GIOVANNI CARDONE, Un’Analisi e una Riflessione sull’Arte Povera

POETI – ARTISTI – PERSONAGGI DA RICORDARE


(Questo scritto di Cardone vuole essere anche un omaggio in memoria dello storico dell’arte Germano Celant, deceduto a Milano il 29 aprile 2020)

 

Germano Celant

Questo percorso nasce da un mio studio sull’arte povera che poi in seguito è divenuto un saggio sull’Arte Povera e sulla figura di Germano Celant, questa definizione viene data nel 1967 dallo stesso critico per indicare le ricerche che usano in modo diversificato materiali non legati alla tradizione dell’arte, come legno, carta, brandelli di stoffa, gesso, pietre e paglia oppure altri elementi come la terra, l’acqua e il fuoco. Si tratta di processi creativi che mirano a riscoprire quelle forze profonde dell’immaginazione che rimangono inespresse, attraverso un viaggio alle origini della facoltà percettive. Con il termine “povera dell’arte” si intende dunque recuperare il valore primario dei materiali, vissuti nel rapporto diretto con la vita quotidiana e percepiti nella loro forma originaria, fuori dall’uso e del significato assunto nella società dei consumi. In occasione della prima mostra Arte Povera – IM  Spazio, organizzata da Masnata e Trentalance presso la loro Galleria “La Bertesca” a Genova nel 1967, tra il 27 settembre e il 20 ottobre, curata da Celant, compare per la prima volta, a sorpresa, la dicitura “Arte Povera” poiché, come ricorda Pistoletto: «È solo nel catalogo che si è scoperta l’espressione “Arte Povera”, di cui nessuno sapeva nulla prima dell’apertura della mostra stessa».

Un termine strano, che lasciava e lascia tutt’ora perplessi alcuni degli artisti che ne fanno parte come Pistoletto, che confida a Giovanni Lista: «Devi chiedere il perché di questa parola “povertà” a Germano Celant. Ho sempre avuto dei problemi in proposito. Personalmente, non so nulla di cosa volesse dire».

Le connotazioni che può assumere sono spesso ambigue, come fa notare sempre l’artista biellese: «Mi ha sempre causato una strana sensazione perché da giovane, facendo del restauro con mio padre, avevo avuto l’occasione di restaurare mobili definiti di “Arte Povera”, sistema decorativo veneziano del XVIII secolo. Non era pittura, ma una sua imitazione.

Così, quando sentivo questa parola, avevo sempre paura di questa idea contenuta nella parola “povera”. Oltretutto, temevo la connotazione politica, non la politica in sé, ma la connotazione del “politico” ripresa a quell’epoca». Talvolta possono addirittura compromettere la corretta comprensione del lavoro di questi artisti, come quando l’aggettivo è associato a una miseria di intenti e mezzi che non rientrava nelle idee e nelle inclinazioni del gruppo.

Mario Mertz

A questo proposito Merz riferirà in un’intervista qualche anno dopo lo scioglimento del gruppo: È una definizione questa che mi piace poco, perché riduce il nostro movimento a un fatto esclusivamente mercantile. C’era effettivamente in gioco il concetto di valore, ma si trattava di ben altri valori. C’era in gioco il ruolo stesso dell’arte e dell’artista nella nostra società».

Ma con il termine “povero” Celant si riferiva a ben altro, a una concezione del termine che esula dall’uso comune e che si rifà al progetto e alla scuola del teatro povero di Jerzy Grotowski, in cui il regista e l’attore rifiutano tutti quegli elementi superflui una ricchezza di sovrastrutture espressive con cui il teatro si è sempre soffocato e che ostacolano il vero incontro dell’interprete con se stesso e con i suoi impulsi, per avviare una ricerca personale volta a rimetterlo in contatto “con gli strati intimi del proprio essere” e che si traduce, sul piano della recitazione, in un gesto puro e semplice, “essenza di un’espressione integrale”.

