GIORGIO MOIO, Intervista a Marisa Papa Ruggiero

L’ultimo volume di poesie di Marisa Papa Ruggiero s’intitola Un intenso venire (Passigli, 2017), una specie di diario di bordo tra l’attesa e il taciuto di un linguaggio che deraglia su un terreno scosceso e fragile modificando la sostanza creando scosse corporee di una materia che si modella al punto di slittare in strati onirici evocativi di un’esistenza ancora da venire, nutrimento di un animus chiamato a svelare i retroscena della vita. «Sono ‒ le poesie di questa raccolta ‒ delle stratigrafie, dei calchi, delle sismografie, delle rilevazioni materiali e materiche, che non si chiudono mai in un senso univoco, ma mimano e distendono un fatto che sta avvenendo, ancora, continuamente, come eco e prolungamento e continuazione di una ferita originaria» (Dalla prefazione di Daniele Piccini).

Per sciogliere subito il ghiaccio direi di incominciare  con una domanda forse scontata, ma semplice. Chi è Marisa Papa Ruggiero?

Semplice? Mah, di fronte a domande come questa si trema sempre un po’: chi è  qualcuno che mi somiglia e che si chiama così? Mi dispongo a scrutare con attenzione questo qualcuno che mi somiglia, a considerarlo con sguardo critico, distaccato, ma è pur sempre una auto-osservazione: la messa a fuoco mi risulta sfocata come uno specchio troppo ravvicinato… più mi osservo e più sfuggo da tutte le parti; avrei bisogno di vedermi in rappresentazione riflessa, vale a dire nello sguardo di un altro. Potrei scoprirvi, che ne so, aspetti e difetti di me che non conoscevo… Giro la domanda ai miei libri, che siano loro a dire chi sono, chissà se qualcosa, bene o male, sapranno riferire. 

Ci può parlare, in poche parole, del suo Un intenso venire?

Ne userò pochissime: ho sempre pensato, forse sbagliando, che se c’è una cosa che poco si adatta ad essere descritta, questa è la poesia.

A proposito di Un intenso venire, leggiamo dalla prefazione di Daniele Piccini che queste poesie tracciano «un monologo ansioso e fermentante, anche dove trapeli o si accampi l’esistenza di un “tu” complementare, sognato o evocato. Il corpo della terra, il corpo di carne si scambiano i ruoli e la scena. E sempre un sommovimento, uno smottamento, uno slittare di strati, un affondare di semi nel profondo, dove il destino si compie». Che rapporto ha con la propria terra, con la realtà che la circonda?

C’è sempre dentro una figura incognita in ogni avventura dello scrivere che non aspetta che  prender forma nella nostra invenzione; non si scrive per caso, perché non si sente a caso: si dialoga incessantemente con le aree indomabili delle tensioni e del desiderio. Si dialoga con la propria terra d’origine, si vive di questo contatto che ci modella nel profondo nutrendoci… questa mediterraneità, solare e mitica, che ci attraversa da parte a parte mescolandosi al respiro, alle fibre del sentire… Ne avverti lo scorrere, il divenire, il senso stesso del tempo. E ne avverti, anche, l’oscura minaccia, quella che si agita nelle viscere incandescenti di questa terra vulcanica, questa terra dei soffioni e dei fuochi  che abbiamo un palmo sopra la nostra testa e sotto i nostri piedi, questa terra delle grandi incognite…

Qual è l’opera più rappresentativa del suo percorso e a quale volume di autore italiano è più legata?

Alla prima domanda: quella che ancora dovrò scrivere.

C’è un libro che porto sempre con me: Le città invisibili di Calvino.

Lei proviene da un percorso artistico, sia didattico che creativo, come si è avvicinata alla poesia?

 La poesia ha preso strade insolite per farsi trovare da me, anzi, per venirmi addosso! E non certamente attraverso lo studio dei classici, né la lettura di altri poeti se non in misura marginale e occasionale. No: lei se ne stava acquattata chissà da quanto tempo nel sottofondo delle mie immagini, dei miei cartoni, delle mie tele, materia essa stessa grondante di colori, di odori sulla pelle preferendo mostrarsi come un altro dei miei “attraversamenti”, dei miei “travestimenti”, sorprendendomi. Una sorta di figura incognita, barbara e stregata, magnetica, e sempre più decisa, più affamata! Era, lo capivo, l’altra faccia della pittura che con cocciutaggine cercava una nuova via, una diversa forma di esistere, qualcosa che desse una risonanza altra alle richieste assetate dell’anima, che si aprisse a un continuo divenire lievitante e enigmatico, verso una nuova espressione dell’essere. Capivo che sentiva l’esigenza di esprimersi come uno strumento a “fiato” alla ricerca di un suono, sì, di un suono nuovo, così mi sembrava, decisa a impossessarsi di estensioni di me sempre maggiori, non solo in senso creativo, ma anche, col tempo, in direzioni (moderatamente) speculative e critiche. Ma aveva bisogno  del corpo, del combustibile vivo di tutti i sensi per cercare di tradursi in voce e visione.

