GIOVANNI CARDONE, Un dialogo Tra Arturo Martini e “l’Informale” di Lucio Fontana

È stato fondamentale il dialogo tra Arturo Martini e la Ceramica Informale di Lucio Fontana; io penso che l’artista come ideatore ed esecutore che mantiene un filo di continuità tra questi due aspetti del fare, è un elemento fondamentale all’interno di questa analisi da me fatta. Il legame che s’instaura tra l’artista e la materia dà luogo ad un complesso fenomeno, che partendo da una matrice inorganica, si fa organico e per questo estremamente affascinante ma oltre a questo processo, è interessante comprendere in che modo la ceramica riesce a trasformarsi così repentinamente assumendo infinite forme aderenti alle svariate e spesso diversissime poetiche appartenenti ad ogni singolo artista e al contempo, formalizzando e mediando l’esperienza di un incontro con l’artista e la sua dimensione personale oltre che artistica. Credo che bisogna partire dall’inizio, che in questo caso è la fine di un piccolo pamphlet scritto da uno scultore che ha gettato le basi teoriche e poetiche da cui provengono tutte le sperimentazioni del secondo dopoguerra. Bisogna partire da lui, Arturo Martini e dalle sue parole celeberrime che, con l’apparente intento di rinnegare la scultura, vogliono invece riportarla in alto, nelle galassie dell’arte pura e nobilissima, distante dalla mediocrità, oltre al soggetto, al di là della figurazione.

Così, nel 1947, quando stava per essere pubblicata la seconda edizione del suo volumetto La scultura lingua morta (pubblicato nel 1945), Martini aggiunge un suo pensiero, come un’ultima confessione: «La statuaria è morta, ma la scultura vive». Da queste sue ultime parole, si evince una inevitabile crisi della scultura intesa come statuaria tradizionale e ferma in una brusca battuta d’arresto: pare che la scultura, se vuole vivere, “debba morire nell’astrazione”. Arturo Martini, si chiede se la scultura, per diventare arte debba necessariamente diventare astrazione o se il suo processo si esaurisca nella figurazione, come un ciclo vitale naturale intrinseco a tutte le cose. Nonostante, non si senta di aderire alla non-figurazione in maniera serena e disinvolta, Martini, nella sua inquietudine, intuisce anche tale possibilità e “ne tenta episodicamente la pratica” con la speranza di trovare un’estetica nuova: “una linearità architettonica, cioè semplicemente costruttiva”. Dai Colloqui sulla Scultura del 1943 al 1945, raccolti da Gino Scarpa Martini, rivela le prime regole di quella che sarebbe stata “la nuova arte”: «Elementi che mi ricordano il nudo, ma spezzettati, che permettano di cambiare argomento, come nelle poesie. Come si esigeva nella vecchia scultura l’unità, nella nuova scultura, questa unità dovrà essere data da una scomposizione che si ricompone, per leggi armoniche. La nuova scultura sarà fatta non da concavi e convessi, fenomeno melodico; ma per trovare la nuova legge sarà fatta per piani, rette e obliqui, che avranno il potere della interruzione per un nuovo argomento. Arte nuova: improvviso dei giuochi apparentemente astratti. Non escludo che le prime sculture nuove abbiano delle forme d’astrazione», che astrazione non è, «perché, con l’abitudine, prenderà la visione dei fatti umani».

Emerge così l’idea di una scultura libera, moderna, contemporanea come lo è ogni arte nel suo tempo. È giunto il momento di svincolare la scultura dal soggetto figurativo, per liberare la materia oltre gli spazi consueti. L’opera deve ora rispondere alle necessità del tempo e alle sue urgenze, cercando così nuove strade per elevarsi a quell’universalità tanto ambita da Arturo Martini. Il suo, è un sogno di dimensioni bibliche, in cui «la scultura vivente e cosmica non sia rupe, ma acqua e cielo»  e che trasformi la creta «in mari di tempesta», che sia «non uno stile ma una sostanza», che non viva più di «vita parassitaria, aderendo come un rampicante alla superficie di un’immagine e assumendone le forma», come se quella forma fosse la sua propria essenza. Martini voleva che la scultura diventasse «un’insondabile architettura per raggiungere l’universale.» 

