GIOVANNI POLARA, Dove la terra trema di Giorgio Moio e Pasquale Della Ragione

Due racconti d’annata, si potrebbe dire d’epoca. Tutti quelli che hanno una certa età ricordano quando nei Campi Flegrei la terra prima tremava, poco magari, ma tanto spesso, e quando a tremare è un bestione così grosso i poveri pidocchietti come noi hanno tutte le ragioni per preoccuparsi, figuriamoci se ci si trova in uno dei posti più pericolosi del mondo. I primati sono una bella cosa, ma certe volte se ne farebbe davvero a meno: “vid’ ’o mare quant’è bello”/”quant’è bella ’a muntagna stasera”, sì, non c’è male, ma si potrebbe avere un po’ di pianura antisismica, tranquilla magari noiosa? Non per starci sempre, perché non reggeremmo, ma così per farci una vacanza, per vedere che cosa succede quando e dove le cose vanno sempre allo stesso modo e non ci si deve inventare ogni giorno come campare e scampare. Lì poi la cosa ebbe anche un nome bello, pieno di ricordi greci – e in effetti anche lì non ci si scherza: “flegreo”, non a caso, è anche lui un termine greco – perché nella zona di Pozzuoli c’è, da sempre, il bradisismo, una cosa come il bradipo, quella buffa scimmia che cammina sugli alberi a testa in giù e soprattutto lentissimamente, perché mangia poco e male, e non ce la fa ad andare come tutti i cristiani (galline, cavalli, lucertole).

Il bestione si alza, ma piano piano: pochissimi millimetri al giorno, ma alla fine del mese sono centimetri, e negli anni fanno decimetri, e le case vengono giù, perché magari un lato si alza più dell’altro, e comunque una casa per bene non si dovrebbe muovere per nessuna ragione: è poco serio, poco professionale. Quando poi ti dicono che quello che davvero succede non è niente in confronto con quello che potrebbe succedere, perché se decide di arrabbiarsi davvero sono guai anche a trenta chilometri di distanza, volano massi e ceneri, che sembrano leggere leggere, ma quando si depositano per metri e metri fanno crollare tetti e solai e seppelliscono tutto – meglio abbrustolire in un momento che soffocare con la bocca e il naso pieni di polvere – puoi fare tutti gli scongiuri che vuoi, dai più raffinati e tecnologici a quelli più antropologici e appaganti, ma rimani con una paura del diavolo e cerchi di organizzarti un modo per sopravvivere, almeno metaforicamente, perché più di quello non ce la fai.

Della Ragione e Moio ci parlano della vita di quegli anni, con qualcosa di vero e qualcosa di inventato, giocando con garbo a non mettere in primo piano il mostro, che spicca più nel titolo che altrove, Dove la terra trema. Il primo racconto, quello di Pasquale, La mente febbricitante, scorre in forme più tradizionali, guadagnando l’attenzione e la simpatia del lettore con qualche scarto stilistico, con qualche agudeza che lo spiazza e lo fa meditare, cosa che ci capita sempre più raramente, perché ormai sappiamo che non ci si può stupire di nulla: «Capirai! esclamò silenziosamente in bocca, senza aprirla»; i personaggi si rincorrono di pagina in pagina, vivendo le loro storie senza troppo coinvolgimento dell’autore, anche se a Pino è dedicato non solo lo spazio che spetta al punto di vista principale, ma anche una collocazione incipitaria («Pino era stato invitato alla festa dei compagni …») che confligge con la consuetudine teatrale per cui il protagonista, e soprattutto la protagonista, deve farsi attendere, perché anche i ritardatari debbono potersi godere la sua entrata in scena. Poi facciamo la conoscenza con Sandro, Giò, Antimo, Peppe, Aldo, Gigi e solo dopo più di metà del racconto tutta rigorosamente al maschile (prima c’erano state soltanto un’anonima nonna, e solo per la triste circostanza della sua morte, e un’altrettanto anonima mamma, meno definitivamente addormentata) compare finalmente col suo anonimo ragazzo Giulia, e subito dopo Marta, che ha un’identità perché è la ragazza di Aldo.

