MARCO PALLADINI, L’Io 0 + 0 + 0 (racconto inedito)

 

«… vedete uno crede di essere appunto uno e unico, invece noi pensatori abbiamo oggi capito che la coscienza è fatta a moduli, che stanno uno dentro l’altro… che vuol dire? Che la coscienza non è uno unico scatolone, è una scatola con dentro un’altra scatola, e poi ancora un’altra scatola e un’altra scatola e un’altra scatola e via dicendo… sì, esattamente come le matrioske russe… solamente che noi non conosciamo i limiti della nostra coscienza, un limite ci sarà senz’altro, ma noi non sappiamo dov’è… quindi la coscienza è come fosse un software del cervello che possiamo ricombinare illimitatamente, sino all’infinito, sino a prova contraria… tu dici Io, ma non hai un solo Io, bensì un multi-Io, così dovresti dire Io 28 o 16 o 4… o magari Io 6 + 22… oppure Io 3 + 10 + 34… perché la coscienza è il risultato di un rapporto multiplo, di una sinergia tra più ‘Ii’, anzi ‘Iiiiiiiiiiiii……’, è una agglutinazione di tanti pezzetti di personalità, tanti frammenti che poi danno l’illusione di una totalità… una illusione che in tanti casi è a somma zero… dico, esclusi i presenti, naturalmente… somma zero che non è il sommo Zero dei mistici, cosa che qui, come capite, non ci riguarda»…

Sandro Frigona, si attacitò, guardando l’uditorio del bar con uno sguardo insinuante e lievemente sarcastico…

«Mecojoni, professo’ – attaccò Pippo Belzono, un ex autista di bus prepensionato perché malato di diabete – … ma tutti sti cosi, sti Io ce stanno dentro alla capoccella mia? Boh!? … a me me pare d’esse sempre stato er solito sfigato che s’è fatto ’n culo comme un secchio pe’ poi ritrovasse a cinquantacinqu’anni co’ seicento euri ar mese de pensione e quattro pere d’insulina al giorno»…

«Io invece lo capisco – disse Daria Gloriani, un donna pallida e non bella, con un trench marròn stazzonato addosso, che guardava Frigona dritto negli occhi – … cioè, capisco il suo dolore professore, ma non deve pensare di essere il solo, perché pure io tengo un dolore forte dentro di me… ma la cosa brutta è che è come se non mi riguardasse, come se riguardasse un altro… tu pensi e tieni sto dolore, ma io ce l’ho da mesi, che dico, da anni.. già sapevo che prima o poi sarebbe successo… ma quando succede non è meglio… è peggio, molto peggio… io lo so professore, che tu non ci dormi, ma io sono anni che non dormo la notte… sono insonne per il dolore e per tutto il resto che è accaduto… secondo lei in questo mondo qua possiamo stare senza tutto questo dolore?… ma c’è un altro mondo dove andare a stare?… io non lo so… io non dormivo per tutti questi fatti brutti… e anche lei si vede che ha una spada sopra la testa che da un momento all’altro glie la può tagliare… zac! la testa… è successo, succede, succede sempre, tutti i giorni, non può non succedere… tu hai i mostri in testa e quelli con la spada te li levano, insieme con la testa… io ho sbagliato tutto nella vita… tutti sbagliamo tutto nella vita, ma non ce lo diciamo… lei ha sbagliato dalla A alla Z, eppure continua a parlare, ad insegnare… ma chi glie lo fa fare? … e perché? Se è tutto sbagliato… sono quelli che l’hanno mandata qua… indipendentemente da quegli altri… io non so come avete fatto a scamparla… ma l’avete scampata bella… però quelli prima o poi ritornano… sicuri mo’ che ritornano… sono i mostri… tanto c’è un filo che ci lega tutti… non glie lo devo dire io… lei lo sa bene, per il fatto dell’altra volta… sono cose brutte, che le devo dire… il dolore non si cancella… io non ho bisogno di un professore del kazzo che parla e straparla e sta pure calmo! … cristo! ma come fai a stare calmo… che c’hai dentro?… non c’hai nulla… nulla… nulla»…

Impressionato dallo sproloquio della donna, l’Io 7 + 66 di Frigona provò ad avvicinarsi a lei per provare fare due passi nel suo delirio, ma quella cacciò un urlo e uscì di corsa dal bar. Il filosofo scambiò un’occhiata stranita con un tavolo di altri pensionati che si stavano facendo una mano di poker, quindi andò alla cassa, regolò la sua consumazione e lasciò un caffè pagato per il prossimo avventore com’era d’uso nel locale. Dopo un breve indugio, il suo Io 5 + 13 + 44 + 56 uscì e prese a passeggiare sul viale principale della borgata.