Sono dunque queste le conclusioni di un pensiero estetico maturato in poco meno di un trentennio da questo scultore, che già nel 1926 avvertiva i sintomi di un’imminente necessità di rinnovamento o forse di cambiamento. Egli era stanco delle statue, dei loro volumi che altro non erano che la conseguenza di un’immagine, negando così quello che potevano altrimenti comunicare, ovvero, dei valori assoluti. Era stanco della scultura che, biascicando un alfabeto ormai antico e sorpassato, volgeva lo sguardo verso un orizzonte posticcio come il piedistallo su cui credeva di ergersi, non sapendo che da esso era solo trattenuta e così, lentamente moriva, prostrandosi al nudo modello, alfiere delle tre dimensioni. Le tre dimensioni non bastano per la rinascita della scultura, perché essa è come la terra che trova il suo moto solamente nell’atmosfera che le gira attorno: questa è la quarta dimensione. Questo è l’anelito di vita di cui la scultura si deve impossessare, altrimenti il suo destino è di piegarsi ad una parlata che nessuno comprende diventando lingua morta.

Il pensiero maturo di Martini sarà fondamentale per comprendere le ragioni della rinascita della scultura e in particolare della scultura ceramica in Italia, negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, in quanto, grazie all’estetica di questo scultore trevigiano,la scultura «da fatto sterile si trasformerà in grembo plastico, perché ogni cosa non sarà più riprodotta come un fatto avulso nello spazio e posato su un piedistallo, ma nel suo orizzonte poetico spostandosi ed esprimendosi nello spazio». Queste parole quasi profetiche di Arturo Martini, si faranno materia attraverso un affascinante processo evolutivo, fatto di “corsi e ricorsi”, che porterà l’arte ceramica verso nuove linee espressive, verso soluzioni mirabolanti, raffinate e, a volte sofferte tutto questo grazie alle mani sapienti di grandi scultori e ceramisti che hanno scelto consapevolmente l’argilla come materiale privilegiato o che da sempre, l’hanno posseduta come un gene.

Lucio Fontana nasce nel 1899 a Rosario di Santa Fè, in Argentina, da genitori italiani dopo un primo soggiorno a Milano, dal 1915 al 1922, inizia il suo approccio alla scultura in un atelier argentino qui realizza le prime opere. Nonostante l’ambiente sia formativo e stimolante, l’artista sente la necessità di tornare in Italia, sempre a Milano, dove studia dal 1928 per esordire con le opere della prima maturità che lo porteranno ad esporre, anche a Venezia, Torino, Parigi. L’attività di ceramista è prevalente fino al 1939, quando tornerà in Argentina per intraprendere la strada dell’insegnamento fino al 1946, partecipando contemporaneamente a concorsi per monumenti e opere architettoniche. Proprio nel 1946 redige il Manifesto Bianco, momento fondante del movimento Spazialista. Tornerà definitivamente a Milano l’anno successivo, nel 1947, qui prosegue la sua attività di scultore ceramista e non, ma proseguono anche le infinite sperimentazioni sui materiali, sui linguaggi espressivi, sui limiti della materia e sulla complessa relazione tra questa e lo spazio.

