MARCO PALLADINI, L’orizzonte del Poetonauta


Se si guarda alla forma-corpo culturale della poesia italica enfiata da circa otto secoli di mandarinale tradizione letteraria, è netta la sensazione di una permanente assenza di libertà intellettuale e personale, di una costante latitanza di autonomia e spessore del pensiero e coraggio morale. Rare le eccezioni: è banale, ma impossibile non citare il solito, miracolosamente superiore conte Leopardi; se penso al Novecento mi permetto di rammentare Emilio Villa.

Tale semiocorpus poetante si è sviluppato, per un tempo lunghissimo, dentro il sistema delle corti e s’è nutrito e plasmato in un’infinita teoria di querelles tra surciliosi dotti e di moleste dispute tra circoli di scoliasti pseudopensanti, nonché in mezzo a una farandola di conflitti, intrighi, massacri e tradimenti politici di qualsivoglia natura e motivazione. Logico quindi che le figurazioni basiche e fondanti la sua struttura antropologico-culturale siano quelle del Cortigiano e del Partigiano.

Nella figurazione del Cortigiano si compendia la storica, “organica” sudditanza al potere, anzi a tutti i poteri, il conformismo e il trasformismo permanenti, lo stare sempre “allineati e coperti”, anche come istintiva, mondana strategia a sopravvivere comunque. Corollari della cortigianeria sono ovviamente l’isterica volontà di autoaffermazione, lo spasmodico bisogno di riconoscimento socioculturale, l’empito feroce verso micro (e spesso micragnose) scalate di successo e di sistemazione, assolutamente scevre di principî ovvero rovesciando disinvoltamente quelli professati fino a un minuto prima.

Nella figurazione del Partigiano si rappresenta, invece, la vocazione allo squadrismo accademico, l’inclinazione a far branco ideologico, il falangismo culturale di chi concepisce ogni allargamento della propria influenza, ogni attestato di consenso come una tappa del processo volto a far fuori qualunque concorrente, a spazzare via qualsiasi dissenziente, a schiacciare qualunque eteropensante. Naturalmente i Partigiani sono ben altro che “idealistiche anime pure”: all’ombra della setta, del mafioclan, del gruppo d’assalto si fa carriera molto più rapidamente: basta obbedire e combattere per “la causa comune”.

Ciò che non è contemplato nelle simmetriche e convergenti figurazioni del Cortigiano e del Partigiano è l’individuo, il singolo eterovagante & altroparlante, estraneo agli schieramenti pre-fissati, ai campi d’appartenenza per definizione o per destinazione. Un simile soggetto Avulso, forte solo dei suoi dubbi e delle sue cadute, dei suoi mobili, temporanei posizionamenti, che però fa i conti sul serio con la qualità dell’estetico, dell’etico e del noetico, che s’assume fino in fondo la responsabilità controcorrente della kulturkritik, risulta semplicemente non riconoscibile e dunque incollocabile nell’orizzonte del nostrano poetante. Tale figura è un apolide, il suo giuoco è di chi sta sempre in fuorigiuoco, è l’auto-smarcamento dell’italieno.

Da realista so bene che la figura dell’Avulso non è minimamente in grado di mettere in crisi le pre-figurazioni del Cortigiano e del Partigiano. Il suo ruolo è testimoniale e residuale, epperò perseverante. Si può vedere nell’Avulso il clandestino a bordo che sogna un giorno di riuscire a sbarcare sull’isola del tesoro, non certo il pirata Morgan capace di attaccare e affondare la nave ammiraglia di Sua Maestà la Poesia.

Con le invarianti antropologico-culturali non si scherza, perché le cose non accadono a caso e, ad esempio, non convince chi ha accusato l’avvento di un “canone casuale” a proposito del “piccolo pantheon di poeti” che dagli anni ’80 in qua ha occupato il centro della scena. È vero che l’eclissi della critica ha favorito l’insediamento e poi l’autoincoronazione del neo-antico lirismo (insieme cortigiano e partigianissimo), ma ciò è stato tutt’altro che casuale.

Più o meno all’altezza della fine degli anni ’70 la postmodernità ha mandato in soffitta le chimere del moderno, le equazioni stantie tipo avanguardia = progresso = rivoluzione e ha riproposto il rapporto con il passato, ossia con la memoria, in termini “simultaneistici”. E dunque, come riconfigurare il pròblema della (nostra) storia, delle radici genealogiche, delle eredità culturali-antropologiche se la direzione stratigrafica, il senso di tale passato appaiono dubbi, incerti o incomprensibili appena oltre i lemmi e le etichette con cui abbiamo creduto di afferrarli? Se la “profondità di campo” storica subisce un effetto di schiacciamento nell’orizzonte del technopresente, l’arte, la scrittura sono mezzi di espressione di ritrovamento del senso o piuttosto gli strumenti privilegiati di una ricerca intersemiotica e multiermeneutica?

