GIORGIO MOIO, Intervista a Ugo Piscopo


A Napoli ci sono scrittori e poeti che hanno ricevuto dalla città molto meno di quanto abbiano dato alla crescita della cultura partenopea e non solo partenopea. Uno di questi è Ugo Piscopo, saggista, narratore, poeta, nato a Pratola Serra (AV) nel 1934, e dopo il percorso scolastico, con una laurea in Lettere classiche conseguita alla “Federico II”, discutendo la tesi col prof. Francesco Arnaldi (1957), inizia ad insegnare materie letterarie in scuole secondarie, “vagabondando” tra Napoli, Lacedonia, Ariano Irpino e Tripoli (Libia) dove viene addirittura imprigionato per quattro giorni. Nel 1967, dopo quattro anni in Libia dove insegna Lingua e Cultura italiana per stranieri c/o Istituto Italiano di Cultura, tenendo anche un corso di conferenze sulla poesia italiana contemporanea, presso il medesimo Istituto, alle dipendenze del Ministero degli affari esteri, fa ritorno in Italia e si stabilisce con la famiglia a Napoli. Dal 1973 al 1984 è nominato preside in vari licei e dirigente superiore per i servizi ispettivi del Ministero della Pubblica Istruzione fino al 2000.

Nonostante l’impegno culturale e letterario,  il Piscopo poeta (che è quello che qui c’interessa) riscosso molto poco di quanto meriterebbe, e con questa intervista mi appresto, con passo felpato, a contribuire affinché si conosca un po’ di più.

 

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Come si muove un fine intellettuale come te, che si è speso e si spende su vari versanti culturali (critica, arte, scuola, riscoperta di movimenti e letterati – penso al futurismo, al surrealismo, ad Alberto Savinio, per fare qualche nome ‒) non legato alla cultura-spettacolo e/o mercimoniosa, nell’ambiente in cui vive, con distacco o come paladino di quella cultura seria, indispensabile per il vivere quotidiano?

Sono stato e sono sempre dalla parte della serietà, – non della seriosità, che è ben altro. E forse sono ancora più dalla parte della serietà, quando scherzo, spesso amaramente, come, ad esempio, nella trilogia “Le Campe al Castello” – “Il Signor Padrone e il suo misterioso Consigliori”-“La Bonifica ovvero Lit all’incanto”. La comicità, spiegava Socrate nel “Simposio”, presente Aristofane, con cui egli dialoga per via diretta e per via indiretta, è tanto più sé stessa, quanto più ha consapevolezza del suo opposto, che è il tragico. Quanto più nasce di riflesso della contraddizione e ne tenta una messa tra parentesi, in sospensione anche se provvisoria. A prova che il mondo non è tutto una tragedia.

Certo, la serietà, quella vera, costa e te la fanno pagare. Ma questo è in premessa,viene sottoscritto dall’interessato nel protocollo d’intesa iniziale. Poi, lo stesso non ha più diritto di lamentarsi. Deve solo stringere i denti e andare avanti, qualunque sia il prezzo da pagare.

Qual è il tuo rapporto con Napoli, ossia con la città in cui vivi, le sue bellezze, la politica, etc.?

Il mio rapporto con Napoli e col Sud è stato di intensa partecipazione. Fino a ieri. Oggi, però, per gli acciacchi dell’età, devo procedere col contagocce: potessi fare-dare di più, ne sarei felice, ma non posso materialmente. Però, ci soffro. Ai bei tempi, ero in continuo conflitto con mia moglie, che si spazientiva  di tutti quei miei impegni, nella scuola, al giornale, al partito (il PCI), al sindacato (la CGIL scuola), nelle case editrici, negli eventi artistici, nei dibattiti, nelle associazioni culturali,  – sono stato, tra l’altro il responsabile per la critica d’arte per Napoli di “Paese Sera” e l’ultima monografia d’arte l’ho pubblicata nel 2015, pesante di quasi due chili – e ogni tanto, non potendone più, mi ingiungeva: “Ma prenditi la branda e vattene al tuo Liceo, al tuo Giornale, al tuo Partito, perché lì è la tua casa. Vattene dove vuoi, le vie le sai, e non ti fare più vedere da queste parti. Tanto, qua che ci stai a fare? Solo per rappresentanza e per dare fastidio!”

Se tu avessi una bacchetta magica (perché penso ci vorrebbe una bacchetta magica per ripristinare un vivere socio-culturale che programmi una sana e laboriosa esistenza) cosa cambieresti di Napoli?

