GIORGIO MOIO, Dove si nascondono i poeti?

SAGGISTICA


1. Nel 1974, Pasolini pubblicò sulle pagine del «Corriere della Sera» un articolo polemico intitolato Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia: «L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi “diverso”. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo».

Sono trascorsi più di quattro decenni da quella presa di posizione pasoliniana e l’ansia del consumismo non si è diradata, anzi si è estesa in tutto l’occidente, in tutto il mondo, direi. La globalizzazione ha creato dei falsi miti, dei mostri di ipocrisia: siamo tutti uguali, ma intanto si fanno delle scelte d’interessi anche razziste. L’Europa non è da meno. Ancora Pasolini: «Nel potere ‒ in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo ‒ c’è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati». E questo da che mondo è mondo, sia chiaro. Ma se un tempo le supremazie, le sopraffazioni si realizzavano per difendere la propria terra, la propria identità o per la conquista di terre vicine, con una scelta comune all’interno dei popoli, oggi la sopraffazione, la supremazia si chiama denaro, per accumuli di ricchezze a vantaggio di pochi, ed ha un solo padrone: le multinazionali con la complicità delle banche che si cooperatizzano nei salotti buoni della finanza.

Insomma: il potere è dato dal denaro e no dalle forze in campo, dalla cultura di un popolo. Mettiamo sotto la lente d’ingrandimento l’Europa, per es. L’idea di unione tra gli Stati si porta avanti dal lontano 1956, creando solo un potere economico di una-due nazioni che dettano le direttive economiche (solo quelle) agli altri stati membri. Affinché gli Stati membri restino sovrani, non si potrà mai parlare di Europa unita: ci saranno sempre contrasti e malumori. Un’Europa unita, ma unita davvero, dovrebbe avere un solo governo, una sola politica interna ed esterna, una sola polizia, una sola giustizia, una equa ripartizione dei beni, una sola legge. Insomma, per evitare idee indipendentistiche (si veda la Catalogna) o di disgregare l’Unione in tanti “staterelli”, come ha detto il filosofo Cacciari, si dovrebbe lavorare sull’integrazione culturale tra i diversi popoli, ma nel rispetto delle proprie radici, delle proprie origini. Se ci aggiungiamo la convinzione nelle teste dei popoli che ogni azione di “ribellione” è nociva e svalutata; se sottolineiamo la dispersione di ogni rapporto umano sostituito da un web sempre più presente e sempre più invadente nelle nostre azioni, al punto da far passare queste ultime come virtuali e il virtuale come realtà; se certifichiamo a più livelli l’ipnotico processo di destabilizzare le nostre azioni per renderci deboli di fronte all’agire quotidiano senza l’aiuto dei “padroni” della politica; allora il quadro di una annunciata catastrofe è completo.

Se nell’Europa unita (ma unita da che cosa poi?) vengono a crearsi movimenti separatisti, è il campanello d’allarme che ci indica di aver imboccato una strada sbagliata, e sedare tali movimenti con la repressione non è certo la soluzione al problema. Occorre mettere in campo un vero dialogo tra le parti, ascoltare le ragioni dell’uno e dell’altro nel tentativo di arrivare ad una soluzione che appaghi entrambi: il mondo, la vita, si basano sul dialogo; senza dialogo non ci possono essere soluzioni.

 

2. Noi italiani siamo alquanto strani. Parliamo di Europa unita quando non riusciamo neanche a rispettare la nostra Costituzione, la quale, è bene ribadirlo, è stata dapprima una conquista del sud quando il 19 luglio 1812, a Palermo, i regnanti Borboni legiferarono il primo statuto costituzionale sul territorio italiano, la Costituzione siciliana del 1812, una carta sul modello della Costituzione di Cadice in vigore in Spagna. Ma la Costituzione, specie nei decenni che seguiranno la caduta del Regno delle due Sicilie, non è mai stata benevole con la gente del sud, neanche dopo il sistema repubblicano che ancora oggi vige in Italia. Si evince già dal “Discorso ai giovani tenuto alla Società Umanitaria” (Milano, 26 gennaio 1955) di uno dei più importanti membri della Assemblea Costituente, Piero Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione». Ma come? Il contributo alla nascita della Costituzione è ad appannaggio solo di chi ha combattuto la Resistenza sulle montagne dal nord fino alla linea gotica di Montecassino, visto che al sud sono quasi inesistenti? Dimentica il buon Calamandrei le quattro giornate di Napoli, momento aurorale della lotta di Liberazione nazionale, e altre lotte di resistenza al sud. «Con la caduta del fascismo, il vento della rivolta cominciò a soffiare anche nei centri urbani. La prima scintilla di quello che sarebbe stato il nuovo fronte di guerra dell’Italia, cioè la lotta contro i tedeschi, esplose ancor prima dell’armistizio, il 2 agosto del ’43, in Sicilia, a Mascalucia, un comune a dieci chilometri di Catania. Ad accendere la miccia fu l’ennesimo tentativo di furto di cavalli e di razzia compiuto da due soldati della Wehrmacht, che provocò prima uno scontro con i soldati italiani, poi un’autentica rivolta popolare armata contro i nazisti, alla quale presero parte decine e decine di cittadini e di militari, con perdite da entrambe le parti. Per spegnere il fuoco della ribellione, fu necessaria la mediazione del comando dei carabinieri.

