GIORGIO MOIO, Intervista a Marco Palladini

DISCUSSIONI – INTERVISTE


Dopo le interviste ai poeti residenti in Campania, riprendiamo il discorso delle interviste rivolgendo le domande – le stesse per tutti – ai direttori di riviste non solo con sede in Campania. Oggi intervistiamo Marco Palladini, direttore di «L’Age d’Or», rivista on line con redazione in Roma.

Come e quando è nata «L’Age d’Or»?

Potrei cavarmela con una battuta e dire che questa web-review è un “affare di famiglia”. «L’Age d’Or», rivista di cinema e cultura, è nata infatti su precipuo input della mia compagna, Desirée Massaroni, critica e studiosa di cinema, proprio per avere uno spazio indipendente di espressione e di riflessione critica. La rivista è giovanissima: è andata per la prima volta online all’inizio dello scorso marzo, più o meno in coincidenza con l’avvio del lockdown. Potremmo quindi dire che siamo nati assieme alla pandemia, ovvero anche contro la desertificazione indotta dalla quarantena che ha forzatamente spostato tutto l’agire culturale sul web, facendo della rete una trincea di resistenza o resilienza che dir piaccia, per reagire al rischio di ammutolirsi o di essere totalmente soverchiati dal logos o dalla chiacchiera onnimediatica incentrata ossessivamente sul coronavirus.

A proposito: perché hai scelto il termine «L’Age d’Or» che richiama al titolo di un film del 1930 diretto da Luis Buñuel?

Volevamo, con Desirée, un nome che avesse delle ascendenze cinematografiche, ne abbiamo vagliati oltre trenta, alla fine abbiamo scelto «L’Age d’Or», un po’ per il comune, grande amore per il primo cinema surrealista di Buñuel, un po’ perché ci sembrava un titolo ironico e liberatorio rispetto al tempo tragico e depressivo del Covid che stavamo (e che stiamo) vivendo.   

Qualche tempo fa dirigevi un’altra rivista, «Le reti di Dedalus». Quali sono le differenze peculiari tra le due riviste?

«L’Age d’Or» esiste, ribadisco, principalmente per volontà della mia partner (che è la direttrice editoriale, io sono il direttore responsabile). Avendo fondato e diretto per oltre dieci anni, dal 2004 al 2015, «Le Reti di Dedalus» ritenevo di avere già dato. Ma stare con una persona più giovane ti obbliga a non ripiegarti verso una sorta di autopensionamento. Battute a parte, va spiegato che «Le Reti di Dedalus» era la rivista ufficiale del Sindacato Nazionale Scrittori legato alla Cgil. Dunque, fin dal principio il progetto che misi a punto era quello di una rivista online che doveva essere rappresentativa di un’area sindacale-letteraria la più ampia possibile. Non era e non poteva essere una rivista di tendenza o di gruppo, anche se poi la selezione qualitativa e culturale dei materiali da pubblicare era puntuale e rigorosa. Io ero affiancato, peraltro, da una redazione di alto spessore dove c’era uno scrittore-critico di gran vaglia come Mario Lunetta, un traduttore-filosofo, ex-capo redattore di «Critica Marxista», come Alberto Scarponi, studiosi e critici affilati come Simona Cigliana, Gualberto Alvino e Donato di Stasi, autori esponenti del SNS come Tiziana Colusso, Stefano Docimo e Massimo Giannotta, più alcuni giovanissimi e brillanti redattori, tra cui la stessa Desirée. Insomma, la rivista non la facevo da solo, ero in ottima e abbondante compagnia. Tantissimi e prestigiosi erano i collaboratori: impossibile ricordarli tutti. Cito soltanto un eccelso critico-scrittore come Marzio Pieri, il maggiore studioso della letteratura barocca in Italia, il romanziere e critico Piero Sanavio, l’artista e scrittore Bruno Conte, e poi Cesare Milanese, Francesco Muzzioli, Lamberto Pignotti, Mario Quattrucci, Carlo Bordini, Plinio Perilli etc. etc. Mi fermo qua, ma non posso dimenticare che c’eri pure tu, Giorgio Moio. Ecco, questo per fare appena intendere che la decisione del SLC-CGIL nel 2015 di far morire la rivista è stata, obiettivamente, un delitto culturale. Ancora per anni tanti autori e docenti universitari mi hanno chiesto perché non facevo rinascere «Le Reti» e io ogni volta dovevo spiegare che, pur avendola diretta per una decade, la proprietà della testata non era mia.

