LAURA CUMMING, Mira Schendel. Un articolo per la mostra al Tate Modern di Londra (note, immagini e traduzione dall’inglese a cura di Giorgio Moio)


Se non avete mai sentito parlare di Mira Schendel 1 ‒ pittrice, poeta, scultrice, rifugiata ebrea dall’Italia fascista ‒ allora non siete affatto da soli. Schendel è estremamente famosa in Brasile, dove alla fine ha trovato un punto d’appoggio, ma praticamente sconosciuta da queste parti 2. Il suo lavoro è bello, pensoso, eccentrico e così delicato che potrebbe volare via in un respiro, che è in parte il suo punto e forse uno dei motivi per cui ne abbiamo visto così poco. Gran parte del lavoro di questa grande retrospettiva non ha mai viaggiato al di fuori dell’America Latina.

Nata a Zurigo ma cresciuta cattolica in Italia 3, Schendel (1919-1988) studiava filosofia a Milano quando venne privata della sua cittadinanza perché ebrea. Nel 1939 fuggì dall’Italia come rifugiata senza documenti; sembra che attraversò diversi paesi di nascosto prima di arrivare a Sarajevo, dove sposò un croato e acquistò i documenti che portarono entrambi in America Latina. Sarebbe esagerato descrivere la sua arte come inquieta, ma c’è un senso preciso in cui quel passaggio attraverso l’Europa si registra nel suo lavoro 4.

Le splendide nature morte nelle prime sale di questa mostra, ad esempio, hanno chiare connotazioni con Paul Klee e Giorgio Morandi: paesaggi urbani fantastici, vasi silenziosi sul tavolo. Ma Mira, mentre firma se stessa, irrompe ad ogni svolta. Uno stupendo dipinto, così semplice eppure così ricco, mostra un cucchiaio, una tazza e un paio di giare disposte come piccoli monumenti in una composizione geometrica dal colore del rame antico e del bronzo patinato. Aveva un metodo per far sembrare il mondo antico e al contempo vividamente moderno.

Troppo povera per comprare vernici appropriate, Schendel ha lavorato con combinazioni economiche tagliate con talco e polvere di mattoni, cosicché alcune delle superfici ora sono fortemente friabili come un vecchio gesso. Le immagini sono state fatte sul tavolo della cucina (non aveva uno studio), assemblate in collage o dipinte con carboncino bagnato, come il brillante ritratto di una bottiglia d’acqua di notte, fluido chiaro che brilla nell’oscurità.

Quando un amico apparve con una risma di carta di riso, Schendel trovò sia il suo medium che ‒ in un certo senso ‒ il suo messaggio. La carta di riso 5 è lì e non proprio lì, qualcosa su cui puoi dipingere ma quasi invisibile in sé, una superficie così diafana che è quasi trasparente. I suoi Bordados (Ricami) sono stati realizzati posando carta di riso su lastre di vetro cosparse di talco e inchiostro e disegnando sulla carta con l’unghia. L’effetto è una poesia zen di piccoli segni-simboli, numeri e lettere che quasi assomigliano a parole ma rimangono solo da questo lato dell’astrazione visiva.

I simboli marciano, volteggiano o si ammassano, scorrono in vaste spirali o si aggrappano insieme come sciami di api impegnate. Appaiono su fogli di carta di riso che svolazzano dal soffitto su fili invisibili; compaiono dietro il vetro-immagini che si possono quasi leggere; appaiono intrappolati in perspex come mosche nell’ambra.

In una vasta installazione, molti fogli penzolano nel nulla, un giardino pensile di disegni in miniatura, scintillanti davanti a te. La carta è così sottile che è possibile vedere entrambi i lati dell’immagine contemporaneamente. «La parte posteriore della trasparenza si trova di fronte a te», ha scritto l’artista, «e l’‟altro mondo” si rivela essere questo».

Può non aver mai completato i suoi studi, ma Schendel è rimasta un filosofo fino all’ultimo. La sua arte ha le sue origini nella fenomenologia, nell’idea dell’essere e del nulla, nel pensiero mistico e nella sua profonda lettura di Wittgenstein. Ma l’impatto di queste opere non dipende dal fatto che lo spettatore condivida quella conoscenza o quegli interessi.

Schendel potrebbe isolare una singola lettera su un foglio trasparente perché è sul punto di non rappresentare nulla ‒ né lingua né forma ‒ ma avrà comunque il forte potere di incantare. Ho particolarmente amato la sua L maiuscola, marciando avanti e indietro in tutte le direzioni come lunghe gambe con gli stivali, fino a che non si allontanano in una folla di passi ovattati in lontananza.