Dietro una vetrina un megatelevisore al plasma vomitava immagini: c’erano degli uomini barbuti con top hat carnascialeschi che bussavano a quattrini in un fantasocial all’americana abbastanza demenziale in cui, a un certo punto, sbucavano persino dei marzianetti dalla pelle blu Klein… poi si vedevano parodie del dissesto coniugale di una coppia high society, con lei che andava a scopare con un drudo malfamato in un sottoscala… il tutto alternato a virulente sottotracce di sottoambienti marginali dove adolescenti delinquentelli si azzuffavano giocando con le figu Panini… mentre donne alquanto stronze e visibilmente sbronze si prostituivano nei vicoli sottovento, sedute dentro macchine rubate, aprendo le portiere e mostrando le bianche cosce bucherellate dalla cellulite. Ma tanto i loro clientes erano le genti operaie (e di bocca buona) delle fabbriche di frontiera, reduci dagli scioperi a gatto selvaggio che bloccavano per settimane la produzione, mandando fuori di testa il padronato…

Continuando a camminare si veniva investiti da tonitruanti voci vernacolari che si mescolavano a rauche grida di mocciosi e a lamenti senili come provenienti dai ‘bassi’ d’antan… qualcuno poi lo fermava e gli diceva a brutto muso: vorrei farti dire la verità, brutto ceffo! … ma i suoi ‘Iiii’ svicolavano consapevoli di passare vicino a zone di guerra sociale… qui l’indice di vita era rasoterra… come stare in una città siriana distrutta dove la tua pellaccia non vale un fico secco… intanto frotte di turistacci nipponici facevano domande a chiunque e scattavano a mitraglia nikon-foto o samsung-selfie e si riempivano le tasche di souvenir e di altre amenità mentre calpestavano quelle esistenze a perdere…

Su una panchina c’erano due fidanzatini che limonavano infilandosi le lingue in bocca e poi alimentavano uno sciocchezzaio di chiacchiere crivellate di vezzeggiativi languorosi reciproci. Ignorando, gli amorini, le pesanti e prevalenti testedikazzo indigene che si appropinquavano per andare a prendersela con gli emigrati arabi e poi strapazzando le donne con l’hijab, sfottendole a loro comodo e incomodo, non potendo o riuscendo a fotterle…

Passava una spider amaranto metallizzata coatta con Antonello Venditti a palla che cantava: Che fantastica storia è la vita. / Che fantastica storia è la vita. / E quando pensi che sia finita, / è proprio allora che comincia la salita. / Che fantastica storia è la vita

Fantamerdosa Antone’ la vita, pensava il barbone all’angolo, vecchio di almeno cent’anni e sopravvivente suo malgrado… Nelle strade e stradette laterali si imponeva un realismo rozzo e zozzo, torme di ladrones formicolavano nel lato spurio della city, dove taccheggiavano le borse griffate delle signore incaute sui tacchi a spillo, appena uscite dal parrucchiere o hair-stylist ultimo grido. Sciamavano pure giovanissimi tocchi di figa in minigonna molestate da palestrati un po’ ‘tocchi’ pronti a qualsiasi spaccio canagliesco, pur di svoltare la giornata…

Frigona-Io 17 + 33 sembrava subire senza reagire questa imitazione glocale di una provincia yankee da film alla Bogdanovich, tra wastelands e badlands, terre teterrime appunto desolate e omicide o, piuttosto, femminicide. Ossia dove si colpiscono le femmine semidesnude e bamboleggianti, pronte a vendere con fare irridente il loro notevole bel culo. Mentre i loro maschi papponcelli si riempivano la panza di maccheroni e riscuotevano esigenti, puntuali e impassibili il dovuto ‘pizzo’ (se no partiva subito una crudele ‘pizza’ sulla faccia delle sfacciate)…

In un caffeuccio dal villaggetto letterario, sgrammaticati scrittorelli leggevano testi bischerrimi, palesemente apolidi nella lingua d’uso e si intestardivano a fare i filologi delle cause perse, nonché sbagliate. Un criticuzzo sosteneva che ormai il senso della storia è sfumato nel dissenso al nonsenso globale e la platea applaudiva compatta. Pure se nessuno, neppure il critichetto, aveva la più pallida idea di cosa fare e di dove andare a parare. Un altro bel tomo col papillon, presentatosi come il joycianommo, ripeté per cinque minuti la frase: “Che cozzo ha fotto!”, rimeritandosi gli sfottò di fottutissimi chiacchieroni vitalisti. Però il libridinoso, esulceroso prudenziano scriptor in res gestae tentò il rimorchio di una molto formosa affluvionalescente studentessa, quinta misura di reggiseno, che invece snobbava il senescente mecco finneganagliesco anzichenò…