Ecco, «L’Age d’Or» è di nostra proprietà (mia e di Desirée) e quanto meno nessuno ce la può togliere. Va avanti con le nostre limitate forze e risorse. Non abbiamo obblighi e doveri verso chicchessia. Gli abbiamo dato una struttura editoriale che, in piccola parte, ricalca «Dedalus», ma dal punto di vista quantitativo i materiali sono assai di meno. Pubblichiamo soltanto quello che ci piace e ci interessa puntando sulla qualità e l’attualità.  Per esempio, nel numero di giugno abbiamo pubblicato un’intervista a Enrico Magrelli, storico conduttore della trasmissione di RadioTre “Hollywood Party”, sulle ricadute dell’epidemia sulla produzione e la fruizione di film e serie tivù; un’altra intervista ad un giovane filmmaker turco sulla situazione culturale e politica nel paese guidato dal discusso premier Erdogan; nonché degli scritti poetici dell’attore-autore Giuseppe Alagna. C’era inoltre un’articolessa di Pippo Di Marca sul teatro d’avanguardia italiano in omaggio all’attore e regista Cosimo Cinieri, compagno di scena di Carmelo Bene, deceduto meno di un anno fa; i testi del poeta danese, inedito in Italia, Poul Lynggaard Damgaard, tradotti da Marco Caporali con la collaborazione di Pia Henningsen; un ricordo critico di Michel Piccoli, uno dei più grandi attori francesi ed europei, morto a 94 anni; una recensione del singolare libro critico di Franco Cordelli Che tutto abbraccia. I giorni e i film. Ancora, il pezzo di Stefano Lanuzza sul volume della studiosa e docente fiorentina Ernestina Pellegrini Dietro di me. Genealogie. Le artiste surrealiste e altre storie; i due racconti in forma di dialoghi immaginari e impossibili (con Josè Saramago e Mario Lunetta) di Maria Jatosti; e l’analisi sulla crescita della destra populista-sovranista di Fratelli d’Italia, ripresa da un sito inglese, a firma di Valerio Alfonso Bruno e James F. Downes.

Molto altro abbiamo pubblicato nei tre mesi precedenti: rammento soltanto la recensione del libro Zavattini a Roma. Di padre in padre, firmato dalla nipote Silvia e da Steve Della Casa, e la visione gratuita del film del regista-musicista Luigi Cinque Transeuropæ Hotel, interpretato, tra gli altri, da Pippo Delbono, Peppe Servillo e Petra Magoni. Il numero di luglio attualmente online lo si può visitare direttamente su lagedorivista.wordpress.com

Siamo nell’era digitale e molte riviste stanno abbandonando il cartaceo o preferendo entrambe le proposte. Perché voi avete preferito solo la versione on line? Scartando il cartaceo, è ovvio che si rinuncia alla fisicità, all’odore dell’inchiostro o al piacere tattile di girare le pagine. Non vi manca tutto questo? Secondo te c’è una peculiarità particolare che distingue le riviste on line da quelle cartacee? Quale?

Fin dall’inizio degli anni zero, avevo compreso che l’era delle riviste cartacee si era esaurita (ne avevo parlato, mi ricordo, con Nanni Balestrini che, pur con rammarico, concordava con me). In primis per ragioni di costi produttivi e distributivi, e poi perché stando in rete si è globali anche se non lo si vuole sapere. Io con «Dedalus», tanto per fare un piccolo esempio, avevo riscontri di lettura dal Nord e Sud America sino all’Australia. Ed eravamo ancora in epoca pre-social. Quando ho avviato «Le Reti» il signor Zuckerberg non aveva ancora inventato Facebook. Questo per dire che la tecnologia, il Game, come lo chiama Baricco, corre ad una velocità che noi dinosauri del Novecento non potevamo un tempo neppure immaginare. Oggi fare una rivista che non sia presente su FB, Twitter e Instagram significa non avere capito come funziona l’oggidiano mondo. Desirée che fa da media manager per «L’Age d’Or» me lo ribadisce in continuazione, infatti lei vive iperconnessa tutto il giorno. Rimpiangere il tempo passato serve a nulla. Ogni volta che c’è una radicale trasformazione si perde qualche cosa, è ovvio. Ma indietro non si torna, tanto più in tempi di pandemia che distanzia finanche le persone fisiche. Suggerisco di vivere serenamente, per quanto è possibile, lo spaziotempo attuale.     

