GIORGIO MOIO, Tra giustizia e memoria: Cautio criminalis di Alfonso Malinconico

(Nel ricordare il poeta Alfonso Malinconico, giurista e magistrato con una lunga e prestigiosa carriera, con incarichi in molti importanti tribunali italiani, fino ad arrivare all’apice della sua carriera alla Corte di Cassazione, deceduto nel 2013, proponiamo questa recensione a uno dei suoi ultimi volumi di poesia, Cautio criminalis, già pubblicata su «La rete di Dedalus» nel gennaio 2009. Alfonso Malinconico è nato a Nocera Superiore il 6 settembre del 1930. Trascorre l’infanzia tra Napoli e Portici. Dopo la laurea in Giurisprudenza, viene nominato pretore a Pisticci e a Fondi. Dal 1976 si stabilisce a Latina dove concentra tutte le attività, quella professionale e quelle creative di poeta e pittore)

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Nella collana “Sassifraga” delle Edizioni Empirìa di Roma, è uscito Cautio criminalis (2006) di Alfonso Malinconico, già titolo di un’opera, apparsa nel 1631, del gesuita tedesco Friedrich Von Spee, curata in Italia, per la Salerno Editrice (Roma, 1986) da Anna Foa. La Cautio di Malinconico, suddivisa in cinque sezioni di poesie (Tortura, Stregologia, Untori, Caterinetta, Salem), si rifà in qualche modo al titolo, cioè alla cautela che occorrerebbe nelle cause criminali, dove va ricercata sempre la verità attraverso l’ausilio di prove certe, argomento che Malinconico conosce molto bene (di cui si è già occupato nella pièce teatrale Il canape, Ulisse Editrice, Roma, 2004), avendo svolto la professione di magistrato dal 1958 al 2002. Questa nuova prova poetica di Malinconico si apre subito con una domanda, che poi ci accompagna per tutto il volume: l’ingiustizia è generata dal potere o dall’abuso di potere? È la stessa domanda che più di tre secoli fa, nella Germania della guerra dei Trent’anni, si fece Von Spee, «un acceso propagandista antiprotestante [che] in qualità di confessore (badate bene, mai di giudice) – ci dice Anna Foa in una delle due prefazioni (l’altra è firmata da Francesco Muzzioli) -, accompagnò al rogo molte donne accusate di stregoneria in quella che fu la più violenta e vasta caccia alle streghe della storia, la persecuzione di massa in atto dai principi cattolici tedeschi tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Il frutto di questa sua terribile esperienza fu appunto la Cautio, che rappresentò un atto d’accusa senza remore contro quei principi e una difesa appassionata delle vittime della persecuzione» (p. 9). Malinconico non cita Von Spee, se non di straforo, ma lo prende a modello, come pure le sue domande, alle quali tende di dare una sua risposta, separando la giustizia dal potere di giudicare che spesso si trasforma in arbitrio, in abuso delle norme.
E proprio il ruolo del magistrato, figura messa sempre più in bilico dalla quotidianità della sua professione soffocata dai rivoli spesso contorti della realtà e dall’ideale di giustizia come forma d’arte ‒ e per questo destinata al fallimento ‒ è la peculiarità di queste poesie. Si tratta di titoli che prendono in esame clamorosi processi socio-giudiziari del passato, che vanno dal complotto politico all’inquisizione. Si vedano, p. es. Stregologia e Caterinetta. Entrambi riscrivono, in forma poetica e di esaltazione artistica, alcuni processi per stregoneria ‒ come già in Von Spee, ma lo scenario è quello italiano, soprattutto della Milano del ’600 ‒, quando la santa inquisizione (e quindi la chiesa) si appropriava del diritto ‒ e del potere ‒ di condannare in funzione di una dottrina anziché di un’infrazione del codice penale, macchiandosi in passato (preventivamente, in modo del tutto gratuito) di impuniti delitti, senza la dovuta accertazione di prove, quindi dell’inconfutabile verità, che andrebbe sempre e comunque ricercata, attraverso l’ausilio di prove certe, come in ogni processo di giustizia degno di tale nome). È il caso del “processo” a Caterina Medici, «una cameriera accusata di aver usato il malefizio per far innamorare di sé il potente senatore Melzi e bruciata viva nella Milano del 1617, con il beneplacido del buon cardinal Federico Borromeo e del grande medico Ludovico Settala» (Anna Foa, p. 7).