Una delle 14 gallerie di questa mostra (Schendel era freneticamente prolifica) sembra improvvisamente brasiliana, piena di fresche sculture bianche che ricordano l’elegante arte di Hélio Oiticica, Lygia Pape e il movimento neo-croncreto. Una meravigliosa fila di fogli di carta di riso, appesi come tanti lavaggi, crea una continua gorgiera attraverso la galleria che fluttua mentre ci si muove.

Strisce acriliche trasparenti, fissate insieme in diverse permutazioni, si spostano dal soffitto, proiettando un fremito di ombre sempre mutevoli contro il muro: l’essere e il nulla, per essere sicuri.

Ma anche se Schendel è diventata una decana dell’arte brasiliana, c’è qualcosa di singolare nel suo lavoro. Lo si vede nei bellissimi dischi di perspex inseriti con simboli microscopici che agiscono come prismi, proiettando nuove immagini luminose contro il muro, attorcigliando e girando i loro fragili fili come foglie d’argento.

Lo si vede nei lavori perforati, dove lei usa una punzonatrice per creare costellazioni in miniatura in carta scura o un vertiginoso carnevale di dischi in bianco e nero. E lo si vedi soprattutto nel coronamento di questa mostra, realizzata per la Biennale di Venezia del 1969 e ora ricreata alla Tate Modern. Il titolo stesso ‒ Still waves of probability (Vecchio Testamento, I Re, 19) ‒ va al cuore della sua caratteristica combinazione di estremo rigore e fantasia mistica.

Un grande diluvio di fili di nylon cade dal soffitto, schizzando sul pavimento come le onde di un oceano, i morbidi riccioli di una ragazza, o gli spruzzi di pioggia battente verso l’alto. La visione è perfettamente semplice e completamente affascinante. Non si possono vedere i fili, precisamente, eppure in qualche modo appare la visione: la visibilità dell’invisibile.

(in «The Guardian», Domenica, 29 settembre 2013)

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1  Nacque all’anagrafe come Myrrha Dagmar Dub. È morta a San Paolo all’età di sessantanove anni nel 1988 per cancro al polmone.

2  Quando arrivò a San Paolo nel 1953 (viveva a Porto Alegre e si era appena separata dal primo marito Josep Hargesheimer, un croato cattolico), il modernismo brasiliano era dominato da un dibattito tra figurazione e astrazione. Ma stava cambiando quasi radicalmente l’arte in Brasile, portando, nel 1952, alla fondazione del movimento artistico “Concrete Ruptura” che proponeva un’arte astratta-geometrica. Parallelamente, nello stesso anno, il gruppo “Noigandres” (Haroldo de Campos, Augusto De Campos, Decio Pignatari) teorizza la poesia concreta: «Come dichiarato dai tre teorici e praticanti di questa nuova forma di poesia nel Piano pilota per la poesia concreta (di seguito riprodotto), Pound costituisce uno dei precedenti che fanno da pilastro per la formulazione del loro progetto insieme con Mallarmé, Joyce, Apollinaire, Cummings, De Andrade e De Melo Neto, oltre ai futuristi e ai dadaisti. Da questi precursori e contemporanei nasce l’ispirazione, gravida anche di significati socio-politici, per un superamento del verso con il ricorso alla scrittura ideogrammatica e “all’atomizzazione” o disgregazione sia della parola sia del puro segno grafico» (Maurizio Spatola, “Grupo Noigandres” e la Poesia concreta, Décio Pignatari e i fratelli De Campeos, in «www.archiviomauriziospatola.com», 21 gennaio 2017).

3  Il 20 ottobre 1920, prima di trasferirsi in Italia, fu battezzata su richiesta della mamma presso la Chiesa di San Pietro e Paolo di Zurigo. La cittadinanza italiana e la religione cattolica non le impedirono di essere perseguitata dal regime fascista, a causa delle leggi razziali introdotte nel 1938, per via della sua origine ebraica.

4  In Brasile, dove si stabilì, e per la precisione a San Paolo, trovò una cerchia di intellettuali emigrati di diverse discipline con cui discuteva di idee sull’estetica e sulla filosofia, tra i quali il filosofo ceco Vilem Flusser che la introdusse allo studio della fenomenologia e della lettura di Wittgenstein.

5  Ricevette in dono la carta di riso da Mário Schenberg nei primi anni ’60; iniziò a usarla nel 1964 realizzando in poco più di un anno, circa 2000 disegni monotipo.


Biografia di Laura Cumming


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