GIORGIO MOIO, Poesia come normalità o azzardo?

Il compito della poesia è stato sempre quello di ricercare qualcosa che non c’è (o non ci è dato – forse – di sapere), un linguaggio della contraddizione, palinodico e giocoso, tragicomico, che non affabuli ma aggrovigli, che non addomestichi ma interroghi. Sul piano prettamente stilistico, un accumulo delirante di parole deliranti apparentemente giocose e comiche da scorticare, scardinare, aprire squarci, ogni qualvolta il risultato si avvii verso l’ovvio, non senza il gioco delle combinazioni. Una poesia come avventura nel mare della conoscenza per una mobilità linguistica che non prometta consolazioni, che non raggiunga mai la centralità di un qualcosa fatto passare per verità; mai patetica, né intimistica, né romantica, ma irriverente, demistificatoria, dissacrante per una fisica visione dinamico- allegorica del mondo, per un itinerarium corpis in mundum.
Smentire tutte le possibili normative e lavorare sull’improbabile, contro la tentazione del senso, nel tempo inventariale, da un punto di non ritorno è la linfa della poesia, ricerca come invenzione e autocritica, un’esplorazione nel vuoto della lingua, in quei meandri indefiniti e incalcolati, che urta nelle configurazioni – dell’antica e recente memoria di una letteratura alternativa a quella ufficiale ormai obsoleta e vietamente mercificata, priva di ogni nota progressiva – fatte di rimandi, riformulazioni, giochi allusivi ed allegorici, per un’invenzione continuamente inventata. Il tentativo è di frantumare dall’interno i falsi messaggi di una letteratura da mercanzia spicciola, sottrarre il testo alla facile fruizione, all’pnotismo e qualunquismo intimistico-emotivo, al consumo lirico di fasulle certezze, per un linguaggio ossessionato a riconoscere qualcos’altro nella babele di una quotidianità dove tutto è penosamente merce di scambio. Sennonché, da sempre la poesia d’avanguardia ha due strade davanti: una conduce all’élite, l’altra al museo. Nel primo caso, la scelta di tenersi fuori dagli schemi e dalla nullità dell’esistente, è una scelta consapevole, nonostante essa porti inevitabilmente al fallimento.
Secondo Bataille, la poesia deperisce lontano dall’impossibile. L’attualità letteraria di oggi si riscontrava già negli anni ’70, quando Felice Piemontese scriveva: «LA SITUAZIONE ATTUALE è fra le più desolanti. La Retroguardia culturale – ormai, larghi settori della sinistra – domina su tutta la linea. Le forze di opposizione sono poche, disperse, disparate, pressoché prive di strumenti efficaci, spesso perfino coinvolte a loro volta, marginalmente, negli stessi giochi della Retroguardia. […] Molti filosofi (anche marxisti) continuano a fare i “conservatori dei valori ammessi”. […] In realtà il nostro rifiuto del “valori ammessi” non è fatto né in nome di un nichilismo astorico e irrazionale né richiamandosi a valori vigenti prima, bensì in vista di un cambiamento profondo e radicale della società che può avvenire solo in conseguenza dell’eliminazione del capitalismo» ¹.
Sin dal surrealismo, passando per la neoavanguardia, la poesia di ricerca è riuscita a resistere al richiamo del “successo”, denotando un’apprezzabile critica al valore stabilito, ai fondamenti, al pudore, alla morale, al linguaggio evanescente: insomma, criticando tutto quello che ci è stato trasmesso o tralasciato attraverso la storia e le tradizioni, attraverso quei meandri spazi fenditi da scarto e devianza, autonomi ed intriganti, dove è germogliata l’inutilità della poesia senza mai riuscire, tra l’altro, a ricercare una solida pista di decollo, dimostrando che l’alternativa culturale al pensiero dominante del potere, è una vita possibile. Il rischio è cadere nella trappola della domanda e dell’offerta cui ci si può opporre solo con l’istanza di un’opera commercialmente impraticabile, ma di rottura. È a questo punto che la poesia d’avanguardia è destinata al museo: «L’avanguardia si leva,
strutturalmente parlando, contro la mercificazione estetica, e infine, come si è descritto, vi partecipa dentro: a livello sovrastrutturale, essa ha il suo nemico dichiarato nel museo, che, da ultimo, come nelle peggiori favole, se la divora tutta tranquillamente. Poco consola che essa riesca a risorgere, in nuova figura, dalle sue stesse ceneri: resta il fatto che risorge soltanto per essere divorata un’altra volta» ².
Oggi, questa sua peculiarità appare come un fantastico ricordo: il poeta non vuole più rischiare “l’incomprensione”, rinunciare ad una falsa speranza di essere “riconosciuto” dall’esistente che ha troppo da fare a smerciare fasulle certezze per accorgersi della sua presenza. Intanto si continua a fare poesia (ed è un fatto rassicurante, oltre che terapeutico), a fingere di cercare un’ “elaborazione di pensiero” che resista all’incertezza umana o all’usura del tempo (e non è più un fatto rassicurante), rigurgitando “l’ordinanza” di nuove cose, nuove sensazioni che la poesia tanto attende, da molto tempo oramai, senza considerare l’essere, almeno solo marginalmente. In questo turpiloquio qual è la garanzia per un poeta? Una poesia della normalità o dell’azzardo? D’altro canto, se proprio uno
vuol cimentarsi nel definire la poesia, resta da dire che la poesia è rifiuto di collocazione, è allontanamento di falsi oracoli, pronti a scambiarsi l’ignoranza, la menzogna; la poesia è mutamento continuo, è deflagrazione verbale, irriverenza e dissacrazione, è sgretolamento delle cose, delle trame, all’istante! È l’analisi (il)logica, infine, per un progetto di rifacimento, dove la scritta “lavori in corso” sia indelebile. In realtà pochi sono in grado di riconquistare validità di linguaggio, d’abbandonare ogni agio, ogni forma imposta, d’allontanare il cosiddetto “coraggio-sacrificio” per generare qualcosa di veramente accettabile, di trarre un’originale alternativa da opporre al qualunquismo in atto, dove si è perso il gusto delle contrapposizioni, vero motore delle novità. E non spaventi il fatto che il “nuovo” sia ancora legato ai prodomi della neoavanguardia o addirittura della tradizione. D’altronde, se un poeta non ricerca il nuovo, si consuma nell’ovvio, negli epigoni.
Ma cosa si è fatto per la cosiddetta “poesia nuova”? Niente o quasi niente, se si esclude una presenza ingombrante di personalismo, d’intimismo, di individualismo abusato e patetico; ad una labile strategia d’attacco abbiamo mirato in questi ultimi anni, a una strategia (quando vi è stata) che tenesse ancora in grande considerazione il fatto che in poesia amore deve ancora far rima con cuore. Ci attende una grande catastrofe, catastrofe che in parte è già avvenuta.

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¹ Felice Piemontese, La normalità e la sfida, in «Uomini e Idee», Anno XVIII, n. 1, Napoli, aprile 1975 p. 26 e segg.

² Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, IV ed. 1978, p. 65.


 

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