapporto, D’Annunzio non si fa scrupoli nel descrivere con crudeltà «lo sfacelo fisico» della sua compagna. Lo scrittore sa che la loro storia incuriosisce, è sulla bocca di tutti, quindi il descriverne la fine incuriosisce e porterà certamente ad un buon successo commerciale del romanzo. La Duse soffre ai polmoni e soffre l’ultima offesa: La figlia di Iorio opera scritta per lei, va alla giovane Emma Grammatica. La loro storia è alla fine. La Duse abbandonata, muore di tisi, sola, a 66 anni, D’Annunzio è lontano con altre vittime. Di questo tempo, della grande attrice, si ricordano le sue parole: «Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto perché ho amato». Ma recitava, mentiva a sé stessa: non aveva amato, aveva solo avuto paura della solitudine che infine la avvolta e uccisa. Non aveva mai avuto invece, il coraggio di amarsi veramente.


 

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