Molte proposte, oltre alla letteratura, che pubblichi sulla tua rivista, si riferiscono, oltre al teatro di cui ti occupi anche in proprio, al cinema. Perché questa scelta?

L’ho spiegato prima: Desirée Massaroni è critica e studiosa di cinema, quindi innanzitutto la rivista si occupa di questo campo (anche se in questi mesi c’è stato sostanzialmente un totale blocco, come per il resto peraltro). Io, poi, fin da piccino sono stato un accanito cinefilo, e mi è capitato in passato (anche recente) di scrivere pezzi sul cinema, ma non ho una preparazione specifica e specialistica. Comunque, viviamo in un’era in cui è inevitabile coniugare sempre di più immagine in movimento e parola. La ipertestualità del web è esattamente questo.   

Noto che «L’Age d’Or» è una rivista multimediale che guarda anche alle forme che la parola assume nell’extraletterario, allargando i confini di ciò che chiamiamo scrittura, alle diverse declinazioni di linguaggi di ricerca. Esistono ancora oggi linguaggi creativi di ricerca e qual è il loro apporto alla letteratura?

La ricerca letteraria in qualche modo sopravvive, ma si è fatta, secondo me, in gran parte, liminare ed epigonale. Non vedo novità estetiche o epistemiche reali, in gran misura si rimasticano, nel migliore dei casi, modalità creative sperimentali che vengono dal passato. Del resto, è dalla fine degli anni ’70 e primi ’80 che sento parlare di Tradizione del Nuovo, brillante ossimoro per significare che l’onda novista, neoavanguardista si era stabilizzata, acquietata e tendeva a farsi canone, maniera, ripetizione del già visto. Non era, del resto, stato Man Ray a dire già negli anni ’30 ai suoi amici dadaisti che «si è all’avanguardia una sola volta nella vita?». Appunto.  

Ti affidi a collaboratori e con quali ruoli?

La rivista la fa Desirée coadiuvata da me che le metto a disposizione la mia quarantennale esperienza di autore e la rete dei miei contatti e amicizie. Le collaborazioni sono talora sollecitate, ma più spesso offerte spontaneamente per empatia e condivisione. Comunque, col filosofo e semiologo delle arti Gabriele Perretta abbiamo stabilito un accordo per cui lui cura, con scadenza bimestrale, una rubrica chiamata “Critica in.finita” che è una sorta di perlustrazione contemporanea in chiave teorica dei confini espansi, intersemiotici dell’esercizio critico, con un taglio di scrittura anche fortemente creativo, idoneo ad abbattere vecchi vincoli disciplinari.    

Sappiamo entrambi le difficoltà che incontra oggi la poesia. Cosa bisognerebbe affinché la poesia ritorni a fare, a dire, a guardare avanti?  