Mi terrei tutto di Napoli nella sua materialità, col Vesuvio, il Golfo e gli altri annessi. Con la clausola, però, di poter procedere a un risanamento totale a livello ambientale e urbanistico, dai fondali marini e dal sottosuolo avvelenato e intasato di ogni porcheria e di ogni avanzo alle strade al tessuto edilizio al verde all’aria, ridotta attualmente a uno shakerato di gas venefici. In quanto agli abitanti, beh, tutto sommato, me li terrei, anche se avrei voglia di tagliare “a tutti lo capo a tondo”, come diceva Cecco. Me li terrei, anche così come sono, nel bene e nel male. Ma una cosa fondamentale cambierei nella loro testa: che devono imparare a rispettare, non il boss o sé stessi al di sopra di tutto, ma la dignità della persona, a partire da sé stessi a terminare a tutti gli altri, belli o brutti, alti o bassi, maschi o femmine, vecchi o giovani, napoletani o non napoletani, sani o malati.

E devono, anche e ineludibilmente, assumere sempre e comunque il senso etico-civico della corresponsabilità sociale, della legalità, della trasparenza, della relazionalità corretta e costruttiva con l’ambiente, consapevoli che quel che c’è non è roba da arraffare, ma da potenziare e migliorare anche per le future generazioni.  

Quali sono i programmi culturali che hai in agenda?

Non parliamo di “programmi”: il mio futuro ormai è alle spalle. Adesso, navigo sotto costa, a vista.

E, a vista, posso dirti di alcuni lavori pubblicati di recente o avviati verso tale soluzione: 1. un volume di circa 350 pagine, di cui ho già corretto le prime bozze e che potrebbe uscire già fra un mesetto. È dedicato al teatro giovanile del periodo fascista, i cui protagonisti, tra il 1943 e il 1945, cambiarono orientamento ideale di centottanta gradi, magari abbandonarono del tutto il teatro e dintorni, per riconvertirsi in nuovi intellettuali e nuovi politici, ma, anche se parlarono e agirono in nome di altri referenti ideali, nella sostanza continuarono a usare quei moduli, quelle griglie ermeneutiche, quella foga inventiva degli anni del fascismo. A Napoli, questa vicenda riguardò autori come Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Antonio Ghirelli, filosofi come Pietro Piovani, intellettuali e politici come Massimo Caprara e Giorgio Napolitano, di cui si riportano documenti e testi mai più ripubblicati o citati; 2. una raccolta di poemetti dal titolo “Epilli”, con prefazione di Stefano Verdino e postfazione di Vincenzo Guarracino; 3. un volumetto, a cura mia, di lettere e appunti dal fronte della Grande Guerra di mio padre, Gaetano, con prefazione di Francesco Paolo Casavola e postfazione di Marcella Marmo; 4. la stampa di una pièce teatrale dedicata a Francesco Cangiullo e alla sua “Piedigrotta”, andata in scena un centinaio di volte in più stagioni sotto la regia di Renato Carpentieri e nell’interpretazione della sua compagnia “Liberasceneensemble”.

Tu che conosci abbastanza bene l’editoria napoletana, sai dirci perché è considerata la sorella povera di quella, per es., del nord (Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Marsilio, etc.), per non parlare degli scrittori e poeti locali del calibro di Franco Cavallo, Felice Piemontese, Michele Sovente, Antonio Spagnuolo, Ciro Vitiello, Alberto Mario Moriconi, tu stesso, che hanno poco o nulla da invidiare al resto d’Italia ma che puntualmente vengono esclusi dalle antologie pubblicate dai vari Mondadori, Einaudi, etc.? Per es. faccio riferimento, una per tutte, all’antologia di qualche anno fa, Poeti del secondo Novecento 1945-1995 (Mondadori, 1995), curata da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, più che un’antologia, la definirei una “combine nordica”.

L’editoria napoletana è, oggettivamente, non comparabile con quella del Centro-Nord, per quantità di prodotti, per qualità, per capacità di persuasione. La colpa non è di Napoli, ma della mentalità a cui si ispira e dei modelli organizzativi. E non è del Sud. A Napoli, infatti, quando si è voluto fare qualcosa di buono, lo si è fatto. Esemplare è la vicenda della Casa Editrice Riccardo Ricciardi, cresciuta all’ombra della presenza e dei suggerimenti di Benedetto Croce. Partita in maniera modesta, grazie alla coerenza dell’indirizzo culturale e della serietà dei prodotti, si è infine affermata con un suo profilo di affidabilità e di unicità, tanto da essere accolta dalla Mondadori ed essere esibita come un fiore all’occhiello per tutta la cultura italiana, col bel nome di “Ricciardiana”. A Napoli, abbiamo avuto anche esperienze da tenere presenti su questo orizzonte di attesa, delle Case Morano, Loffredo, Guida, Liguori. Nel Sud, poi, abbiamo tante altre vicende degne di rispetto, come innanzitutto quella della Laterza di Bari e ora di Roma-Bari, o quella della Sellerio di Palermo, o quella della Rubbettino in Calabria. In questione, dunque, non sono Napoli e il Sud. Il nodo dei problemi in negativo dell’editoria meridionale è stato ed è costituito dall’occasionalismo, dall’assistenzialismo, dall’improvvisazione, dal modello del bancone “qua il libro, qua i soldi”, dalla mancanza di imprenditorialità negli investimenti, dalla debolezza dei progetti, dalle gelosie localistiche, dall’incapacità a creare e a diffondere la propria immagine. Da ciò, non possono non scaturire conseguenze anche sul profilo dei nostri autori.