Prima di entrare nell’analisi della sua opera ceramica è opportuno chiarire che una delle tante ipotesi interpretative del mondo fontaniano, porta all’esaltazione dell’artificiosità del contesto contemporaneo nella sua continua germinazione creativa, sempre in bilico, forse in equilibrio, tra l’effimero e il permanente. Si tratta di un’artificiosità che trova la sua soluzione in una bipolarità strumentale: da un verso le materie artificiali per eccellenza, quale il vetro e le vernici dall’altro, la materia primordiale, l’opposto dell’artificiale in quanto materia prima la terra. Materia, quest’ultima che ben si presta ad accogliere la creatività, il gesto, il pensiero plasmante e plasmato; è la creta che ancestrale e atavica meglio rappresenta simboli assoluti e universali. Nel corso della sua formazione intellettiva egli prende contatto con le forme più ardite andando incontro a diffidenze e perplessità – sentimenti che spesso vengono scatenati dal concetto di “nuovo” ma Fontana, rimane sempre fedele alla sua potenza creativa, a volte scandalosa, battendosi contro il luogo comune. Questo poeta aspro e fantasioso che è Lucio Fontana, esordisce come scultore già maturo nella sua ricerca artistica tra il 1926 e il 1927 inizialmente egli dimostra un chiaro orientamento verso una figurazione che tende ad accentuare valori plastici “assoluti”: «un plasticismo denso e turgido, con una continua rotondità delle superfici levigate», ma ancora non possiamo parlare di scultura ceramica, in quanto, le prime opere dell’artista argentino sono realizzate prevalentemente in gesso e bronzo come emerge dal catalogo a cura di Enrico Crispolti.

Soltanto dal 1929-1930 abbiamo la presenza di una prima scultura in terracotta colorata, il plasticismo si fa più corsivo e si rivela in questo caso attraverso la ritrattistica. Ma, una rottura decisiva con questa figurazione ancora definibile come “classica”, avviene nel 1930, quando Fontana prende le distanze dal plasticismo pieno inscritto nelle istanze artistiche del Novecento,che allora dominava nel contesto artistico italiano. Il Novecento, infatti, intendeva proporre un’arte che «restaurasse la figurazione dopo l’iconoclastia cubista e futurista e che la restituisse con una pienezza di valori capaci di ricollegarsi, contro ogni astrazione plastica, dinamica o strutturalistica, cubista o futurista, all’idealismo della tradizione classica proto rinascimentale italiana».

Il primo segno della liberazione da parte di Lucio Fontana nei confronti del Novecento avviene con l’opera L’uomo nero, in cui domina un certo primitivismo ingenuo e istintivo, formalmente lontano dall’arcaismo neoquattrocentesco che caratterizzava la scultura e la pittura Novecentista dell’epoca. L’istintività dell’opera emerge dalla materia stessa: massiva formalmente e strutturalmente; concreta e magmatica, la scultura si erge priva di monumentalità, oltre i modelli storicistici e, probabilmente, oltre il tempo e se ne aveva immediatamente l’impressione. È una scultura di terra e ascende come primordio di esistenza nonostante la sua presenza concretamente attualistica. Fontana, definiva così, la sua scelta per il presente, per l’attualità, immerso nel suo tempo, che è quello di un’Europa problematica nei suoi vorticosi mutamenti. Il vortice e il mutamento caratteristiche già riscontrate come istanze e tensioni più che altro ideali, nelle opere di Mazzolani, sono anche le caratteristiche formali di una fontana, realizzata dall’artista argentino per la città di Milano. Da questa opera, emergere una struttura astratta nella sua monumentalità e si avverte la tendenza, quasi naturale da parte di Lucio Fontana, nonché di altri scultori ceramisti di questo particolare periodo storico-artistico, di rapportarsi con l’architettura e di agire spazialmente. I suoi interessi in relazione all’architettura, dopo le sperimentazioni dei primissimi anni Trenta, si arricchiscono; egli inizia a collaborare con rinomati architetti come Nizzoli, Giancarlo Palanti e, negli anni seguenti, con Franco Albini e Ignazio Gardella. Tutti i suoi interventi sono “figurativi”, ma con un accento baroccheggiante che contesta ogni retorica monumentale.