Nel primo saggio critico dedicato all’Arte Povera, redatto in occasione della prima mostra genovese, scrive Celant: «Eliminano dalla ricerca tutto ciò che può sembrare riflessione e rappresentazione mimetica, abitudine linguistica, per approdare a un tipo di arte che ci piace chiamare povera. Il teatro elimina la sovrastruttura scritto-parlata, realizza il silenzio fonico e la parlata gestuale. Le situazioni umane elementari diventano segni, nasce l’esigenza di una vera semiologia basata sul linguaggio dell’azione».

Questa eliminazione delle convenzioni iconografiche parassitarie per ridursi alla semplicità del segno in Grotowski si presenta come unico modo per conferire a quell’incontro che è il teatro la pregnanza di un’esperienza diretta e povera di artifici tecnici, basata su gesti autonomi e dotati di una sostanza propria e che si pongono lungo quel filo che collega l’attore allo spettatore. Si rimane all’interno della pratica teatrale, Grotowski si oppone solamente a un certo modo di fare teatro. Al contrario in Celant la depurazione del linguaggio si pone come atteggiamento in aperta opposizione

non solo nei confronti del modo di fare arte ma anche rispetto alle dinamiche culturali e del sistema dell’arte allora in atto: il rifiuto delle costruzioni stilistiche e la nascita di una “decultura” all’insegna dell’“insignificante visuale” e delle azioni vengono sbandierati come i comandamenti fondanti un nuovo movimento anticulturale non tanto perché si senta il bisogno di un effettivo rinnovamento delle forme ma per creare una “nuova semiologia” che non può essere addomesticata dal sistema mercantile dell’arte. Eppure nella critica militante di Celant non si riesce a rintracciare un manifesto degli ideali politici definiti in maniera chiara, la cui mancanza riduce il tutto a un contrasto superficiale, genericamente “anti”. Tra l’altro, il rifiuto della sostanza fonica e del testo che Celant riconduce a Grotowski non è presente nella teorizzazione del regista polacco. In primo luogo, il suono e la voce sono considerati, al pari del gesto e dei movimenti, segni ed espressione dell’essere.

In seconda battuta il testo, se da un lato non deve essere “la fonte creatrice del teatro”, dall’altro però è lo “stimolo del processo creativo” e avvia il processo di presa di coscienza personale.

Questo perché in Grotowski il testo non deve essere interpretato o rielaborato, ma essere l’innesco di una creazione teatrale in cui le parole in sé perdono d’importanza e diventa fondamentale solamente ciò che si può ricavare da esse, ciò che gli dà vita e le trasforma in “Verbo”.

Molti altri sono gli elementi prelevati dalle tesi di Per un teatro povero: intanto non può non saltare agli occhi la medesima contrapposizione a un’arte ricca, che opera una cleptomania del sistema, dei linguaggi codificati e artificiali.

C’è poi da sottolineare come la simultaneità di idea e immagine che concretizza le opere artepoveriste non sia nulla di diverso dalla contemporaneità di impulso e azione che negli attori si traduce in impulsi visivi. Allo stesso modo, l’artista che «diventa il linguaggio di se stesso e lo è, con il suo corpo e i suoi gesti», si colloca sullo stesso orizzonte dell’attore che ricerca “il proprio linguaggio psico-analitico personale di suoni e gesti”. Inoltre Celant tenta di liberare la nuova arte dal giogo della sua stessa storia applicandovi le conclusioni di Grotowski, elaborate esclusivamente per il teatro, come se l’arte potesse trovare la soluzione dei suoi problemi solamente al di fuori delle sue possibilità d’azione, in un ambito ad alto livello di specificità e con una storia altrettanto corposa e ingombrante alle spalle.

Con ciò non si vuole dire che le invasioni di campo, i prelievi di stratagemmi e tecniche tra un’arte e l’altra siano impossibili o sbagliati, anzi, sono proprio ciò che anima, vivifica e rinnova i diversi linguaggi, i quali tuttavia per evolversi in nuove forme dovranno ragionare sugli elementi costitutivi che li differenziano a livello essenziale dagli altri e gli conferiscono quelle caratteristiche proprie che li rendono ciò che sono e nient’altro.