La storia di quel Capodanno del 1978 scorre dai preparativi per andare o non andare alla festa a un viaggio in macchina, individuata, a differenza di nonna e mamma, con un suo nome ben noto in quegli anni in cui era assai più diffusa che apprezzata, la 850 (ovviamente Fiat), ai ricordi del recente servizio militare, alla casa in cui si svolge la festa, col Mar piccolo e il Mar grande, ai pensieri che affollano la mente in una festa tutta sull’impegnato e sul politico, dove l’unica droga che gira è il vino: Pino, al massimo della frustrazione, si sente estraneo al resto del gruppo, «perché se lui poteva accettare di chiudere gli occhi, anzi l’aveva cercato, gli altri no, gli altri dovevano ribellarsi al nulla, alla noia, alla morte, dovevano lastricare, illuminare le proprie tombe».  Poi l’incendio di una delle macchine del gruppo, per un rifornimento artigianale fatto senza la necessaria attenzione, e il penoso ritorno con la sensazione di aver sbagliato tutto, ma anche di non avere avuto, in fondo, alternative ragionevoli.

La banalità di quella che doveva essere una serata particolare è descritta abilmente: a partire già dalle prime pagine si capisce che non ci si può aspettare nulla di speciale, che il conflitto fra le attese e i risultati sarà condotto in maniera spietata, e senza nulla concedere al fantastico e a Cenerentola; ma nel racconto si inseriscono squarci di luce attraverso le riflessioni che proprio l’angoscia dell’inutilità riesce a far nascere, dimostrando che da ogni occasione, anche quella considerata assolutamente infruttuosa, può venir fuori una conquista inaspettata: «Aveva capito che questa era la poesia, il fermare il tutto e entrarci, scrutarlo rimettendolo in moto, soprattutto i ricordi del passato, che facevano da rilancio alle storie e comportamenti dell’oggi, nulli, rendendolo così protagonista del suo presente; e fu molto contento di quella sua scoperta».

Giorgio gioca diversamente il suo pezzo, che dà il nome al libro, e già dall’aspetto grafico. La punteggiatura è sostituita, tranne che per le virgolette, da sbarre verticali, che danno un bellissimo aspetto alla pagina e richiamano la divisione del testo in cola e commata, secondo il modello della retorica tardoantica e soprattutto cristiana, che introduce la versificazione nella prosa (i versetti della Bibbia); il racconto è in prima persona, con forte presenza dell’autore protagonista, sia per l’andamento che ha qualcosa del monologo interiore, come quello di Molly nell’Ulisse, sia per le puntuali, ridondanti determinazioni di luoghi e persone, come avviene nelle narrazioni dei dialoghi reali: «il Rione Terra | da una ariosa finestra del mio studiolo di Palazzo De Fraja Frangipane»; «la chiesa di San Celso | alla fine di via del Duomo»; «don Buono | con quei suoi occhi spiritati», o l’elenco e la collocazione dei cinematografi di Pozzuoli, solo per rimanere alle prime due pagine.

La descrizione minuziosa tanto dei campi lunghi quanto dei primi piani è una delle maggiori qualità di un racconto tanto ricco di finezze lessicali e di sorprese che quasi prevarrebbero sulla trama se questa non fosse abilmente costruita quasi come in un giallo, sicché l’attenzione non rischia di disperdersi tra «qualche odore di geranio», «puzza di pesce e piscio fresco» e «una pezza fetente». La splendida descrizione della casa e della famiglia di Cesare si apre con una serie di immagini accattivanti che appartengono ai luoghi attraversati per arrivare fin lì: un’aiuola ornata di granito rosso e ben curata, anche se con poca fantasia, il rione a picco sul mare, la piccola chiesa dell’Assunta, un cortile infiorato; poi la sorella di Cesare, Carla, che apre la porta. Carla è presentata con parole di rispetto e simpatia che ne fanno un personaggio immediatamente simpatico: non indulge a pretese di eleganza, «ha i capelli grigi come il cielo a novembre | nonostante non sia tanto anziana | … |e possiede un paio d’occhi cerulei dipinti su quel grazioso volto | belli come il sole in un mattino d’agosto», un ritratto che dimostra un atteggiamento affettivo («quegli occhi sono troppo belli per una zitella»), che prosegue con la scelta di farla parlare in dialetto, per avvicinarsela per quanto possibile.

Perciò è giusto che proprio da Carla sappiamo chi sia l’io narrante; sapevamo già che faceva ripetizioni di matematica a Cesare, che però è presentato come «il mio amico Cesare», dunque in un rapporto fra uguali che non corrisponde a quello di discepolato, ma Carla svela il segreto: «ah | site vuje | buongiorno pruvessò». Il protagonista era amico del padre di Cesare e Carla, perché avevano fatto insieme la campagna di Abissinia; non sarà quella di fine Ottocento, ma anche se si tratta della guerra del 1935-1936 il protagonista non può essere un giovane. Solo alla fine del racconto sappiamo che la vicenda è collocata nel 1970, ma a quella data un soldato del 1935 non poteva avere meno di una sessantina d’anni, e questo ci costringe a ripensare tutto, se – abituati all’ambiente del primo racconto – avevamo visto in lui un ventenne, o al massimo un trentenne.

