LORENZO GRANILLO, Il guaito della retorica


Dichiarazione poetica

C’è che si ha sempre troppo da dire a diciott’anni e che, quando si imbastiscono versi, si rischia sempre di scrivere in maniera onesta, ed ecco che io mi sono sempre detto che non avrei mai parlato di me stesso. Non credo la Poesia debba essere per forza riproduzione dell’Io del poeta: la verità mi tedia, perciò ricerco il falso, l’eccesso sotto tutti i punti di vista per coprire il vuoto che mi circonda — cerco di non vedere la mia realtà, di allontanarmi da me stesso, e tutto questo per poter nascondermi dietro le parole, perché alla fine Madame Bovary ce n’est pas moi, e per poter sperimentare: scrivo del Dolore, di un malessere che non mi appartiene solo per poter scavare sempre di più, perché la menzogna è alétheia: verità che si disvela.

Così la mia poesia è sempre stata eccessiva: nelle immagini, nella destrutturazione del senso e del significato di ogni singolo termine, nel suicidio retorico cui mi condanno rinchiudendomi in quel Simbolismo in crisi, in quell’assenza di una qualsivoglia volontà di rivelazione che Luperini imputa a D’Annunzio. Qualcuno mi ha accusato di scrivere sempre e solo per me stesso, ma non è vero: ho sempre scritto prima di tutto per me stesso nella speranza qualcuno potesse aggrapparsi alle mie parole e potesse empatizzare coi miei versi, non con me. Se potessi, se non vivessimo nell’epoca dell’ipertecnicizzazione, sparirei: l’uomo non è il poeta e il poeta non è l’uomo.

E così giungiamo all’ultimo punto, perché, se ciò che scrivo non mi appartiene, allora il linguaggio è totalmente antitetico a quel che sono io: mai spontaneo, sempre vertiginoso, in bilico tra la purezza e la violenza giustificata, perché essa può essere mezzo che conduce al Bello, all’ideale che annega nel fango, e noi scrittori siamo cleptomani di parole e non possiamo costruire nulla senza prima aver distrutto qualcos’altro, così come non possiamo distruggere qualcosa senza che esso esista: saremo anche nani sulle spalle di giganti, ma il passato necessita di essere rielaborato, senza aver la presunzione di attualizzare ciò che è già stato, spesso forzando solo l’opera d’arte originaria, ma creando qualcosa di nuovo che sia radicato in esso. Perché alla fine il tempo è circolare e tutto torna. E la vera Letteratura è pornografia: rivelazione di qualcosa che alberga nel lettore (l. g.).

 

* * *

 

Stranieri nel paese di Amore

Siamo carni screziate di sogni,
attimi di esistenze edulcorate
da albe incavate nelle finestre
e fiori rigettati da ventri gonfi

di vita. Siamo piattume poetico,
sudiciume di essenze deflorate
dall’Arte, tramonti rigogliosi
cuciti con dita di morte schiarita,

tradita. E, mentre incede la notte
e l’Io si dirama tra lirismi astemi
di teoremi, incensiamo il dolore:
noi due siamo stranieri nel paese

di amore.

 

 

Perpetrate abbracci

credo nell’arte
e nel perpetrare abbracci
come distruzione
nulla è più letale d’un amore
impasticcato
di latrati di silenzi censurati
nell’esistenzialismo di cosce scoscese
che costeggiano spinte abdicate
quando gorgogliano i pubi
e ci accasciamo su carta straccia
violata da cieli puntellati di strazio.

siamo infinito
confinato nel finito
guerra di membri digrignati
per fendere l’immenso
bambini
appena nati
che bramano la terra
madre profanata
da petti come carceri
e braccia come spine.

incensate la carcassa
del nostro amore.

 

 

Ho un cuore di creta

Sono colpevole di questi pianti
embrionali: ormai anche la violenza
degli abbracci scialati a queste mie ossa
accartocciate m’è greve. Ho un cuore
di creta e basta poco per forgiarlo:
un complimento reciso da libri
infangati di morte, una poesia
di dolore da incidere sul ventre
corazzato di peli o una battuta
porno da declamare con la verve
di chi finge d’avere l’onestà
dell’acqua nelle membra, che mai mente
a chi non ha lo sguardo lutulento.
Sempre sarò cielo ornato di gemiti:
lontano, eppure assuefatto al tuo membro,
che m’ha sfamato persino quando, empio
di boria, ho pensato di levare
il capo e ribellarmi alle sevizie
con cui hai saturato le mancanze
che avevo. E ora riesumo le memorie
per fingere tu sia una tempesta
che mi sconquassa e forse porta l’incavo
del tempo a saturarsi di senso: noi
non siamo più niente, se non la retorica
a cui m’avvinghio perché tu sia vivo.

 

Io non ho bellezza

Per ogni volta che ho eretto querce
per nascondere l’essere una rosa
dal grembo putrefatto, ingolfato
dal desiderio di grandezza: chiedo
perdono. Io non ho bellezza qui,
tra gli sguardi blindati di miseria,
tra i pianti arrugginiti dall’inedia
di amore: ho solo voglia di vita.

 

 

Il guaito della retorica

Sei
il guaito della retorica: strilli
e io ascolto i tuoi inni raschiati
dal caos. Ed è distopica
la parola: lubrificata di verve
dovrebbe scivolare tra le celle
di significanti. Invece barcolla
tra l’isteria di versi dispersi
e si riscopre vuota. Come te.


Biografia di Lorenzo Granillo


 

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