Parafrasando Gianfranco Contini, mi è accaduto più volte di ripetere che non esiste la poesia, ma esistono i poeti. L’istituzione “poesia” la lascio volentieri agli accademici. L’ultimo poeta che ha avuto un impatto sulla opinione pubblica, sulla verbosfera sociale è stato Pasolini. Ucciso lui (giusto 45 anni fa), la voce dei poeti è sfumata, si è ridotta a rumore di fondo nel macroscopico “palaver” (Enzensberger dixit) mediatico. Non la ascolta più nessuno. Anche quella di poeti (penso a Sanguineti) che pur avevano una forte coscienza politica. La mutazione antropologico-culturale preconizzata da Pier Paolo ha fatto strame del ruolo pubblico dei poeti. Non c’è che da prenderne atto. Il poeta, un vero poeta è sacro come diceva Moravia, ma insieme oggi appare una figura residuale, patetica. Se debbo rispondere per me, oltre ad avere pubblicato undici libri in versi, ho sempre ibridato la mia scrittura poetica con il teatro e la performance. Ho realizzato due dischi poetico-musicali e un terzo mi accingo a registrarlo. È la mia forma di resilienza. Pur in un ambito sotterraneo il poeta che getta il proprio corpo e la propria voce oltre la pagina scritta assume a suo modo una propria sacertà, si fa testimone vivente di una differenza. Talora può persino trovare un pubblico di ascoltatori (ovviamente non lettori). Nel 2005 mi trovai allo Sferisterio di Macerata, nell’ambito del Premio Recanati ad esibirmi di fronte a oltre 2mila spettatori e otto telecamere, recitando il mio testo “Oblio di guerre” con accanto il polistrumentista Diego Moser. Duemila persone che ascoltarono in religioso silenzio una poesia, non una “canzonetta”. È stato il punto apicale della mia avventura di performer, ma anche la riprova che, se per caso si riesce a bucare il muro del sistema, il poeta può ancora avere qualcosa da dire pure a chi abitualmente non vuole sentirlo o saperlo.        

Qual è il contributo di «L’Age d’Or» nei confronti della poesia, in particolare quella antagonista alla facile fruizione del mercato?

Le scelte dei poeti da pubblicare sono ovviamente mie e nel poco tempo che esistiamo sono state attentamente mirate. Ho pubblicato testi: dell’82enne Carlo Bordini, di cui sono amico da trent’anni e che reputo uno dei maggiori poeti italiani viventi; di Tommaso Di Francesco, autorevole poeta e condirettore del quotidiano “il manifesto”; di Sacha Piersanti, il migliore dei poeti italiani sotto i trent’anni che personalmente conosco; della talentuosa poliartista Anna Laura Longo; del poeta sonoro Antonio Amendola; di Ilaria Grasso, una giovane autrice che ha da poco esordito col libro Epica Quotidiana; dell’attore Giuseppe Alagna, inedito, che ha voluto affidare a noi alcuni suoi eterodossi testi di intonazione poetico-civile; quindi una selezione di testi inediti di Stefano Docimo, morto nel 2014, con una “poesicanzone” di Amedeo Morrone; sono poi orgoglioso di avere presentato, come detto prima, i testi del poeta danese, Poul Lynggaard Damgaard, inedito in Italia, nella versione in italiano di Marco Caporali, uno dei migliori autori della mia (che è anche la tua) generazione; ricordo, inoltre, la mia versione in italiano di Murder Most Foul, l’ultima grande ballad di Bob Dylan, Premio Nobel 2016, e il video poetico “Hudemata o ferito a vita”, da me realizzato a partire dalle opere poetiche di Marino Piazzolla ( https://www.youtube.com/watch?v=9W3naFuhl4k&t=7s ).

Se la vita è una continua ricerca di se stessi o di quello che ci fa stare meglio, l’assunto può essere girato alla sfera poetica e come?

Mi limito a rispondere con Antonin Artaud: «Se sono poeta o attore non è per scrivere o declamare poesie, ma per viverle. Quando recito una poesia… si tratta della materializzazione corporea di un essere integrale di poesia». Non potrei dire di meglio.

La poesia è irreale ‒ a detta di qualcuno ‒ che invita al silenzio, a rappresentare il silenzio, in quanto impotente nel percepire le condizioni umane e per questo avvinghiata da uno spaesamento. Che ne pensi?

È una visione orfica o neo-orfica che non mi appartiene, anche se amo molto pure poetici antipodici a me, faccio soltanto un nome: Paul Celan. Qui ognuno risponde per sé. Il mio poetare muove dal silenzio, dal dolore di esserci, dallo scontento per cercare una voce e una forma che dia creativa espressione alla critica del mondo. Ho sempre inteso il linguaggio poetico come arma sovversiva versus i linguaggi stereotipati, anchilosati, cristallizzati e manipolatori del potere, anzi di tutti i poteri. In tal senso l’essenza della mia poetica è senz’altro di natura anarchica. Ogni vero poeta non può non essere un poeta politico, cioè un soggetto linguistico oppositivo.     

Cosa pensi della critica, in particolare quella letteraria? Quanto contribuisce oggi a far uscire fuori dal pantano culturale?