Come molti altri scultori contemporanei, l’applicarsi di Lucio Fontana all’architettura, non è solamente un’apporre soluzioni plastiche figurative su superfici architettoniche, ma un’esperienza spaziale che anticipa le sperimentazioni della seconda metà degli anni Quaranta, le quali si protraggono anche durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Successivamente, già dal 1931, il primitivismo di Uomo nero, viene risolto attraverso una terracotta più consistentemente colorata, in cui si notano la ricerca di una certa sintesi formale e la spinta della materia verso un linguaggio elementare e informale. All’inizio degli anni Trenta, Lucio Fontana non ricerca un linguaggio “figurativo”, ma nemmeno un linguaggio “astratto”; egli volge la sua ricerca verso l’ipotesi, il non assoluto, l’imprevedibile risultato dato dalla materia, concentrando il senso primo dell’opera nell’attivismo creativo che la genera, nella vitalità che anima la massa terrosa in continuo divenire in un rapporto imprescindibile con lo spazio. Il flusso fenomenologico e vitale alla base delle opere di questo artista, rappresenta anche l’attualità e la contemporaneità della sua arte che vive oltre la fissità dei modelli ideologici e formali. Si tratta di un’arte libera e spregiudicata che porta la materia verso l’estensione spaziale, creando così, una comunicazione che trova la sua codificazione nel legame tra materia- colore- spazio, dando forma ad un universo immaginifico che trova le sue radici in quel contesto di “rivolta” caratterizzato dalla necessità di una nuova verità esistenziale. Egli partecipa alle inquietudini di una nuova generazione di pittori e scultori, che in Italia attraverso accenti espressionisti cercano di trasporre nella loro opera la propria angoscia esistenziale scaturita dalle pesanti condizioni di un contesto storico-politico in cui vige il regime fascista. A rendere la materia più espressiva e dinamica nel suo rapporto con lo spazio, è sicuramente il ruolo del colore, che accentua la plasticità e i volumi della materia volubile, nelle sue zone più nascoste, drammatizzando la superficie attraverso contrasti cangianti.

«In questo senso il colore assume un compito primario proprio nel rapporto di interferenza spaziale dell’immagine fondamentale per la proposizione plastica di Fontana». A questo proposito, Argan scriveva che il colore non è solamente un fenomeno di superficie o una variazione tonale, ma è il principio plastico e spaziale della scultura di Lucio Fontana. Il ruolo determinante del colore si manifesta soprattutto nelle sculture ceramiche realizzate nella seconda metà degli anni quaranta. Momento, questo, in cui la ricerca plastica, che avviene attraverso questo materiale fluido e volubile, giunge ad una tensione materica ed espressionistica eccezionale. Fontana, dunque, dopo numerose sperimentazioni con materiali anche molto diversi fra loro, si presenta come scultore-ceramista con una materia cromatica e artificiosa, “terrena e fantasiosa” . Ma è negli anni Trenta che le invenzioni plastiche di Fontana, senza le quali «non sarebbe concepibile l’intuizione definitiva della materia spazialmente attiva e stupefatta degli “ambienti”, dei “concetti spaziali”, si muovono in una sfera di intuizione, sperimentazione e produzione e in una reale indifferenza di destinazione».

Lucio Fontana, “Gallo”, 1938: ceramica policroma 50x38x28 cm

Nel 1935, un articolo sul quotidiano argentino «El Orden», tratta delle sculture in ceramica di Fontana; sculture plasmate nel modo espressivo che lo scultore aveva già sperimentato nel 1931, realizzando numerosi rilievi in terracotta. Sempre in questi primissimi anni del decennio Trenta, Lucio Fontana continua il suo discorso pionieristico che lega talune forme ceramiche naturalistiche con cromie e coloriture antinaturalistiche; questa scelta, che «accentua l’aspetto di sintesi tra forma e cromia», permette l’uso di gamme più ricche e dissonanti. Ma l’attenzione critica per questo suo interesse nei confronti di una pratica, che in quegli anni conosceva un rinnovato e inatteso entusiasmo, si manifesta soltanto dalla metà degli anni Trenta in poi, quando si inizierà a sentir parlare in maniera più organica di Lucio Fontana ceramista: una “versione” che mantiene la stessa spinta innovatrice riconosciuta alla sua opera di scultore e pittore. Possiamo vedere la nuova versione di Lucio Fontana ceramista in sculture che si collocano in un contesto molto ricco di opere la cui tematica più frequente è la natura morta, riportata ad una grande vitalità attraverso il tema del fondo marino. Tema quest’ultimo che ci viene restituito dall’artista come una sorta di resoconto plastico di un fantastico viaggio sottomarino: aragoste, polipi, coralli, cartocci d’alghe cristallizzati; con queste nuove forme, con queste nuove colorazioni, Fontana frantuma tutte le antiche simbologie della maiolica, che attraverso stravaganti metamorfosi oceanine, sembra essere scossa da un vento demoniaco e tumultuoso. La materia ne esce scompigliata, con le sembianze simili a un abbozzo, ma si carica di forti stimoli, che invitano l’osservatore a contemplarla: essa si fa evocatrice di nuove, fantasiose visioni e promotrice di nuove interpretazioni della forma.