La risposta dell’area dei ‘neo-antichi’ e ‘orfico-lirici’ è stata il restauro dell’araldica perduta, la riconsacrazione, colma di mysterium, di una parola poetica assoluta, firmamento di verità posto a baluardo contro il nichilismo contemporaneo. Ma non è tutto ciò hyper-fiction? Tale presunzione di verità poetico-oracolare non è mera clonazione a freddo della tradizione? Non è questo ‘neo-classico’ null’altro che un sofisticato effetto di simulazione? Un bel giuoco di poeticità virtuale declinato al passato? Insomma, una reinvenzione di se stessi in un mitico spaziotempo di appartenenza, ossia di identificazione primigenia ove la realtà è una ur-fabula, e ci si dà o ci si crea un’identità apocrifa in cui l’individuale è sussunto dal sovraindividuale?

Su questa voglia di sentirsi “pre-scritti”, cioè rassicurati contro l’oggidiana distruzione delle certezze, dalla biostoria & dal genius loci, ci sarebbe molto da discutere. Ma qui è il punto decisivo per capire il ruolo sistemico centrale ricoperto dai neo-antichi lirici e la forza di attrazione che hanno avuto, sino all’ingresso nel XXI secolo, nei confronti delle generazioni successive, poste di fronte al vuoto di valori e di punti di riferimento e pateticamente inermi sotto il profilo sia critico sia teoretico. Dinanzi alla pressoché illeggibile, demoralizzante caoticità della ipermodernità, la poesia orfico-autoinnamorata guarda al passato nella ricerca del dna culturale e antropologico che fonda, in una catena ininterrotta, il senso (come Valore) dell’esserci presente. E poco importa che ciò sia una frigida finzione se, poi, corrisponde a un bisogno diffuso e profondo del sentire. L’atto di scrittura è anche, sempre, un atto di fede.

Se è questo il campo principale di inveramento, oggi, delle figurazioni del Cortigiano e del Partigiano, io vedo nel poetante-virus colui che punta sull’effetto di deriva e di disappartenenza per rimettersi stocasticamente in giuoco, rigiuocando(si) il mondo (tutto, non soltanto un suo segmento nativo o geneticamente ideale). Il nomadismo, così, del play letterario (giuoco e recita insieme) si struttura nella drammaturgia di un multiego movimentato-movimentante o, se si vuole, in una movida multidentitaria che è essa pure una scena inventata di significanti & ipersegni.

La nuova-vecchia arcadia vuole salvarsi l’anima, ma non intende che non si combatte il contagio se non si riconosce che esso ci ha impestiato, non si lotta contro il virus, se non si intende che il virus siamo (anche) noi. Una “condizione iper-postmoderna ribelle” d’autore si concreta, per me, nella disposizione a non sottrarsi all’infezione, a comprehendersi nella contaminazione di massa o moltitudine.

Essere impuri poetonauti negli interstizi del Mondo-Rete, fare “corpo poetonautico” come processualità intersoggettiva, mi pare già un ottimo contravveleno sia al cortigianismo e sia al partigianismo tradizionali. D’altronde, la società borghese si è già effettualmente dissolta, collassata nel seno di una società di massa, omologata e microparcellizzata assieme, dove la visione delle vecchie distinzioni, dei novecenteschi antagonismi non regge più. La iper o sur-modernità ha saturato per intero, nella metropoli o metrofaga globale, tanto lo spazio di vita quanto l’orizzonte del logos poetante. Nella onni-Rete siamo impigliati tutti. Come non vedere che le controistanze del post-human avanzano impetuose e sembrano travolgere tutte le vetero-umaniste trincee di resistenza politico-culturale e socio-antropologica?

Il Mondo-Rete attualizza una dimensione “veritante”, ossia un percorso poetico-gnoseologico dentro un’esperienza eminentemente intersoggettiva, il cui mero, non totalitario obiettivo è di giungere a delle prove (provvisorie) di verità.

Nelle pieghe di una semionautica prassi di intersoggettività, si annidano peraltro molteplici livelli sofopoetici tra cui quello del “mistico”, che rimanda (basti pensare a l’Ulysses di Joyce), a un doppio piano di lettura: quello essoterico e quello esoterico.

È questa duplice chiave che deve interessare. È questa possibilità di articolazione iniziatica, questa logo-téchne che crea verticali slittamenti di senso e vertiginose ambiguità, questa coscienza – anche ludica perché no? – che si apre al mancamento, al non-dicibile, al salto nell’abisso della segnificazione, a riguardarci tutti.

Il mistico, dunque, non è la mistica della parola in sé, bensì l’intelligence del gioco del perturbante e del dissonante verbale che rinvia, mercè il sospetto e lo scarto, a un gioco più grande che può nominarsi soltanto per sottrazione e per aenigmate.

Il Cortigiano e il Partigiano continueranno a lungo a incombere, e noi, altrettanto certamente, a procombere, cioè a inventare (e bruciare) differante, inafferrabile linguaggio. La pratica poetica, si sa, genera mostri. Dunque, niente patti di “desistenza”, bensì una testarda insistenza a essere “materiale resiliente, virale, avulso”. Il Mondo-Rete è virtuale e reale insieme. Soprattutto non è mai definitivo. Cerchiamo di renderlo poeticamente infinitivo, transdefinito, sdefinibile.


Biografia di Marco Palladini


 

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