Cosa fare, allora, quando il fanatismo e il moralismo più vieto si impossessa della ragione sociale? Secondo Malinconico ‒ e anche secondo noi ‒ il tutto va riletto e riproposto attraverso i compartimenti della poesia, in modo da restaurare l’impegno e la diversità, suscitare dinamismo affinché s’abbandoni l’eterno presente basato sulla compiutezza di certezze che non esistono, nonostante il disagio in cui oggi versa la poesia, lasciarsi inventare dalle risorse energetiche, impedendo qualsiasi tranquillità discorsiva. In quest’epoca di globalizzazione e di ripensamenti pacifici, occuparsi attraverso la poesia di un tema spigoloso e complicato come la giustizia è una grossa scommessa coraggiosa, ancor maggiore se nel farlo si adotta l’arma della poesia, di una poesia che si spoglia dell’intuizione lirica e suggestiva, nonostante citazioni latine, per costituirsi attraverso l’oggettivazione della materia: «nella Milano dei misteri / la luna piena in foschia / proietta / testimonianze di uomini e donne / anelli sull’acqua e nella nebbia per l’ / inquisitio generalis / Caterina Rosa Ottavia Bono / Pietro Martire Pulicello il malossaro / la figliuola del Sergente Bono // la fama le due bugie / i rilievi i segni sui muri con l’onto / lo smoglio gli indizi / delitto occultum / e sulla porta del presidente Monti / finalmente uno spettacolo: // legata alla corda e appesa ‒ con la riserva / sine praeiuditio convicti / per frustare la resistenza e la purgazione / delle prove ‒ la marionetta dinoccolata / là in alto oscillante nel settimo cielo    tace…, Untori, p. 58). Bisogna dare merito a Malinconico del fatto di averlo proposto con una retrospettiva alla ricerca di un valore aggiunto che non è più possibile ripristinare senza l’appropriazione di una coscienza critica, di una contraddizione (nonostante sia votata in tutta coscienza al fallimento), dell’impegno intellettuale che, nonostante il modo prosaico (a volte si ha davanti lo scorrere di una cronaca), si fa paradossale, riscrivendo storie sul filo dell’assurdo, proiezioni degli errori e degli orrori della storia. Ma è la stessa storia un errore, abbandono delle intuizioni, dell’avventura umana che, contrariamente preannuncia rinascita e resistenza alle menzogne, al crescendo della compiacenza con la consuetudine ‒ che è il male di tutti i tempi ‒.
La poesia che Malinconico qui ci propone non scorre solo sul filo della denuncia o dell’abuso nei giudizi, preannuncia una rinascita e una resistenza alle menzogne, alla condanna senza confessione, al crescendo della compiacenza con la consuetudine, che è il male di tutti i tempi. E poco importa, qui, se lo fa adoperando una poesia in stile narrativo, prosaico, ma carica di visioni palpabili, di una poesia ‒ come già detto ‒ che s’inventa lo spazio per tentare di esistere e resistere: «… qualche giudice / dovendo interrogare una donna giovane / in carcere sospettata di un delitto / se la fa venire nello studio segretamente / e la lusinga fingendo di amarla / (vult illam habere in suam et fingere velle / illam deosculari) / toccandola e carezzandola con le mani / sotto la veste ove non trova mutande / eccitandola con arti varie / inginocchiandosi / davanti alle sue bianche cosce divaricate / ed accostandosi alla nera peluria / con occhi bramosi e asimmetrici / e con la lingua come spada di fuoco / per indurla a confessare ad accusarsi / del delitto mai commesso…, Tortura, p. 33).
«Ma perché tutto questo in poesia? ‒ si domanda Muzzioli nell’altra prefazione ‒ Non dovrebbe essere la poesia un regno di impalpabili vibrazioni dell’essere o di visioni disinteressate? Non dovrebbe lasciare ad altri (ad altri discorsi, ad altre pratiche comunicative) il dovere di interessarsi del compartimento giustizia? Ma proprio qui sta il punto, nella insufficienza attuale degli altri discorsi; e nella condizione di disagio in cui versa la poesia stessa, che le impedisce qualsiasi tranquilla degustazione delle sue tradizionali prerogative sublimi. Allora, le ragioni dell’impegno morale e civile, nascono proprio dalla situazione della poesia: emarginata dal sistema dei media, lasciata a inventarsi risorse, canali e occasioni, la poesia non può non aprirsi a ospitare le altre realtà messe a repentaglio dall’attuale contesto (qui, segnatamente, la giustizia e la memoria)» (p. 12).
Dunque, sollecitata a diversificarsi dalla sua tradizionale prerogativa dalle sorti di un presente che ha perso la sua spinta propulsiva, nonché dall’insufficienza degli altri generi discorsivi, anche questa di Malinconico è una poesia costretta a “riscoprirsi”, a inventarsi, sul fronte giustizia, a riappropriarsi del linguaggio poetico altrimenti destinato ad altri inconsueti usi, calarsi nei canoni obsoleti dell’esistente e tentare di rigenerarlo dall’interno, allontanarlo dal ripetersi dell’assegnazione-rassegnazione pacifica. Farsi pratica umana, insomma, risvegliando le coscienze per riappropriarsi della dimensione umana, per condannare l’errore e l’orrore della storia, ma con la consapevolezza che ormai la storia non può più essere corretta.

Alfonso Malincolico
Cautio criminalis
Edizioni Empirìa, 2006, pp. 121

 

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