I risultati sono sorprendenti; infatti, dal 1937 Lucio Fontana si trova a Sévres e qui la ceramica a gran fuoco arricchisce i suoi stimoli e questi danno vita ad un fantasioso bestiario ceramico comprendente cavalli, farfalle, leoni, pesci che, se inizialmente animano i coperchi dei vasi, successivamente acquisiscono una loro autonomia, divenendo soprammobili grazie alla fusione magmatica con un supporto tradizionale che si impreziosivano di opacità mai viste o di cangianti guizzi luminosi. «Le esposizioni italiane di queste ceramiche  furono uno dei motivi nodali della riflessione intorno all’arte plastica verso la fine degli anni Trenta» e critici come Giulio Carlo Argan e Raffaele Carrieri, riconoscevano in esse, «accanto allo status di vere e proprie sculture, il carattere di forte espressionismo dato dalla ricerca sulla vibrazione luminosa della materia». L’incantesimo che le ceramiche di Lucio Fontana sprigionavano era dato dal colore e dal rapporto che esso intesseva con la materia e, conseguentemente, con lo spazio circostante. A questo proposito, valga una importante recensione firmata da Giolli sulle pagine di «Domus» nel 1939: «neri opachi come inchiostri, neri brillanti, colori liquidi, colori rappresi, certi azzurri verdastri che giocano su gialli appannati, l’oro a foglia, l’oro cotto e ricotto, fino a diventare una patina paradossale; non soltanto nelle figure, nelle forme, ma proprio anche nei colori, in quelli che eran pure i loro antichi colori, d’un mestiere addormentato, quelle fornaci hanno visto una piccola rivoluzione; ma non si sono offese, hanno lavorato anche per questo fantastico Fontana».

Negli anni successivi, soprattutto nella seconda metà degli anni Quaranta, le forme mutano e le ceramiche si presentano con figurazioni ambigue, «maculate di smalti vividi, riflessate come gusci di conchiglie, valve di madreperla». Tali creazioni, si sarebbero potute definire come «viluppi informali di coralli, concrezioni minerali da ipogei carsici», ma allo stesso tempo, avrebbero potuto rivelarsi come «figure velocissime di angeli, di cavalieri o di femmine dardeggiate piuttosto che crocefissi indeterminati che il fuoco aveva contorto come lingue e ora la luce corrodeva come la salsedine». Nonostante questa increspata indeterminatezza, peraltro, non vi sono stacchi sgradevoli portati dalle sorprese della cottura, né esiti contrari a quelli cercati. Tutto appare voluto ed elegante. La dialettica tra colore-segno-spazio, che si era creata sin dagli anni Trenta, si spinge in questi anni, univocamente nel rapporto tra materia e colore che, con i suoi cangiantismi, porta in sé un’altra dimensione spaziale. Si tratta di una dimensione in cui la materia sconvolta, ondeggiante e animata dai riflessi cromatici, dialoga con lo spazio attraverso una continuità dinamica. Tutto ciò, pare dimostrare una volontà impellente, da parte dell’artista, di fuoriuscire dai limiti delle volumetrie scandite; egli ,infatti, passa da una scultura a forma chiusa dove le superfici, seppur “disossate”, lasciano ancora intuire figurine danzanti e arlecchini vorticosi, ad una scultura che diventa di tocco e «il colore, negli smalti più squillanti, non ha nulla di naturalistico: è astratto nella colata dei gialli sulfurei e di viola; ma sempre in modo che la rapidità di tocco non sia frammentata anche dal colore che, per ogni scultura a gran fuoco, si risolve in poche, larghe tonalità fondamentali».