Si sente cogli anni la necessità di controllare, di filtrare, soprattutto, tanta tensione, così tanti umori in gioco, in leggerezza. A travasare la parola scritta in uno spazio scenico, per così dire, componendo tavole verbo-visuali con l’utilizzo di collages e intarsi verbali allo scopo di esaltare di uno scritto creativo la valenza segnica.

Ci sembra che anche la sua poesia lineare ami mettersi in gioco e non solo in termini visivi, ritmici, spaziali. Che cosa è per lei il gioco? Ce ne vuole parlare?

Tentare, ad esempio, altri limiti. Accogliere il piacere di sperimentare il movimento delle ibridazioni sulla pagina testuale innescando meccanismi di contrasto: dagli slittamenti di senso alle dislocazioni del dato oggettivo in direzione del simbolico, e così via. Traslare, perché no, l’oggettività del reale in visione. Il gioco per me si innesta ad una matrice più vitalistica che concettuale. Che la creatività artistica sia costituita  da una componente fondamentalmente ludica non credo si possa mettere in dubbio, incuneata com’è nel principio di libertà individuale. Il gioco è per l’artista una richiesta irrinunciabile che ama inventare da sé le sue modalità d’espressione, le sue dinamiche, gli spazi in cui esistere, dietro cui s’intravede, accanto a una necessità estetica di fondo, una condizione ‒ non mi sembra azzardato dirlo ‒ dello spirito. Ciò che in arte rimane comunque  imprescindibile è l’apporto critico sorvegliatissimo, come dire: libertà ludica + disciplina, mai l’una senza l’altra. Ma non dimentichiamo che c’è anche l’altra faccia del gioco e questa è il dramma: la faccia nera della luna, oppositiva e drammatica, quella che duella con l’indicibile.

Qual è la poesia che più predilige e perché?

Amo in questa fase la poesia asciutta ed enigmatica di Mark Strand. Mi piace citare Ciò che resta, una composizione tratta dal volume mondadoriano L’uomo che cammina un passo avanti al buio con traduzione di Damiano Abeni. Strand è uno che lo smacco contemporaneo di una estraneazione  disincantata lo vive come un destino, con la naturalezza e l’ironia quasi giocosa dello spirito libero  che non scende a patti con la logica di un sistema che non accetta; uno che sa stare “dalla parte che manca”, che si “svuota le tasche” conscio solo della propria integrità, e se ne sta lì, sul ciglio della strada, fino alla fine. 

«Nascondere se stesso e giocare ad essere un altro, e un altro, e un altro ancora». È una espressione di Mario Fresa, rilasciata a Raffaele Piazza in una recente intervista. Quanto si trova d’accordo con questa espressione?

È quello che fa la scrittura creativa, sperimentare la mutazione, e non solo formale, per connettersi all’alterità delle figure. Lo trovo rassicurante, ci preserva dall’ovvietà. La poesia è di per sé destabilizzante, non le interessa confermare il già noto: accoglie il divenire, inventa modalità da superare di continuo. È ciò che avviene, del resto, nei territori dell’arte, nella sfera degli sdoppiamenti, delle trasmutazioni. Realtà e immaginazione si (con)fondono, si scambiano le parti; una sfida che spinge, anche, la parola poetica ad interrogare se stessa, a interrogarsi sul linguaggio. Essere un altro è proprio della maschera, ma attenzione, la maschera è ciò che ci mette in contatto con la parte oscura e inesplicabile del nostro sé, quella parte a cui la parola poetica attinge. Non un gioco a “nascondere”, ma a svelare, a «portare in superficie il senso assente», come osserva Blanchot.

C’è un poeta, un filosofo, un artista che vorrebbe ringraziare per averle illuminato ‒ per così dire ‒ il percorso e le scelte, e perché?

Come si fa a estrarne solo una quando l’intero percorso è costellato di figure esemplari, ognuna speciale e incancellabile, che è passata lasciando un segnale, un’incisione sulla pelle, che ti ha fatto tremare… Alejandra Pizarnik , qualche giorno fa, leggendola, mi ha procurato qualcosa di simile.

Cosa ne pensa del ruolo delle riviste letterarie in una società vacua basata sull’iper-capitalismo e sull’indifferenza culturale?