Nei giorni successivi all’8 settembre del ’43, data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati, in numerose città e in vari presidi militari si registrarono atti di resistenza ai tedeschi, spesso frutto dell’inedita collaborazione tra soldati, carabinieri e popolazione civile. Le cronache parlano di combattimenti a Bari, a Ischia, a Napoli, a Vieste, a Benevento, a Nola, dove per rappresaglia i tedeschi fucilarono dieci ufficiali italiani. A Barletta tra il 10 e il 12 settembre si scatenò una battaglia cruenta per la difesa della città: i soldati del Presidio militare, guidati dal colonnello Grasso, resistettero per due giorni agli attacchi, con l’aiuto di molti civili. Nel salernitano, a Cava de’ Tirreni, la popolazione collaborò attivamente con gli Alleati. […] Fu questo il caso anche delle quattro giornate di Napoli, che iniziarono il 27-28 settembre come reazione ai rastrellamenti operati dalle SS (con l’internamento di 18.000 uomini) e all’ordine di sgomberare tutta l’area occidentale cittadina. Ma la rivolta partenopea, che costò la vita a 562 napoletani, non deve essere considerata un fatto isolato. Essa fu preceduta e seguita da un insieme di veri e propri momenti insurrezionali aventi carattere popolare: impugnarono le armi contro i tedeschi gli abitanti di Matera (21 settembre), di Teramo (25-28 settembre), di Ascoli Satriano (26 settembre), di Nola (26-29 settembre), di Scafati (28 settembre), di Serra Capriola (1° ottobre), di Acerra (1° ottobre), di Santa Maria Capua Vetere (5-6 ottobre), di Lanciano (5 ottobre). A Maschito, un piccolo paese in provincia di Potenza, la popolazione si ribellò contro la guerra e la monarchia costituendo addirittura una “repubblica”» (Mario Avagliano, Sud, la Resistenza dimenticata, in «resistenza italiana.it»).

Sulla Resistenza dimenticata del Sud ha detto la sua anche quella specie di scrittore e giornalista che va sotto il nome di Giorgio Bocca che ha scritto che «nel Sud, la volontà di resistere è come un’energia tellurica di cui non si possono prevedere gli sbocchi» (Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966), definendo questa volontà “resistenza anarchica”. Dispregiativamente? Fatto sta che lo smentisce un piemontese, lo storico Augusto Monti, il quale affermò che «le formazioni partigiane che, militarmente organizzate, agirono contro i tedeschi e i loro alleati, sui monti che fan ghirlanda alla pianura del Po […] furono almeno per un quaranta per cento costituite di “uomini del Mezzogiorno”» (Il movimento della Resistenza e il Mezzogiorno d’Italia, in «Rinascita», n. 4, 1952).

 

3. Dicevamo che la nostra Costituzione sembra invisa al Meridione. Incominciamo dall’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Crediamo che debba anche garantire lavoro a tutti i cittadini. Allora spiegateci perché al Sud il lavoro è sempre mancato, creando sacche di povertà e di lavoro corruttivo e approssimativo. Per non essere tacciato di partigianeria, a conferma di quello che andiamo dicendo facciamo riferimento all’artico 4: « La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E la pari dignità sociale che fine ha fatto?: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3). Qualcuno potrebbe domandarsi: su quali certezze si basa quest’assunto negativo? Semplice. Nella frase «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…». Volete negare che la situazione economica sia uguale tra nord e sud, come le quietanze delle RCA, il tenore di vita, il concorso alle spese pubbliche pagando tasse e imposte superiori secondo il tenore di vita.

L’Italia ripudia le guerre. Lo afferma l’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Ma come scrive giustamente Gabriella Meroni (Guerre in Medio Oriente, le armi sono italiane, in «Vita», 18 agosto 2014): «L’Italia non è estranea ai massacri dell’Isis e dei guerriglieri siriani. Mentre il mondo guarda attonito alle crisi belliche e umanitarie di Iraq e Siria, vengono analizzati i dati della Relazione governativa sulle esportazioni di sistemi militari del 2013 (scaricabile dal sito del Senato), inviata alle Camere in forte ritardo rispetto ai tempi previsti dalla legge e quindi resa nota ad oltre un mese di distanza dalla sua consegna alla presidenza delle Camere. L’analisi si deve a Giorgio Beretta di “Unimondo”, e svela che nel 2013 vi è stato un “record di autorizzazioni e di esportazioni di sistemi militari ai paesi del Medio Oriente, la zona di maggior tensione del mondo”». Forse, come dice qualcuno, abbiamo la più bella Costituzione del mondo, allora c’è qualcosa che non va. Ma finiamola qui: ormai la Costituzione è una traballante vecchietta (nata il 22 dicembre 1947) e alle vecchietta bisogna portare comunque rispetto.