Se parliamo di critica ovvero dei critici cosiddetti “militanti”, è una genìa che non c’è più da un pezzo. Sopravvive, certo, qualche singolo critico (io ho molto rispetto per Francesco Muzzioli), ma in generale i critici si sono eclissati. Sui quotidiani nazionali adesso i recensori si chiamano Chiara Gamberale, Nadia Terranova, Paolo Di Paolo, Teresa Ciabatti etc. Ma di che cosa stiamo parlando? Il mercato non ha bisogno dei critici come propalatori di dissenso, ma di attivi e fedeli organizzatori del consenso. Poi c’è la critica accademica che coltiva le sue logiche di scambio, di potere, di occupazione di spazi. Anche laddove ci sono figure di indubbia intelligenza e talento (cito Andrea Cortellessa o Cecilia Bello Minciacchi), il sistema è quello, non muta. E non c’è rinnovamento perché i giovani sono asserviti o ai dettami dell’accademia o alle lusinghe del mercato. Nessuno che osi andare controcorrente. Ma, del resto, non fa la stessa cosa il 90enne Angelo Guglielmi, un tempo punta di lancia critica del Gruppo 63, che da decenni scrutina con benevolenza la romanzeria corrente? Il pantano, come lo chiami tu, è il sistema e l’unica cosa che si può fare è starne dignitosamente fuori e non dolersi della propria condizione underground.      

Sappiamo che le proposte di poesia alternativa, di ricerca, oggi trovano molta difficoltà a farsi “comprendere”. Cosa occorre fare affinché la poesia, la letteratura, non sia assoggettata alla dominante tradizione lirico-sentimentale o alla speculazione dell’industria culturale egemone?

Ho letto da poco un ottimo, impegnativo saggio di Gabriele Guerra su Hugo Ball, il poeta dadaista, poi diventato pensatore mistico cristiano-bizantino. Ebbene anche un secolo fa la poesia “alternativa” era compresa da pochissimi, però si apriva un localaccio, lo si battezzava Cabaret Voltaire e si faceva rumore, si faceva movimento e qualcuno si accorgeva che esisteva un gruppo di matti che facevano cose differenti, appunto oppositive. Il problema è che oggi chi ha la forza di immaginario, l’energia creativa per fondare un nuovo Cabaret Voltaire? Io ritengo, in generale, che da parecchio l’Europa, la cultura europea è entrata in una fase entropica, in una deriva di stanca ripetizione. Già decenni fa Gilles Deleuze rappresentava l’homo occidentalis con la figura allegorica dell’Esausto. Viviamo una fase di esaurimento, lo dobbiamo capire sino in fondo. Forse soltanto quando i figli e i figli dei figli dei migranti assumeranno una identità culturale autonoma si potrà vedere qualcosa di veramente nuovo. La civiltà bianca è in uno stato pre-agonico, questo è ciò che veramente penso. Pur se vado avanti, con quel che resta dell’antico ottimismo della volontà.   

Qualcuno azzarda che le riviste letterarie non hanno più motivo di esistere, visto che non ci sono più correnti letterarie e i lettori scarseggiano o al massimo leggono on line. Perché i lettori dovrebbero leggere la tua rivista?

Non lo so, bisognerebbe chiederlo ai lettori. Per ora abbiamo riscontri incoraggianti. Evidentemente nel mare magnum della rete gente che ha voglia di leggere qualcosa di non corrivo e di culturalmente intelligente ce n’è ancora. Con «Dedalus» avevamo una media di 10mila contatti (unici) mensili, mica pochi. Che le “correnti” siano morte non mi sembra una gran perdita. Ho sempre opinato che uno scrittore deve valere di per sé, non perché è imbrancato in un gruppo o in una corrente, specie se è venuta meno l’urgenza e la motivazione iniziale del sodalizio ed è rimasta soltanto una fiacca o opportunistica etichetta.    

Quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista letteraria in questo “strano” periodo storico affinché torni ad essere protagonista nel mondo letterario come avveniva nel Novecento e maggiormente nel secondo dopoguerra?