Da Carla sappiamo qualcosa di più anche su Cesare, o almeno su Cesare come lo vede lei: a dispetto delle lezioni di matematica che gli dà  “’o pruvessore” non è una cima nemmeno in aritmetica, «tanno ce credo quanno ’o sento ’e cuntà fino a dieci», e ha un rametto di follia nemmeno tanto piccolo, visto che rompe i vetri per ricavarne un frammento da portare all’angolo di via Duomo, chi sa per farne che, ed è convinto che Pozzuoli un giorno o l’altro si alzerà, perché adesso sta seduta; ma è un matto contento che sa far fruttare la sua posizione e non è disposto a cederla a nessuno, meno che mai alla sorella, il cui unico problema è quello di non riuscire a trovare un marito come invece vorrebbe, a ogni costo e senza particolari pretese: anche il professore coetaneo di suo padre andrebbe bene, se appena appena dimostrasse un minimo di disponibilità. Ed è sempre Carla a dirci che lei e ovviamente Cesare fanno di cognome Capece, che a casa arrivano tante telefonate per il fratello, soprattutto dalla moglie da cui è separato, ma anche da altre persone che vogliono da lui un appuntamento: «credono di procurarsi gli appuntamenti a qualsiasi ora d’ ’a jurnata | come si fosse nu diritto | cca sta ’e casa nu spustato | mica na chiorma ’e puttane».

Mentre i due, en attendant Cesare, chiacchierano del più e del meno, il fallimento del matrimonio di Cesare, di una cugina, dell’America, di un amico di Cesare che è passato in mattinata alle dieci con moglie e figlio e con cui Cesare è uscito borbottando e amareggiato per chi sa che cosa, arriva il colpo di scena: “Aprite, polizia!”. Un ispettore è venuto a prelevare il professore – e dall’autorità sappiamo che se Cesare è Capece il professore è Apicella – per portarlo al commissariato a rendere testimonianza su una rapina avvenuta poco prima in una tabaccheria. Apicella a quell’ora era già in casa Capece, e di lì la tabaccheria nemmeno si vede, ma c’è uno che ha detto di domandare a lui, un altro testimone oculare. E chi mai può essere? Cesare, naturalmente; è lui che ha combinato all’incolpevole e ignaro Apicella questo bel guaio. In realtà non c’entra la rapina, ma Cesare ha chiesto che  Apicella fosse portato in commissariato per fargli da interprete, perché la polizia non lo capisce, e lui invece deve raccontare il suo sogno: il 2 marzo 1970, fra cinque giorni, ci sarà “un forte bradisismo” che potrebbe fare migliaia di morti, e bisogna prendere provvedimenti. Cesare – dice l’ispettore – smania e rischia di dare in escandescenze, fino all’autolesionismo, o peggio di procurare un incontrollabile allarme fra la popolazione, perciò bisogna fare qualcosa per calmarlo.

Apicella capisce quello che sta succedendo, e segue il poliziotto: “finalmente potrò vederlo”, si dice, nel suo consueto atteggiamento di chi è capace di trovare qualcosa di buono anche nelle situazioni meno gradevoli, e qui, quando tutto dovrebbe cominciare, il racconto finisce. Ed è giusto che sia così: anche se il racconto è ambientato in una giornata domenicale Giorgio ci ha dato un bellissimo sabato (del villaggio), una di quelle vigilie che valgono più della festa. Qualunque cosa potesse dire o fare “’o spustato” non sarebbe mai all’altezza della curiosità che l’autore ci ha saputo dare, e perciò Cesare non deve comparire sulla scena, ma dominarla in assenza, come il fuochista delle Voci di dentro, e noi restiamo senza la conclusione; o meglio, restiamo con la possibilità di darci tutte le conclusioni che vogliamo, una per ogni giorno quante sarebbero dovute essere le Novelle per un anno, e con questo regalo, con questa finissima provocazione del chiamarci a coautori, a corresponsabili, regalandoci un altrove che non si chiude con l’ultima pagina del testo ma possiamo proseguire come, dove e quando vogliamo, Giorgio – con Apicella – si congeda discretamente da noi ma con noi rimane, almeno fino a quando i Capece, gli altri personaggi e i luoghi della terra che trema resteranno nel nostro ricordo.

GIORGIO MOIO - PASQUALE DELLA RAGIONE
Dove la terra trema
Prefazione di Giovanni Polara

Youcanprint, 2015 - pp. 80 (narrativa)
/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.