Se fino agli anni Quaranta, le ceramiche di Fontana si vestono di fantasiosi ed artificiosi riflessi cromatici, a partire dagli anni Cinquanta, l’opera dell’artista si ridimensiona e i vitali cangiantismi delle opere precedenti si fanno più timidi, lasciando spazio a toni più tenui e all’estrema raffinatezza dei toni più opachi propri della terracotta. Sono gli anni dei Concetti Spaziali e le terrecotte vengono incise, graffiate e bucate, tanto che la critica, che aveva annotato la novità dei manifesti spazialisti con una certa curiosità e talvolta con reticenza, incomincia a considerare anche queste ceramiche e terrecotte come sculture spaziali. Con queste opere del primo dopoguerra, Fontana porta a maturazione una ben più importante e decisiva esperienza: «quella della messa a punto definitiva della sua problematica spaziale, che poi si rivelerà a partire dai primi “tagli” alla fine degli anni Cinquanta».

Con l’avvento degli anni Sessanta, la sua produzione di ceramiche e di terrecotte, sarà obliata dalla sua nuova produzione artistica più vicina all’informale, quasi non ci fosse il ricordo, da parte della critica, che sino agli anni Quaranta, Lucio Fontana veniva ricordato quasi esclusivamente come scultore-ceramista. Senza dubbio, questo artista, ha contribuito più di altri, forse più di Picasso ‒ che per circa un ventennio, dal 1947 agli anni Sessanta, si dedica a questo linguaggio espressivo che scopre particolarmente congeniale alla sua vena creativa ‒ a rinnovare in modo radicale il gusto della ceramica. Da questa materia, traspare la forza intellettuale dell’artista e il suo rapporto coinvolgente con la terra; terra come «grande madre, materia e memoria, materia come nucleo radiante di energie vitali che convocano a sé spazio e tempo». Traspare il suo essere uomo artista, uomo di techne, uomo di pensiero e uomo d’azione. Egli è stato tutto questo nel suo essere scultore ceramico, ma anche nel suo essere pittore; lo è stato dalle nature morte fino alle straordinarie profondità dei suoi fondali marini dove la materia era autonoma germinazione; lo è stato nel decennio successivo, quando dalla bocca spalancata e urlante della Medusa, usciva l’ansia di nuovi intenti di forma. Lo è stato anche nella monumentalità invadente della materia nel Coccodrillo  del 1936 dove opalescenti manifestazioni cromatiche si manifestano in tutta la loro bellezza. Lo è stato al suo ritorno dall’Argentina, nel 1947, nella sua lingua “barocca”, quando di lì a poco si manifesterà il suo gusto per la materia che esplode nello spazio con ritmi da capogiro. La ceramica si fa riflessata e la luce raddoppia i suoi riflessi manifestandosi in continui rimbalzi tra interno ed esterno e l’artista, senza sosta e senza sazietà, incede cavalcando la materia indomabile, divenendo con essa il simbolo di una progenitura, di una fase aurorale del fare ceramica in modo radicalmente nuovo e senza retorica.

Molti anni prima Martini ha aperto la via per una nuova riflessione e visione della scultura; da questo momento, è Fontana che agisce su un’ intera generazione come base di partenza per gli studi della genesi artistica dell’opera ceramica. Egli, meglio di qualunque altro, consente l’identificazione tra cultura della ceramica e ricerca plastica pura, fino al raggiungimento di un altissimo grado di integrazione e chiarezza concettuale tra i due aspetti. «Egli costruisce queste epifanie brucianti, di sensuosa captazione spaziale e luminosa, in virtù d’una padronanza tecnica, d’un virtuosismo distillati al punto da potersi esibire, come a rinnovare l’antico precetto castiglionesco del “fatto senza fatica e quasi senza pensarvi”».

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