GIORGIO MOIO, Per il centenario di Alberto Mario Moriconi (1920 – 2020)*

POETI E ARTISTI DA RICORDARE


Nel ricordare, a dieci anni dalla morte, Alberto Mario Moriconi, avvocato penalista che preferì dedicarsi alla poesia, che quest’anno avrebbe compiuto cento anni, vorrei parlare di uno dei suoi volumi, Decreto sui duelli, forse il volume che amò di più, come mi confidò in una delle nostre ultime telefonate.

La prima volta che fece la conoscenza letteraria con questo poeta fu alle scuole superiori: in una delle antologie letteraria che ci facevano studiare c’erano alcune pagine dedicate a Moriconi. Quando ne parlai con lui di questo “incontro” notai in lui una certa soddisfazione che più tardi esternò nella dedica sulla prima pagina di Decreto sui duelli: «a Giorgio che mi dovette studiare a scuola e non mi odiò». Luglio 2002). Già intravedevo la sua verve ironica.

Ho un ricordo indelebile di Moriconi, soprattutto attraverso le nostre conversazioni telefoniche (ci siamo incontrati di persona poche volte, in qualche serata dedicata alla poesia. Egli arrivava sempre per ultimo, come le grandi star; d’altronde era il decano dei poeti napoletani, quindi come tale veniva accolto dalla platea, con molto rispetto).

Mi diceva che io potevo essere, dopo la sua morte, la persona adatta per divulgare la sua arte: «Sai, potresti incominciare a parlare del bestiario presente nelle mie poesie. Quindi ti farò avere tutte le mie pubblicazioni». Insomma una specie di ornitologo letterario. Un giorno mi vidi recapitare a casa da Carlo Di Lieto ciò che mi aveva promesso.

Ce n’era di che occuparsi in fatto di bestiario! Per es. nella Canzone per la liana del Mato Grosso, che apre Un carico di Mercurio (Laterza, 1975) facciamo la conoscenza di animali dal nome in portoghese: il caititu, una varietà di cinghiale; la jibóia, il serpente boa; il jacaré, l’alligatore: il campeiro, il capriolo della prateria; il veado mateiro, piccolo cervo di foresta ([…] il caititu grugna / la jibóa strizza / il jacaré / sgrigna / solca il cerrado lustre / aspre foglie il tenero / corno del veado…). Ma per vari motivi dovetti abbandonare l’aspirazione di Moriconi: niente bestiario. Riuscii solo a buttare giù un breve scritto che rimase inedito e che ora fa parte di quest’omaggio.

Continuando a sfogliare questo volume, leggiamo una poesia dal titolo Ippopotamo (Poi so d’un ippopotamo che / un impala, nel bere, addentato / da un coccodrillo ritrasse / a riva / ‒ fugò lo scaglioso / orrore, la ratta arzilla / maciulla…, p. 33; dove l’impala è un’antilope) che certifica la partecipazione alla realtà da parte di Moriconi. «Poesia esplosiva, che attrae il lettore, lo avvince per la piacevolezza e la scorrevolezza della lettura, la ricchezza delle immagini, la musicalità del linguaggio […] ma non si creda che la poesia di Moriconi si esaurisca in questa giocosità.

Al fondo di tutto c’è una grande amarezza, il senso della tragedia, della solitudine dell’uomo» [1]. Aggiungiamo poesia innovatrice del linguaggio lungo un intenso impegno di denuncia, di cronachismo lirico ma moderno, di citazioni anche dotte, plurilinguismo, allusioni, che interroga da un punto di vista anche di metafisica autocritica e demistificata; il grottesco che diventa anarchico tra tragedie e diversità, relazioni umane, accadimenti per accumulo di materiale verbale; sarcasmo pronto a farsi guidare da uno stile sperimentale da un estremo all’altro del discorso frammentario, «ora allusivo e sfumato, ora gergale e corposo, nell’imprevedibilità di modi sempre geniali, per il sapore, i toni, i richiami, i ritmi. Il lessico stesso [tra significante e significato] è carico di intensità poetica, perciò è provocatorio» [2].

In Moriconi le assonanze (senza dimenticare la parodia, l’allegoria, l’ironia, le rime interne, epiteti s’impastano con un’affascinante dissacralità che spesso strappa una risata tra tradizione e modernità, personaggi storici e contemporanei per un nuovo genere letterario tutto suo (come ebbe a dire Raffaele La Capria).

