LUCIANA GRAVINA, “L’attitudine alla sorpresa” di Silvana Baroni

Forse, quando la vita è esperita come storia di emozioni in consapevolezza, tutto può essere predetto e previsto, nel senso che niente dovrebbe più stupire la mente, la coscienza, l’anima.
Evidentemente questa certezza non vale sempre, o forse, non vale affatto, se Silvana Baroni, poeta, enuncia un’attitudine a supporto della sorpresa. Non solo, perché a infilarsi nelle trame di questa sua nuova prova poetica, a buon diritto viene da supporre che l’attitudine vada oltre l’atteggiamento di difesa e di sostegno di una probabile fragilità, ma piuttosto che possa essere un percorso, la conquista di una condizione dentro la quale aggirarsi, navigare, appropriarsi della sorpresa come di un dono, come dell’ultima inquieta terra di approdo.
Perché è proprio questo volume, fatto di una poesia dolce e feroce ad un tempo, a costituire sorpresa in quanto diverso e più complesso, ma soprattutto più arioso e leggero degli altri suoi pur pregevoli percorsi in versi.
E tuttavia è suo lo stile, il ritmo giocato sulla sapiente collocazione di versi più lunghi e più brevi, spesso classici endecasillabi, ma anche decasillabi, settenari, quinari, in armonica sequenza. Ed è suo il respiro leggero della musicalità che viaggia sicura nel percorso della scrittura e anche della lettura. Perché nella poesia anche la voce reclama la sua parte.
Ancora Silvana Baroni ci consegna un territorio dalla geografia variegata, fecondato dal suo ricco bakground esperenziale di medica psichiatra abituata a indagare nelle pieghe e negli interstizi dell’animo umano, degli altri, ma anche del proprio, appoggiata alla pratica dell’arte pittorica e della scrittura, mai smettendo l’ironia sognatrice e sagace dei suoi numerosi aforismi.
Il volume è strutturato in quattro settori dai titoli L’onnipotenza dei dintorni, L’alveare importunato, Restano impronte, Ostinata sorte, nei quali è probabile individuare il progetto ordinato di una ricognizione di ampio respiro.
In Onnipotenza dei dintorni non può che vibrare uno status dell’inizio, dove si declina un esserci vitale, attento a conquistare i confini e a scavalcarli, un’alba, un’esplosione discreta, ma sicura, ferma, luminosa:

L’alba, 
un bacio a sorpresa del sole agli ulivi. 
E Dio, 
con le lacrime agli occhi, 
troppo felice d’aver creato. (p. 13)

Niente di più promettente di un sole che energizza e rinnova il suo quotidiano cammino con un atto d’amore. Bisogna crederci per forza che il Dio dell’Universo è un Dio d’amore e che la vita sarà una passeggiata.
Vi appare anche l’inevitabile interrogativo sulla poesia: che cosa fa? che cosa è? Scrive d’amore ed è consolatoria:

Viene in punta d’ala, 
apre il cassetto di ciliegio 
cerca la penna. 
Scrive d’amore, di lusinghe e certezze 
rimargina i lembi delle ferite 
dà pace all’amarezza. 
Avanti al mio tavolo 
si confessa quanto serve 
per far musica. (p.15)

Nel fresco dell’alba si può pensare anche questo. Ma poi, si sa, i poeti cambiano idea sulla poesia e non è colpa loro. È la definizione di poesia che sfugge per struttura e forse anche un po’ per vezzo… C’è in questo sottocontesto una freschezza giovane che rasserena, c’è la curiosità di chi ha tutto da scoprire ancora:

M’aggiro sul greto del fiume curiosa dei vortici della corrente, 
di come l’onde muovono le ciglia 
d’una scrittura da decifrare, per come il flusso prosegue certo 
verso il delta, e all’improvviso smette per sempre. (p. 27)

Ma c’è anche l’avviso ai naviganti, attenzione, il flusso all’improvviso smette per sempre. L’alveare importunato dice di una capacità critica, dell’occhio libero, di qualche alzata di scudi: «Ma allora? Diosanto! / perché li addomestichiamo / i rossi gerani sui nostri balconi?» (p. 41). Evolvono i punti di vista, «Vorrei esser pompiere, / per quella fune raggiungere / la superbia / di Chi si astiene.», in diretto collegamento con l’idea soffocante di santità:

La santa è un passero nel saio 
nell’ombra che le annera le vergogne 
e contiene i sussulti del piacere. 
Pudica sotto l’altare, nell’urna 
espone le stimmate d’una tirannia 
di un ambìto digiuno terragno. 
È l’icona 
d’un vorace 
autocontrollo, 
ancor oggi di moda, 
che sublima in estasi. (p. 57)

Anche l’idea di poesia avanza passi divergenti «Scrivo versi che a leggerli mi stanca. / Pensieri né falsi né veritieri, fantasie/ a rischio di impigliarsi nell’ali prestigiose / di Cupido, o dar retta alla favella dei morti.» (p. 44)
E c’è un bel cannocchiale puntato sull’amore «Apparve per primo il corpo, / poi lui festoso a schioccare le dita. / Mi chiese. Gli chiesi. / E ci addestrammo per strade incerte/… Ma fu un agosto fulmineo / e per sempre.» (p. 43)
È una storia a finale aperto. Ed è giovane. Restano impronte è la resa dei conti, lucida e disincantata, dove è subito enunciata la modalità di trascrizione di una percezione stabilmente codificata. «… Il modo di afferrare la spalliera /ad esempio / e spingerla in ombra sul balcone / finché non è più una sedia.» (p. 73)
Certo, ci sono le incursioni inaspettate della malinconia «Nasce dall’oscurità, / da dietro un vetro smerigliato. / Vaga / e poi s’arresta in sospensione / sul crudo della scena. / È la malinconia / la carestia del pane, / che non lascia molliche,…» (p. 77), e in sottofondo l’ombra di chi invecchia (gli amici? gli amanti? quelli che già se ne sono andati?), forse, per sostenere questo ben controllato dolore, basterebbe allontanarsi, specchiarsi nel riflesso della luna, nel suo tempo perso, nella sua dubbiosa eternità.
Sarebbe davvero più che semplice «Si tratta d’allontanarmi e tornare / attraversare il fascio di luce / scivolare nei bulbi / lungo il diametro delle sfere / a perdermi nel tempo perso dalla luna / a specchiarmi nel riflesso di lei / che sempre dubita. (p. 81)
Anche il codice della scrittura qui è più adeguato a una condizione diversa, si lascia indietro il sogno della metafora, si stringe sulla realtà con parole ben tramate nel tessuto del testo, non è meglio, né peggio, è altro e anch’esso funziona nel ruolo della poesia che è ricerca incessante.
Ostinata sorte sembrerebbe enunciare una parabola tutta conclusa, ma il cancello dell’hortus è aperto per uscire e per entrare, la vita è sempre in fieri. «… allora piego l’indice / che più non sa cosa indicare, / un’ossatura senza scafo / per navigare.» (p. 101) una saggia frequentazione del tramonto e soprattutto una poetica confidenza con l’idea di declino, per continuare ad andare sulle rotte della vita. Ora c’è il coraggio della dedica senza la trasparenza della poesia che in altre occasioni ha decifrato il pudore. La dedica è enunciata L’amico che amava l’arte. «… noi di spalle dal pontile, / a sua memoria, / ci sporgemmo a guardare Venezia. / Come nel quadro che più amava / del Tiepolo. (p. 121). E non ha senso cercare riferimenti tangibili, la poesia non lecca la superficie, lavora nel profondo. Lo scavo nella condizione umana è permanente e, nella consegna di verità insopportabili, trova l’autrice fortificata e anche interessata alla sorpresa. Anche quando lo sguardo punta a situazioni non più strettamente personali, anche quando «… sono gli orsi senza meta a urlare / che il mondo si ammala / che noi ci ammaliamo / che solo la malattia / può fermarci a pensare.»
Con questa silloge la poeta ci consegna il suo sguardo sulla sua storia, sulla sua esistenza, analizzata, spiata in ogni traiettoria, ma anche costruita e vissuta con consapevolezza e, soprattutto, amata. Avrebbe potuto scriverla in prosa, questa riflessione, questa memoria, perché no, ma ci avrebbe privato di uno stile che di per sé, muove l’emozione, va a cercare la mente, pone interrogativi, seduce.

Silvana Baroni
L’attitudine alla sorpresa
La Vita Felice, Milano, 2022, pp. 132

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Biografia di Luciana Gravina

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