L’atteggiamento “anti” di Celant si inasprisce man mano che la costellazione dell’Arte Povera si avvicina al teatro, tra il Deposito d’Arte Presente, il gruppo Zoo di Pistoletto, le scenografie di Kounellis e le installazioni di Calzolari, nonché in seguito ai contatti di questi ultimi con il Living Theatre. È infatti in occasione della rassegna di Amalfi e di quelle azioni che invece di chiamarsi “atti in libertà”, secondo l’idea iniziale di ispirazione futurista di Lista e Rumma, si chiameranno anch’esse “povere”, che l’Arte Povera verrà vestita da Celant con il manto dell’anarchismo pacifista proprio del gruppo teatrale di Judith Malina e Julian Beck. Eppure, invece di essere assunto come obiettivo politico e sociale traducendosi anche in azioni di reale protesta e impegno civile come avvenne nel Living Theatre (l’unico che seguirà questa via sarà Gilardi), è ancora una volta semplicemente, genericamente “anti”.

Tronco-opera di Piero Gilardi

Ancora una volta il teatro viene assunto a strategia rivoluzionaria, con l’attore come “forza crito-politica” per la creazione di una “recitazione globale” e di una nuova classe che all’oggettualità del corporativismo oppone “azioni che espongono la propria processualità”. Ma queste operazioni critiche non sono che esercizi stilistici, in pieno accordo con la tendenza postmoderna: l’utilizzo di termini e toni legati all’attivismo politico, la guerriglia, la carica eversiva, l’“agire la realtà” come fatto politico, sono citazioni di un linguaggio specifico assunto a stile.

È proprio questa forzata connotazione politica della rassegna di Amalfi che se da un lato trovò d’accordo molti critici, dall’altro preoccupò molti artisti che non la condividevano affatto: per esempio, Pistoletto e il gruppo Zoo scrissero, in una lettera inviata a Marcello Rumma il 5 dicembre 1968 che «Noi non aderiamo, non facciamo parte e non accettiamo il termine arte povera benché amiamo gli amici con cui ci siamo trovati ad Amalfi.

Per noi il termine povero va bene e basta, perché esso equivale a ricco mentre il termine arte vuol dire ricco tu e povero io», mentre sembra che Jannis Kounellis si rifiutò di partecipare all’evento proprio a causa della sua potenziale politicizzazione.

Ancora più rilevante è il fatto che anche quegli artisti che vivevano la propria arte in maniera più politica si trovarono comunque in aperto dissenso con Celant per la sua volontà di costringere quelle esperienze in un apparato teorico, che lì mostrava le sue intenzioni di formalizzare, di avviare una codificazione di tutto il lavoro che noi andavamo facendo.

Piero Gilardi

Con il senno di poi si può constatare che Gilardi aveva almeno in parte ragione, perché a causa dell’operazione critica di Celant e degli studi innestatisi su di essa la costellazione dell’Arte Povera viene inscritta in parametri ben definiti e resa pertanto facilmente comprensibile e manovrabile, tanto da potersi approcciare a essa da un’ottica “spettacolare”, come direbbe Debord, impoverendone i contenuti. Come riferisce Alighiero Boetti a Mirella Bandini: «Nel 1968 erano accaduti alcuni fatti… si pensava di portare gli spettacoli negli stadi! Bonito Oliva voleva fare azioni alla televisione, era un’idea veramente pazzesca. Tutto questo ci trascinava ed erano i veri momenti falsi, della facilità, in cui ci lasciavamo andare ai primi impulsi. La mostra di Amalfi è stata proprio la nausea della fine».