Dai personaggi del reale e della nostra storia moderna e antica, spesso conflittuali con la realtà in cui sono calati (citando alla rinfusa: la madre di Balzac, i lebbrosi, i filantropi inventori, l’aeronauta Arban, i sensitivi, i nomadi, etc.; Cesare, Garibaldi, Catone e i due Scipioni, mister Brown [alias Giuseppe Mazzini], Vivaldi, Campanella, Marc’Aurelio, etc.), discerne la poesia di Alberto Mario Moriconi. Si tratta di personaggi storici “rivisitati”, a suo modo, e presentati come personaggi “nuovi”, ovvero nelle forme e rivoli sconosciuti, dove in primis campeggia la psicologia.

Tra memoria storica e realtà conflittuale, facciamo, quindi, la scoperta di un Belli a double face (ci riferiamo alla brevissima silloge Gioacchino Belli e i ribelli, per la precisione al testo II) inserito in Decreto sui duelli, opera moriconiana che chiude la trilogia pubblicata da Laterza (1982), e che prendiamo come riferimento, unitamente a Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, per questo nostro breve excursus sulla poesia di Moriconi).

Dal ribelle e mangiapapi che era, si ritrova un giorno “ammaestrato” e devoto al potere: «Questo, il Luogotenente, ed il possente / Belli… / Be’… / s’aggrovijò sotto la sottana / de quarche panzanera de curato / quann’arrivò quer macero spretato / che seppe accenne troppa de mattana, / quer cacchio rosso de Mazzini, e vola / la bona pace der, sì, zozzo, ovile, / ma sempre pace, sagramento! E frana / er vecchio monno? Ah sor fischietto, a scola! / ah sor Mazzì, a ’sto monno senz’er titolo / o de Papa o de Re o d’Imperatore / che Cristo ce po’ avé voce in capitolo? / Annate a fa’ la cacca a la sediola: / io ce manno mi’ fijo: l’ho ammojato / pe’ dispenzallo da guardia civile» [3].

Il serio e il giocoso, il tragico e il comico, si combinano in una sorta di commistione carica di corpus narrativo-epigrammatico, al limite dell’esopico e dell’epico, quasi escatologico, nel senso di mito terreno più che di sorte del singolo individuo dopo la morte, benché qui pure è interessata in qualche modo: «solo chi non è amato / muore senza dolore: / il solo desolato / ch’ora si aspetta amore. / […] / invidio il desolato / che senza un cane muore / accanto, / e sorride un compianto / al mio schianto d’amore / sognando amore, vita, /  all’uscita da questa / sua vita camposanto» [4].

Dicevamo all’inizio della conflittualità esistente tra i personaggi della poesia di Moriconi che sperimenta un diverso modo di fare ricerca poetica (ironica e materialmente giocosa, sperimentale, attuale, con il ricorso di una metrica che si avvale anche della tradizione duecentesca), conflittualità sfaccettata e densa di un plurilinguismo di lingue vive e morte (e il francese, lo spagnolo, l’inglese, il portoghese, etc.) frammiste ai gerghi dialettali, spregiudicato e originale, che innesta una contraddizione di fondo, leopardiana: “sregolare” la tradizione e “rivendicare” gli elementi esclusi dalla natura, dalla vita quotidiana.

E il piacere che ne trae dalla contaminatio è indefinito; più forte è la capacità di sovvertire le apparenze o gli errori della storia-natura, tanto più piacevole è affidarsi ai contrari, all’intreccio dell’investigazione.

La poesia di Moriconi si alimenta di drammaticità attraverso la citazione di eventi e personaggi di tutti i luoghi e di tutte le epoche.

Si tratta di un duplice dramma, colpa di una realtà in contrasto con il poeta e viceversa.

Allora, per ridimensionare una realtà così nefasta e avvilente, il poeta usa le armi dell’ironia e dell’allegoria, non per una poesia stralunata alla Sereni – per intenderci –, ma per preservare proprio quel dramma umano, quell’inquietudine che è alla base del fare creativo.

Altrimenti, sarebbe robetta la poesia.