Saturo di street-life e con la mente affollata di pensieri frastornanti, gravato da quel dolore panico che, con spietata precisione, aveva visto in lui Daria Gloriani, il pensatore Frigona ovvero il suo Io 4 + 11 + 99 svoltò l’angolo del corso principale e si immise in una traversetta immersa nella penombra. A metà della stradetta, preso dal pensiero di una spada di Damocle sulla propria testa,  si infilò in un tempio buddhista dove teneva la sua classe il maestro Linpoche-sat. Il suo insegnamento rivolto a una ventina di allievi assisi a gambe incrociate, nella posizione del loto, su dei materassini da yoga verde scuro, era semplice: pochi essenziali esercizi corporei, da ripetere prima lentamente poi, via via, più velocemente, assecondando il ritmo del respiro, sino ad arrivare al parossismo liberatorio del ‘respiro di fuoco’. Non pensate nulla, diceva il maestro, non aspettatevi nulla. Isolatevi, fate il vuoto dentro voi stessi. Meglio eseguite gli esercizi e più trasvaluterete la pesantezza del vostro corpo e diventerà alta la qualità del vostro vuoto. Sarete trascinati come in uno stato di trance. Uscirete da voi stessi, ma restando qui, nell’adesso, un adesso che diventa infinito. Ogni volta il vostro distacco, la vostra ekstasis sarà diversa, e diverse saranno la intensità e la densità, la velocità e il colore, la trasparenza e la chiarità del vostro vuoto. Un vuoto che è un pieno d’essere, un vuotopieno o un pienovuoto di qualità ed altezza illimitati. Pura astrazione da voi e massima adesione alla substantia dell’universo, che non è segreta, è dentro e intorno a noi, ma non riuscite a toccarla, finché non aprite le porte della percezione. Solo allora percepirete la bellezza ultima di tutte le cose.

Il filosofo si sentiva spaesato pure nel tempio buddhista, ma egualmente si tolse le scarpe e si impegnò a ottemperare alle indicazioni del maestro. Si applicava quasi in surmenage a compiere gli esercizi, per ‘svuotarsi’ del veleno dei suoi pensieri, per annullare il pensiero della spada di Damocle, per raggiungere lo stato di Io 0 + 0 + 0. Ma, niente, non ce la faceva. Sentiva di fallire, di non riuscire a distaccarsi da quello stato di smarrimento e di melanconia che l’aveva ravvolto. Qualcosa ostruiva le porte percettive: un Io 2 Sandro + Frigona che si rifutava di obbedire e non voleva ostinatamente annullarsi. Come un lampo straniero, una decisione allora rattamente lo trafisse. Uscì dal tempio e si diresse verso un cavalcavia distante non più di mezzo chilometro, si sentiva come posseduto dal demone di sé, o forse come comandando il corpo di un altro che, poi, era ancora lui. Doveva e voleva sconfiggere se stesso. Ciò che, dentro di lui, remava contro: prese la rincorsa, superò con insospettabile agilità il parapetto e volò di sotto. Nel vuoto, finalmente. Ma cadendo in un vuoto reale dove la missione non è compiuta, se il soggetto è morto. Ché il cadavere è un non-Io 1, non è l’Io 0 + 0 + 0 del grande vuoto.

Linpoche-sat venne informato circa un’ora dopo e prese atto dell’accaduto con la solita espressione impenetrabile del volto: scosse lievemente il capo e si limitò a salmodiare con voce profonda il Myōhō Renge Kyō, detto anche Sutra del Loto. Lo sguardo inattingibile che aveva sulla realtà confermava la somma vuotitudine contemplativa del suo spirito.

 

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4 Risposte a “MARCO PALLADINI, L’Io 0 + 0 + 0 (racconto inedito)”

  1. Grazie della lettura – anche se non so quale Io di me stessa l’abbia letto!
    Il finale mi ha particolarmente colpito: le filosofie orientali, a cui ci si rivolge con troppa leggerezza, possibili foriere di (dis)inganno.
    Un saluto

  2. Grazie della lettura – anche se non so quale Io di me stessa l’abbia letto! Il finale mi ha particolarmente colpito: le filosofie orientali, a cui ci si abbandona con troppa leggerezza, possibili foriere di (dis)inganno.
    Un saluto,
    Valentina P. Muzi

  3. Come commentare questo racconto se non con: 0-0-0= Non-Io. Tagliente il realismo del nulla che ci com-pone e che, di conseguenza, ci circ/onda, sospeso tra ironia e degrado in un gioco dallo scarto micidiale ove il vuoto attira altro vuoto; il non-pensiero l’irreparabile caduta!

    Un saluto,

    Rosaria Di Donato

  4. Siamo sotto Natale ed ogni tanto mi tornano in mente ricordi molto antichi, ma vividi. Come quello di quando leggevo nella casetta della mia infanzia, quasi una casa di campagna in città, ma molto più squallida e cupa (avevo appena imparato a leggere) Il Canto di Natale un romanzo breve di genere fantastico del 1843 di Charles Dickens, edito dalla BUR nel 1950 , cioè quei libricini grigi e piccoli, veri tascabili a poco prezzo anche per i poveracci, trovati insieme ad altre letture esaltanti tra le cose di mia sorella più grande, che solo x queste possibilità che mi ha dato, è stata perdonata da tutte le sue cattiverie future. Quanto amore può darci la bella scrittura, oltre al resto, cioè la consapevolezza e la percezione di uno spazio simbolico che ci accomuna. Ironia, dolore, pietà anche in questo Cantico di Natale di Marco Palladini, che implode, in una scrittura esplosiva che denuncia. Grazie!

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