Cosa penso piuttosto, di una società vacua che ostacola in tutti i modi la ricerca artistica. Male! La ricerca artistica non si limita a stilare proclami, si spende sul campo. È viva l’arte che crea e innova, ed è viva quando rompe le ossa all’inerzia mentale. Perciò la si mette a tacere, la si neutralizza, si cerca di comprarla. Una rivista letteraria, a mio avviso, non può fare a meno di proporsi come alternativa attiva a certe logiche di asservimento culturale, all’appiattimento comunicativo che svilisce la lingua; viceversa, non ha motivo di esistere.

Cosa salverebbe della Napoli letteraria odierna e cosa butterebbe dalla torre? Ci dia anche delle spiegazioni, se le è possibile.

Che dire? Le vicende cicliche di una città sono imperscrutabili. Non si può negare che la persistenza di un diffuso dilettantismo resiste accanto a non pochi casi di potenzialità interessanti, purtroppo quasi del tutto soffocati dalla indifferenza generale e dalla scarsità di iniziative di rilievo. Qualche piccola oasi appartata qua e là e qualche scoglio scontrosamente inospitale… Spiace notare che nel campo della ricerca va affievolendosi sensibilmente la passione del lavoro sul linguaggio – ma questo lo si chiama: essere in linea con i tempi ‒. L’ostentato appiattimento dei linguaggi sembra  avviarsi ad uno stadio preoccupante di irreversibilità, a cui fa riscontro, in opposizione speculare, qualche caso di concettosità raffinatissima e spericolata, tanto seducente quanto poco sostenibile in poesia. Le raccolte poetiche si continuano a stampare a ritmo ossessionante, ma non si è capito ancora a chi siano destinate, all’uomo della strada? al poeta? al critico? Alla storia? Chi le legge semplicemente non c’è, mancano dati su di lui, non è proprio configurato nello schema. Lo stesso dicasi del pubblico, eternamente latitante colui a cui tutto è dedicato e che più di altri ignora quanto  la poesia lo riguardi, invece molto ma molto da vicino.

Dopo aver perso per avvenuta morte, grandi personalità nel campo delle arti e della poesia, quali Stelio Maria Martini, Franco Cavallo, Luciano Caruso, Alberto Mario Moriconi, etc. ci sono a Napoli letterati in grado di risollevare le sorti della poesia e della letteratura in genere? Cosa occorre fare affinché Napoli ritorni il centro della cultura non soltanto meridionale?

I nomi ci sono e si conoscono, ma c’è anche altro, la mappa appare variegata, esiste qualche zolla fertile e campi ben arati ma sterili, ci sono alcuni viottoli ciechi e qualche voragine improvvisa, ci sono pure delle mine vaganti qua e là che restano inesplose e ci sono scandagli spinti in varie profondità, ma che rimangono, ahimè, sommersi anch’essi… Che fare? Ce lo chiediamo. Questa non è più epoca segnata dall’autorevolezza di protagonisti singoli; attorno ai nomi qui riportati, (ma perché escludere i nomi femminili? Una Lina  Mangiacapre, per esempio, artista molteplice che ha fatto dell’antagonismo culturale un progetto di vita ci dovrebbe stare, eccome!) era tutto un cenacolo significativamente operante: alta e potente era la spinta innovativa, davvero  sentito era il piacere e l’entusiasmo di portare avanti, a spettro ampio, un movimento delle idee, in quanto proprietà comune di una stessa fervida epoca e non un distintivo personale. Cosa occorre fare affinché Napoli ritorni etc… Da parte mia, sempre per rimanere in ambiti realistici e non nostalgici o illusori, posso solo fare una semplice considerazione che spero sarà da alcuni condivisibile, e farà forse fischiare le orecchie a qualche altro. Penso risulti di tutta evidenza che il carattere di autentica autorevolezza, cui prima  accennavo, sinceramente riconosciuto al letterato/artista del nostro recente passato e derivante dalla valida e davvero valorosa novità delle idee, oggi sia, almeno in riferimento alla maggior parte dei casi, soppiantata dalla abilità tutta opportunistica di gestire la creatività letteraria. La poesia ha smesso di essere una figura guerriera. Lo è rimasta, nel campo dell’arte, in un caso forse unico ‒ a mio parere ‒ e non posso che riferirmi al grande Mario Persico. Tra i letterati/artisti, un Caruso, oggi, sarebbe impensabile. Se vi fosse oggi uno come Caruso sarebbe, probabilmente, più che un produttore di cultura, un uomo di potere, un politicante della poesia. Che dire? Le carte in tavola sono cambiate, non si capiscono le “regole del gioco”, ci troviamo delle carte in mano che non sono le nostre, e non c’è più nemmeno il gioco. Cosa fare, dunque? A mio modesto parere il problema non è di ordine strategico, non è neppure genetico, il problema è globale.