L’ironia, dunque, è il piacere dell’impossibile che diventa possibile, sembra dirci Moriconi, tra percezione dei sensi e l’abisso, tra il dire e il non dire.

Il gioco dei paradossi, invece, è continua formazione e deformazione della realtà, curioso di possibilità in divenire, con tutti i rischi che ciò comporta, contro cui il poeta schiera il proprio linguaggio alla ricerca delle differenze, delle similitudini tra le parole, quel ruolo primario dell’uomo, le libertà nella catena di montaggio della vita.

Il linguaggio è frazionato, frammentato tra pathos e comicità, tra tensione e inquietudine, senza cui la poesia non avrebbe senso di esistere:

 

Pesce rondine

S’io fossi turchino

e più corto

sarei quel pesce rondine (celo

due, forse, aluzze vertiginose),

del pari attratto

da coste umane, e da oscuri

venti interni distratto, ritratto.

Né è più

l’età per la mia sete d’alto

mare.

Balzo a tre o quattro

metri sul viscido pelo e per cento

metri anch’io volo:

e il goffo

rituffo, in vista d’un molo

calcinato, in un liquido

letame.

Non ho né squame né ali

turchine,

son tozzo non corto,

pesce gregario sì, e solo,

nel fondo del tossico porto

di Napoli.

(da Decreto sui duelli, op. cit., pp. 98-99)

 

 

Fortuna

 

Gridar «Fortuna! ficca

un chiodo d’oro nella tua ruota»

non potei, non la scorsi

neppure girar la ruota. Quando

godetti l’attimo

– vorticare

vorticare il suono

d’essa non colsi –

lo volli merito

mio: nessuna

bontà del Cielo, sull’idiota

nessun influsso

di luna.

 

Cade così l’impero

a uno scettro ebro di sé, derisi

gli astri:

così l’Empire

all’ivre

Empereur, all’impérieux

mépris.

 

Caddi io così : da zero al doppio

zero.

E ricaddi. E sempre,

col mio sprezzo, nel mio stazzo,

ancor non pago, sguazzo e annaspo credulo

in me, e che sia

virtù una cosa, e uscir dal brago stia

in me:

mai

 

mi son visto tuo ragazzo,

guercia.

(da Decreto sui duelli, ivi, pp. 16-17)

 

 

La mosca di Lindbergh

 

Si sa e si saprà sempre di Charles Lindbergh pilota della prima trasvolata senza scalo dell’Atlantico: quello che pochissimi sanno è che egli ebbe a bordo del fragile monoposto – lo Spirit of St. Louis – un’importante passeggera: dico una mosca.

 

La prima clandestina che trasvolò

New York-Paris, quella cosina,

il comandante se la scoprì, diciotto e quindici,

un bambinone

biondo, una brunettina,

che dal quadrante (mossa da fame?)

dell’altimetro, tutta un tremito

e minutina come è

un dittero,

lo affrontava! (mossa da fame?). Avesse

gridato, lui, e saltava… Gran Dio! Sotto,

le immense lingue e schiume d’azzannìo….

(lei tutto ignorava d’oceani, terrona del Kansas:

la forosetta, del Kansas).

Ma il bambinone

abbozzò,

la ignorò, trasse due sorsi dal termos.

La clandestina s’occultò.

«E stia…»

 

il primo “ New York –Paris”

cartone e spago

‒ come una vecchia valigia –

e spirito di Saint Louis

 

«Stia stia, Miss. Due alucce non guastano

in più, di riserva al mono-

plano, al mono-

posto, al mono-

motore: solo bi-

pala l’elica.

E or la brunetta bïala»

rise Charlie, cercandola: «Via via,

Miss, esca. E mi dica,

che, chi a Paris l’aspetta? A chi, beato, sì

graziosa e ardimentosa vola brunetta?»

soffia

soffia sull’acque,

spirito di Saint Louis,

cartone e spago

 

Or la compagna di Lindbergh dormiva

cinta di stelle, obliosa di tele

di ragno, che forse fuggiva

dal Kansas, da New.