Parlaci un po’ di uno dei tuoi ultimi lavori letterari, la riscoperta del poeta francese Victor Segalen, che hai curato tradotto e prefato, Peintures (Oedipus, Salerno, 2015), una delle opere maggiori di Segalen, poeta che non conoscevo e grazie a te ora ho una conoscenza in più nel campo letterario.

Quest’ultimo lavoro mi sta dando molte soddisfazioni. Mi hanno scritto o ne hanno scritto entusiasti Mario Richter, Silvio Ramat, Stefano Lanuzza, Paolo Lagazzi, Stefano Lanuzza, Felice Piemontese, Silvio Perrella e altri. A questo lavoro, ho pensato da tanto tempo. Ma ho dovuto dare priorità ad altre ricerche. Comunque, ogni volta che mi fermavo a riflettere sulle origini e gli svolgimenti del moderno, prima o poi mi imbattevo nella figura e nell’opera di Victor Segalen, che andavano conosciute meglio. E, con la mia traduzione, ho voluto dare un contributo, per quanto potessi, a far conoscere l’originalità, l’inventività, la sperimentalità attualissima di un autore proiettato ad andare oltre i modelli culturali dell’Occidente e a interrogare le interrelazioni linguistiche fra pittura e poesia.

Dall’alto della tua lunga esperienza letteraria, ormai ultra-sessantennale, le nuove generazioni sono in grado di opporsi all’illegalità e alla mancanza di cultura in grado di programmare il loro futuro a dimensione umana o sono destinati ad un servilismo silenzioso?

È, questa, una domanda da un milione di dollari. Potrei dire quelli che sono i miei auspici, ma non quello che può essere lo svolgimento del nostro tempo nel concreto. Gli stessi addetti alle previsioni, se per il passato hanno spesso sbagliato, oggi si trovano a dover fare i conti con eventi e situazioni inediti nella storia, le cui conseguenze non sono perfettamente calcolabili. La possibilità oggi del sistema di controllare e orientare strumentalmente opinioni e coscienze di tutti e in particolare dei giovani è mostruosamente in crescita. È innanzitutto questo quello che dovrebbero sapere i giovani e cercare di salvaguardare sé stessi dall’essere adoperati e ridotti a semplici, passivi utenti, ognuno felice di scegliere la propria schiavitù.

È ancora possibile pensare di realizzare, a Napoli, una letteratura come l’avanguardia degli anni ’60-’70 che evidenziava la vacuità dell’esistente con prese di posizioni radicali e innovative, dei vari Luciano Caruso, Stelio Maria Martini, Mario Persico; la ricerca astratta di un Renato Barisani in pittura; o la spinta in avanti delle riviste «Documento – Sud», «Linea Sud», «Continuum», «E/man/azione«, Uomini e Idee», o la ripresa del surrealismo e di una letteratura materialistica proposte da Franco Cavallo con la sua «Altri Termini», etc.?

È possibile, anzi necessario, andare avanti. La modernità e la postmodernità sono degli acquisti essenziali e fondamentali, sebbene tanti e in tante maniere, dalle banali alle meno banali, tentino di pensare, di dire e di fare, come se niente fosse successo. Vogliono tenere gli occhi bendati. È una loro scelta. Andare avanti, però, non può significare epigonismo e scolasticismo. Oggi bisogna ripensare e rifondare, ad altezza delle attese e delle potenzialità dei nuovi tempi, la nuova poiesi. Bisogna esporsi al tormento del dubbio e della ricerca e al rischio di fallire. Occorrono, come sempre, agonismo e coraggio.

Agonismo e coraggio che tu sin dai tuoi esordi si sono realizzati attraverso una parola non intimistica né simbolica o protratta per forza verso una significazione, rimettendo tutto in discussione, anche se stessa, per riconoscere qualcos’altro tra le pieghe del reale, come riporta un tuo testo in Jetteratura: «… “Non hai fede perciò queste tentazioni del deserto” / mi dici e non sai se ci giochi lo strazio del travaso / delle parole che usi come oggetti belli / da lustrare e disporre secondo i giorni e le stagioni / Non sai che gli oggetti hanno barbe e radici nello spazio / e le parole sono farfalle sotto vetro / e la memoria è un museo dove ogni cosa unica conservo…».