Come detto «L’Age d’Or» non è una rivista letteraria strictu sensu, e quindi non può pensare in proposito di ricoprire alcun ruolo. In generale il mondo letterario è oggi in massima parte un mondo post-letterario e dunque le riviste, quelle che resistono, sono reputate oggetti residuali, derive del passato. Però, possono tuttora cementare microcomunità virtuali, connettere soggetti erratici e creare intersezioni e cortocircuiti di accensione e stimolazione pensante. Più di questo non credo che si possa realisticamente fare.   

I giovani poeti o latitano o si credono già degli Emilio Villa. Ma un giovane poeta o scrittore, si sente abbastanza disorientato in questa babele letteraria, perché oggi dovrebbe affidare le proprie idee letterarie alle riviste?

Magari incontrassi un giovane poeta che sa chi era Emilio Villa. Secondo me è già tanto se ha sentito nominare (non dico aver letto) Vittorio Sereni o Franco Fortini. I giovani poeti che conosco, a parte qualche luminosa eccezione come il già citato Sacha Piersanti e qualcun altro che mi è capitato di leggere (Antonio Francesco Perozzi), sono piccoli cortigianini, modesti facitori di versi, totalmente scevri di vere idee letterarie. Mai sentita una presa di posizione critico-teorica degna di tal nome. Si scrive poesia, in genere, senza un orientamento estetico e senza punti di riferimento che non attengano alla scolastica del lirismo. Perciò i poeti sono rari e i poetanti innumeri.   

L’accusa maggiore che viene rivolta alle riviste è quella di giacere in una specie di “oblio”, un limbo collimato dal contesto in cui opera. Sei d’accordo?

Mi pare arduo dissentire. Ma il problema è appunto il contesto. Quanti leggevano realmente negli anni ’50 «Nuovi Argomenti»? Secondo me meno di quelli che consultano oggi le riviste online, ma il contesto cultural-letterario di allora ne faceva una rivista prestigiosa e autorevole, costantemente ripresa dalla stampa nazionale. Azzerato quel contesto si è appunto obliato tutto. Ma forse il punto è che dovremmo smetterla di fare i paragoni col passato. Il Novecento, quel Novecento è morto, non c’è più. Però, ci siamo ancora noi e dobbiamo fare i conti con noi stessi in un contesto radicalmente cambiato e che dobbiamo ancora cercare bene di capire. Forse è questo il vero motivo per cui oggi vale la pena di fare una rivista.   

Detto tra noi, a quattr’occhi, quale dovrebbe essere il ruolo di una rivista in relazione al contesto?

Ti ho appena risposto: dobbiamo cercare di capire cosa può essere il pensare diverso, creativo nel tempo del technomondo. Nessuna desistenza o defezione anche perché «La rivoluzione siamo noi» come diceva Joseph Beuys, un grande artista visionario, antesignano del bisogno vitale di riequilibrare il rapporto tra civiltà umana ed ambiente.  

Per concludere: cosa ci proponi col nuovo numero?

Una riflessione su Alberto Moravia a trent’anni dalla morte, con particolare riguardo al suo problematico rapporto con la poesia; una recensione riguardante Pippo Di Marca, noto regista teatrale d’avanguardia siculo-romano, che a 80 anni ha esordito con un singolare e fluviale romanzo di impronta rabeleaisiana Linee spezzate nella tempesta; un ampio articolo sul picaresco romanzo-diario Il servo del sole di Charles Haldeman, dal saggio inedito di Stefano Lanuzza Senza meta – erranti e letteratura; poi due pezzi di cinema, uno su un documentario dedicato a Marco Pantani, messo ora in streaming in rete, e uno sull’eccellente film di Lady Li I miserabili, premiato lo scorso anno a Cannes; nella sezione scritture ci saranno tre testi poetici di Mario Lunetta recitati da lui, più una poesicanzone di Amedeo Morrone su un suo testo; dovremmo quindi avere anche dei testi inediti di Lello Voce, uno dei maggiori rappresentanti della spoken poetry nostrana, nonché colui che ha introdotto vent’anni fa la slam poetry in Italia. Siamo inoltre in attesa di un altro paio di contributi critici.


Biografia di Marco Palladini


           

/ 5
Grazie per aver votato!

Una risposta a “GIORGIO MOIO, Intervista a Marco Palladini”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.