Viene dunque avviata quella “duttile iniziativa di integrazione” che nel 1971 constaterà anche Celant stesso, in cui «le strutture d’uso [ossia il mercato dell’arte] con un gesto di falsa azione progressiva stanno tentando di tenere a guinzaglio l’artista e di ridurre la disusabile catarsi di arte in vita in ulteriore consumo», sancendo il definitivo fallimento del “tentativo di distruzione del mito della cultura” e del movimento dell’Arte Povera, senza rendersi conto di esserne stato uno degli artefici. Al termine dell’esperienza dell’Arte Povera, l’elemento che più di ogni altro si era perso era quella dimensione collettiva di collaborazione spontanea che aveva scandito i primissimi anni di entrambe le frange del gruppo, e che aveva lasciato il posto a esperienze individuali che ricercavano l’elemento partecipativo in aspetti diversi da quello della “comunità artistica”. Le attività dei singoli artisti continuarono così grazie al supporto di quei galleristi, talvolta i primi ad averli scoperti, che gli assicuravano un ampio spazio di libertà espressiva, soprattutto se confrontato con quello offerto dal progetto di Celant, in cui la prospettiva corale e le idee e le convinzioni del critico limitavano inevitabilmente le singole iniziative. Si pensi a Kounellis, entrato insieme a Pino Pascali nel 1966 a far parte degli artisti della Galleria “L’Attico” di Fabio Sargentini, dove nel 1969 avrà la possibilità di realizzare 12 cavalli vivi, o a Pistoletto, che nella galleria di Christian Stein allestirà tra l’ottobre del 1975 e il settembre del 1976 le dodici mostre consecutive de Le stanze.

Allo stesso tempo, tutta l’attività curatoriale contemporanea o precedente all’intervento di Celant, che si è avvicinata alle ricerche di stampo artepoverista da direzioni e presupposti diversi e che aveva riconosciuto nell’elemento mobile e febbrile di quei lavori non solo il loro significato ma anche l’ispirazione per le condizioni espositive più adeguate a sottolinearlo, è stata gradualmente sostituita da una critica soverchiante, che ha parzialmente fissato l’interpretazione di questa costellazione eterogenea e fluida. Senza voler sminuire l’importanza dei contributi apportati da Celant alla comprensione del fenomeno della cosiddetta Arte Povera, non si può non rilevare come un simile apparato teorico, che organizza le opere in modo tale da dare un senso e un ordine a una multiformità difficilmente avvicinabile dalle attività classiche del sistema dell’arte l’analisi storica, l’esposizione e la conservazione, il riconoscimento di un valore artistico ed economico si presenti come segno incontrovertibile di una postmodernità che può fare affidamento esclusivamente sugli appigli forniti dalle narrazioni a essa contemporanee per mantenere in efficienza le strutture tradizionali del sapere. Entrando nella sfera di influenza attiva di un’opera di Mario Merz per prima sopraggiunge un’impressione di straniamento, che nasce dalla sensazione di ritrovarsi in una dimensione alternativa ma allo stesso tempo familiare.

Mario Mertz

Uno spazio popolato da oggetti e materiali non avvertibili come tali, presenti ma allo stesso tempo impalpabili, privi di quella mondanità che ne rende possibile l’abitudine visiva e d’uso e ricondotti a una primordialità essenziale. L’oggetto viene infatti spogliato dei valori che socialmente gli si attribuiscono, dall’economico al funzionale, dall’estetico all’affettivo, per esser depurato da tutto il superfluo e dall’“idea di oggetto-oggetto” ed essere sintetizzato in una nuova forma.

In Merz quindi si assiste a una trasfigurazione di questi oggetti che non sono più oggetti ma entità di diverso ordine, sperimentabili a un livello puramente istintivo perché appartenenti a un passato ancestrale di cui non si ha ricordo eppure realmente percepibile, non ricostruibile in maniera razionale in una struttura logica: la coscienza non può far altro che prendere nota di un momento di afasico riconoscimento. In presenza di questi oggetti sublimati si assapora la sensazione di ritrovare dentro di sé un qualcosa di arcaico, di legato a un tempo lontano e non conoscibile, un luogo di memoria condivisa nel quale hanno sedimentato quelle tradizioni e quei saperi che formano il bagaglio di conoscenze innate di ogni individuo. Riunendo in sé il carattere archetipico di un’esperienza mitica comune e la tangibilità di un’esistenza indiscutibilmente reale, l’oggetto, “di un esistenzialismo totale”, si fa depositario di una saggezza pratica, di un modo antico di vedere e fare le cose che nella sua radicale semplicità privo cioè di tutte quelle sovrastrutture culturali che ne celano, con la loro pesantezza e ingombranza, la finalità reale riesce a mettere l’uomo nella condizione di riallacciare quelle relazioni con il mondo che ha dimenticato. Viene così risvegliata la capacità umana di stabilire un intimo contatto prima con la natura, non più tenuta al di fuori ma accolta dentro di sé, poi con gli altri uomini, ora parte di una comunità che si è riscoperta globale e intrinsecamente solidale, e infine, soprattutto, con se stessi.