I dibattiti sulla poesia e sulla letteratura in genere, che pur si sono tenuti in questa città – contrariamente a quanto si possa pensare e credere –, non sono riusciti a contrastare la supremazia di un livello mediocre e restaurativo. Anzi, hanno accentuato ancora di più quello che già si prospettava da tempo; e cioè che la cultura napoletana (certa cultura, almeno) ha una spiccata propensione a bearsi nel riconoscimento, nell’“applausometro”, nei lineamenti di una tradizione ormai fuori tempo, piuttosto che farsi carico di una proposta di mutamento. Nessuno vuole assumersi tutti i rischi che un mutamento radicale e impegnativo porta in superficie, in questo contesto storicamente deviante, antropologicamente “infetto”, fisiologicamente anchilosato. Secondo te come se ne esce?

Certo, oggi nel mondo i livelli di estetizzazione, di spettacolarizzazione, di banalizzazione, di alienazione dalla drammaticità del reale si vengono alzando, col concorso di molteplici fattori. A Napoli, questi processi si fanno più policromi, rumorosi, sensualmente avvolgenti. Ma non tutto va verso questa direzione. Ancora oggi, nelle arti (musica, pittura, scultura, poesia, cinema, teatro), negli studi sia umanistici, sia scientifici, si sta costruendo del buono, degno della grande tradizione che va dal Pontano e da Giordano Bruno a Vico, agli illuministi, a De Sanctis, a Croce e oltre. Bisogna resistere e procedere nelle ricerche, anche se attorno la confusione cresce.

In conclusione, tralasciando il nutrito lavoro di testi critici e scolastici ‒ come accennato più sopra ‒ di grande rilievo, soprattutto alla riscoperta di autori trascurati o dimenticati o di movimenti d’avanguardia (p. es. Alberto Savinio, Massimo Bontempelli, Vittorio Pica, il futurismo), per cui ha raccolto, giustamente, molti riconoscimenti e si è fatto “un nome”, il Piscopo poeta è tutto o quasi da scoprire.

Analisi critica della realtà (in particolare quella del rurale sud, in primis sulle orme di Scotellaro e Sinisgalli) e sperimentazione stratificata di una poesia fatta di rimandi, metafore, citazioni, tradizioni popolari, plurilinguismo, rime interne: è questo Piscopo, e molto altro ancora, ovviamente, un poeta che relaziona la parola con la realtà in cui vive, con la terra in cui vive, esternamente da sé. Non c’è intimismo o autobiografia nei testi di Piscopo: nella sua poesia tutto si fonde per una commistione ideologica e linguistica atta a scuotere le coscienze invischiate in un processo industriale e progressista (si fa per dire!), dove l’uomo è sostituito dal consumismo odierno e da un mercato più vieto che rende merce persino il pensiero: come può opporsi il poeta a tutto questo? con l’unica arma di cui dispone: la parola.

Poesia quasi gnomica, questa di Piscopo, frammista ad un’autoironia del divertissement, nonché allo strazio e al dolore che la lotta all’ipnotismo di una imposizione di fasulle certezze si rassoda nel suo fare poetico.

Allitterazioni, dunque, sovrapposizioni e frammenti forzano il ritmo di un accumulo verbale antilirico; enjambement e non solo enjambement, anafora di grande tensione espressiva, paradossi dell’assurdo, mettono sul piano delle iniziative, nonostante qualche eco d’ispirazione alessandrino o tardo stilnovista, fatto salvo il ricorso alla matrice manieristico-barocca, non più il metodo ma i metodi, non più l’assolutezza ma la relatività, non più la verità ma le verità della scrittura, non già sulla strada dell’origine, ma sulla strada dell’uomo, nel tentativo di rendere possibile l’impossibile: «dui cilia quatto cilia sei cilia / sicilia silicia silicosi silicato // calabria calabritto caladritto / nel cratere di calasetta e calascibetta // sfoglia la pula che smaglia che sfoglia / la puglia le lune e gli sonagli // sotto lo sperone del gallo giallo come la puglia / la crapa crepa de la basilicata tutta bruciata».


Biografia di Ugo Piscopo


 

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2 Risposte a “GIORGIO MOIO, Intervista a Ugo Piscopo”

  1. Bella questa intervista in cui sento il piglio intransigente di Ugo Piscopo ed anche la sua grande umanità, la passione della ricerca, veramente inesausta. Conosco parecchio di lui, certamente però un piccola parte della sua sterminata attività, ho avuto il privilegio di ospitare alcune sue presentazioni, per esempio quella si Segalen o quella dei suoi mille Haiku…Gli sono sinceramente affezzionata, so di aver imparato da lui. Mi dispiace solo di non incontrarlo spesso!

    1. Eh già… Non incontrarlo spesso… Io ne sento parlare da vent’anni ma non ho mai avuto il piacere di conoscerlo di persona… 🙁

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