E a lui, l’aquila

giovane, ancora ignara

di ragne, più truci, umane,

un punto

lui solo di sangue e d’anima

sopra i notturni oceani,

ebrïetà

eterëa di stelle e sogni;

e il pulsar dei pistoni, docile faustamente

monotono, oramai

ammalïava, il remeggio fluidissimo,

a un puerile sonno…

si riscoteva

picchiando a dritta

e a manca l’ala,

o evoluiva libellula

l’aquilotto

e canticchiava un’arietta di favola

western, di carovane.

 

Ventinov’ore, due sorsi al termos.

Ma pur le palpebre calano, Lindbergh s’assopisce.

Tre, forse cinque, minuti, o dieci, e il velivolo cala,

lenta la cloche, all’acque,

ma dolce cala

spirito di Saint Louis…

Guizzò, ella! via su!…

Rientrò:

lo picchiettò (vellicò) al naso: riaprì

gli occhi lui abbrancò

la cloche.

Digrignò

le schiumose mandibole l’Oceano.

 

E a dritta dell’aquilotto fiorì

un primo gabbïano,

e altri

e altri,

bianco di sé scriventi in cielo «WELCOME».

 

«Ci siamo, darling, ci siamo, baby….

no, bébé, à Paris. Thanks – no, merci

amica mia…ma come

ti chiami?… Laggiù! laggiù!

è Le Bourget, bébé

 

Trionfò

la bionda aquila degli oceani.

– Il nome,

però, almeno, della compagna… Sparì. –

Trionfò sonnolento su urla dal buio e su fiaccole:

lei vi sparì.

 

Chi sa se la mosca del Kansas

trovò chi cercava a Paris.

(da Il dente di Wels, Pironti, 1995, pp. 102-106)

 

 

Piromani d’agosto

 

Nell’aria, un pianto…..d’una capinera

che cerca il nido che non troverà.

Zvanìi Pascoli «La quercia caduta»

 

Evoluivano pazzi fischiavano

intorno ai due alberelli fatti torce

nugoli insupponibili d’uccelli.

Allo sconvolto strido,

accorsi, d’alcuno di loro,

padre o madre a un nido, da ogni dove, al nido

arso e svanito.

Contro i vampanti e i fumanti crepiti uno stridio

crescente, un inaudito ora urlio, una frenetica

musica, una scomposta rabbïosa farandola

di ali e ali, quanti…

I due incendiarii

di più si ritraggono,

ma più eccitati, il perché si domandano

di tanta ressa e ridda ai lor falò: poi, no,

perplessi un po’… «turbati: non sospettano

il nido incenerito.» Che hanno fritto.

«Chi poco cuor sortì cuor non sospetta

in du’ alberelli”. Zitto, Zvanìi, ti prego. Hitchcock,

i tuoi, qui, uccelli i tuoi…!

_______________

[1]  Sebastiano Grasso, rec. a Dibattito su amore, in «La tribuna del Mezzogiorno, 27 gennaio 1970.
[2]  Carmine Di Biase, in «Corriere di Napoli», 28 settembre 1974.
[3]  II, in Decreto sui duelli, op. cit., p. 29.
[4]  L’eterna rima in ore (il distacco, in Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti, Pironti, 1999, p. 57.

 

 

* Alberto Mario Moriconi è nato a Terni nel 1920, ma sin dall’infanzia vive a Napoli, dove è morto nel 2010. Ha svolto attività di penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti e collaboratore letterario di quotidiani e riviste (per «Il Mattino» di Napoli ha tenuto rubriche culturali, anche con lo pseudonimo di Morick).

Opere

Poesia: Vortici rupi mammole (Gastaldi, 1952); Trittico fraterno (Ceschina, 1955); Anno Mille (Rebellato, 1958); Le torri mobili (Guanda, 1963); La ballata del guano (Ed. Uomini e Idee, Napoli, 1996; poi in Dibattito su amore, Laterza, 1969); Un carico di mercurio (Laterza, 1975); Decreto sui duelli (id., 1982); Il dente di Wels (Pironti, 1995); Io, Rapagnetta Gabriel e altre sorti (id., 1999).

Prosa: Un autocommento (discreto) (Liguori, 2003).


 

 

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2 Risposte a “GIORGIO MOIO, Per il centenario di Alberto Mario Moriconi (1920 – 2020)*”

  1. Alberto è stato uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. I critici letterari e gli storici della letteratura che non si soffermano sull’opera di Moriconi sono dei perfetti ignoranti.

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