Durante il suo percorso artistico l’asse si è spostato verso l’aspetto narrativo. Ci riferiamo soprattutto alle sue prove teatrali che cercano di svincolarsi dagli stereotipi per mettere sulla scena forme antagoniste. Cosa rappresenta per lei il teatro, solo una opposizione di antagonisti, per es. logos ed eros, pathos e thanatos e via dicendo, o c’è una indagine più interpretativa che al lettore sfugge?

Sul circuito miniaturizzato della mia pagina le deviazioni dalla linea poematica sono ben accolte: il “vagone” narrativo si trova talvolta a oltrepassare il tratto di “scambio” per intraprendere direzioni diverse. È il caso, ad esempio di qualche pamphlet dalla struttura dialogica e sperimentale del decennio scorso e, da ultimo, una recentissima esperienza in prosa, più estesa e impegnativa espressa nella forma romanzo ‒ una sorta di thriller psicologico dal titolo Oltre la linea gialla lavoro tuttora in attesa di riscontro (incrocio le dita) nella speranza di una proposta di pubblicazione…

L’intonazione teatrale  cui si fa cenno nella domanda, è in realtà presente in quasi tutti i miei lavori, un teatro metafora, un teatro mutante dalle mille anime e accensioni inaspettate connesso non a un ordine fisico, ma mentale. Un teatro a cielo aperto, fatto di superfici specchianti ‒ così lo voleva Carmelo Bene ‒ dove ogni luogo è un altro. Dove vedersi all’interno stando fuori. Che inventa da sé lo spazio in cui esistere. Un gioco scenico che muove le parole e i ritmi sfidandoli a dire qualcosa che ancora non so riconoscere, ma che mi appartiene nel profondo, che sta lì dietro le quinte, e arde. Sono stati della percezione che giungono a me per “trasfusione” e “contagio” attraverso l’animus stesso della Città, dei suoi tanti volti; è lei che stabilisce le misure e i pesi, da cui apprendo i miei confini e li rapporto con gli altri, è lei che a suo modo resiste, che divora ed espelle talvolta chi la ama. E orgogliosa, orgogliosissima della propria tradizione drammaturgica riconosciuta il tutto il mondo.

Si sa che il futuro di una società è in mano ai giovani. Quale eredità gli lasceremo e quale insegnamento?

Non trovo di meglio che affidare ai nostri giovani le parole di Franco Cavallo: «L’unico progetto che si può fare oggi in poesia è la salvaguardia del fondamento etico della poesia stessa».

Napoli  2 . 02 . 2018


 

/ 5
Grazie per aver votato!

2 Risposte a “GIORGIO MOIO, Intervista a Marisa Papa Ruggiero”

  1. Mi è particolarmente cara l’attenzione, acuta e sensibile, di una autentica signora della poesia come Annamaria Ferramosca, che a mia volta seguo con profondo interesse e che vivamente ringrazio.
    Marisa Papa Ruggiero

  2. Un’intervista rara ed esauriente questa, che grazie alle stimolanti domande di Giorgio Moio all’artista-poeta Marisa Papa Ruggero, attraversa l’originale universo poetico e di pensiero dell’autrice, offrendole pure l’estro di dare una convincente analisi dello stato della poesia italiana oggi. Un percorso che sembra essere fin dal suo nascere, fortemente determinato a cercare l’estraneità a qualsiasi categoria del passato, improntato ad un potente instancabile dinamismo creativo e ad una ricerca costante di novità dei segni verbali.
    E mi piace quel girare la risposta su chi si è, alla lettura dei suoi libri. Perché è profondamente vero, la parte biografica dell’autore e purel’autoraccontarsi non ha significanza di fronte a ciò che offre l’estensione dell’immaginario fatta colare sulla carta. Interessante è anche la sua chiara percezione dell’opacità e staticità che oggi pervadono il mondo della poesia, soprattutto riguardo alla misteriosa sua fruizione e decantazione di spessore – chi legge? chi seleziona? chi ha autorevolezza ?chi resterà? E pienamente concordo con la sua risposta finale sul futuro della poesia, possibile solo se non sarà perduta la sua fondamentale base etica.
    Grazie dunque per questo utilissimo post che sprona a leggere la poesia di Marisa e pure la poesia in generale, per un necessario raffronto del valore-senso della parola poetica.
    Annamaria Ferramosca

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.