Gilberto Zorio

Lungo un percorso che si snoda tra elementi ottusi e materiali morbidi, tra reazioni chimiche ed equilibri precari, l’approccio di Zorio al fattore energetico si manifesta arricchito di una scientificità inedita ad altri suoi contemporanei, ricercando quell’“emozione” profonda, che tutto anima, nei processi e nei reagenti chimici e rifiutando allo stesso tempo il materiale in sé, per opporsi al materismo e alla tattilità delle correnti informali ed espressioniste astratte.

Come in Merz, il rapporto con i materiali è puramente strumentale e varia secondo la quantità di passione che un’opera richiede e le necessità del momento, nonché in base alla loro capacità di adattarsi e aderire alle intuizioni dell’artista, pur facendo parte di una ben nota tavolozza di elementi primari con cui dare corpo alle diverse vibrazioni delle sue idee traducendole in “eventi di materiali”, il cui carburante sta nella natura contrastante delle materie che interagiscono di volta in volta.

Questo entrare nelle rispettive sfere di influenza fisica da parte di sostanze di segno opposto genera un flusso di energia attiva e innesca così un processo dialettico di trasformazione che getta le sue radici nell’alchimia, che «è la parte ambigua della chimica, è la parte più sognante, anche la parte più “negativa”, ma è la parte che dà più speranza, perché noi abbiamo bisogno di speranza» che è anche in fondo il motivo per cui per Zorio si fa arte. Liquido-solido, morbido-duro, dolcezza-violenza, calore-abbaglio, leggerezza-peso, vuoto-pieno: nello scontro tra polarità opposte le materie, inevitabilmente concepite come vive, Zorio direbbe che il senso animistico di cui riveste i suoi materiali serve a portarli dalla sua parte – cambiano di natura nel momento in cui entrano in contatto, “maturando” l’una nell’altra: ancora una volta l’energia, nonché il movimento da cui scaturisce, si pone come elemento fondamentalmente relazionale. Mentre nell’arte di Gilardi le relazioni tra oggetti, persone e memoria costruite e rese possibili dall’opera non rimangono confinate al momento della sua fruizione, con le riflessioni e le emozioni temporanee che ne scaturiscono, ma invadono la realtà sotto forma di azioni creative e collettive di stampo politico.

Gilberto Zorio
Rosa blu rosa, 1967

L’importanza di una tale componente sociale e interattiva inizia a nascere e a prendere forma grazie agli scossoni intellettuali generati dalle discussioni con Aldo Mondino e Michelangelo Pistoletto, tra le poche occasioni di dibattito costruttivo di stampo artistico e talvolta politico in quella Torino di inizio anni Sessanta così isolata dalla scena italiana e internazionale a causa della sua “monocultura industriale”, che ne limita, non promuovendolo, lo sviluppo culturale e lo scambio di idee, e dove la maggior parte degli artisti di conseguenza si allinea passivamente alle tendenze, relegando ogni tentativo di ricerca e innovazione a fenomeno underground.

Se questo elemento attivo e solidale inizialmente assume le forme di un’invasione da parte degli oggetti dello spazio dell’esperienza, attraverso opere che coniugano l’interazione con il visitatore a un confronto vissuto come positivo con un’ipotetica società futuristica (le Macchine per il futuro, la serie dei tappeti-natura), ben presto si evolverà, in virtù di una consapevolezza infine maturata, in interventi sulla realtà che superano la limitatezza dell’oggetto per farsi esperienze di aggregazione comunitaria.


Biografia di Giovanni Cardone


 

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.