 

4. In una Europa che non c’è, che non è unita culturalmente e/o artisticamente (in realtà, come abbiamo detto sopra, unita solo dal mercato e dal denaro), i poeti, gli artisti, hanno seguito le sue orme; ossia: invece di fare blocco culturale contro il “villaggio globale” delle multinazionali e delle lobby di mercato, si sono sparpagliati, quasi non esistono, ognuno rintanato nella propria turris eburnea. I gruppi militanti e propositivi di un tempo ormai sono una chimera. La domanda sorge spontanea: dove si nascondono i poeti? Occorre andare a “Chi l’ha visto?” per stanarli! Una altra domanda è d’obbligo: quale letteratura riusciamo a produrre in questa vacuità culturale?

È palese che sono lontani i tempi in cui la letteratura si nutriva dei Rimbaud, dei Mallarmé, dei Baudelaire, dei Barthes, etc., fino ad esplodere attraverso i paradigmi di una scrittura inventariale, originale. Ovviamente qualche schiarita e qualche eccezione son pur venute fuori. Ma se dovessimo trarre un bilancio dagli ultimi libri in circolazione, sicuramente saremmo costretti a decretare, nostro malgrado, scarse o nulle novità, fisime sopraffine che trovano ristoro in false originalità. Le caratteristiche predominanti della letteratura italica sono correlate da un certo spaesamento e da una folle corsa verso i tempi andati, che sviluppano inevitabilmente contaminanti linguaggi apodittici. Proposte diametralmente opposte coesistono in perfetta armonia, sfociando nelle bramosie del mercato, della mercificazione, dell’interesse materiale. Il che ci indica che le aperture plurime a un mondo creativo abitano altrove. Per non parlare poi di una specie di psicosi, molto usata dai poeti e scrittori nostrani, da un po’ di tempo a questa parte: quella del ricordo, del passato. Si tratta di un ricordo a volte accompagnato da un gioco ludico, ma anche da una verve irrazionale, simbolica, che approda indefessa sulle rive dello scontato, del dejà dit o dell’eterno inarrivabile.

Facendo nostre momentaneamente le parole del prezioso Barthes di Miti d’oggi, si potrebbe aggiungere, se ancora ce ne fosse il bisogno di aggiungere qualcosa, che il testo rischia di fissarsi, di ripetersi, tramutandosi in testi opachi, degenerando infine in chiacchiera. Il comune denominatore: pensare attraverso la storia o la memoria; insomma, pensare al passato remoto, il che vuol dire ripetersi. Ovviamente è colpa anche dell’industria culturale se, come sembra, i poeti e la poesia sia quasi scomparsa dai radar dell’editoria e dai luoghi un tempo deputati per la sua diffusione e aggregazione. Oggi, ed è squallido e deprimente, alle presentazioni di libri o a letture di poesia, gli astanti ardimentosi e duri da morire, si contano al massimo in un paio di decine. Un tempo riempivano sale e salette. Ricordo che a Napoli esisteva presso l’editore Guida la “Saletta Rossa” dove passava tutta l’avanguardia napoletana e non solo, riempiendo ogni volta la sala. Bei tempi! Altri tempi! La colpa è anche dell’incunearsi tra i poeti del sentimento di rinuncia, di confrontarsi per timore di essere etichettato come una mosca bianca su un cumulo di merda! Il che, inconsciamente tende alla rinuncia, al mettersi in gioco.

In tutti questi anni, la letteratura ha attraversato momenti complessi e momenti meno complessi, posizioni che spaziano tra un’adorazione del sistema merceologico e una posizione diametralmente opposta, che della prima demarca le caratteristiche unidirezionali dell’establishment, pragmatiche, tautologiche, clientelari e autoreferenziali. E così, da una possibile applicazione al metodo della diversificazione e del movimento, finisce con l’apporre impostazioni e imposizioni statiche e descrittive spingendola (la letteratura) nella caldera dell’inutile dire, concernenti alla strategia del tipo “potrei ma non voglio”.

A dire il vero, manca una opposizione univoca che salvi dalla chiara impronta conservatrice e fascista del linguaggio, dalla spiegazione dei fatti come attività economica, subdola e spettacolosa: difendere i propri interessi è il solo credo che conti nella cultura di oggi, come del resto nella politica di imprenditori e voltagabbana. Insomma, la letteratura sempre e comunque condizionata dall’equazione “prodotto=denaro”. Se si analizza bene questo assunto, essa non può che ricercare le proprie problematiche in aree che, anche se alimentate da qualcosa che sembri diverso, inconcepibile, incomprensibile, come rottura, linguaggio nuovo, sperimentazione, diventano l’espressione di un punto dove dimora la rivalutazione, la verifica delle possibilità.

 

5. Negli ultimi 50-60 anni la letteratura è stata creata su due binari diversi, antitetici, contrapposti. Ed è il caso di ricordar le origini di questa “dispersione”, i poli di esplosione: l’estetica, da una parte (rif. a Le ceneri di Gramsci, di Pier Paolo Pasolini) e l’ideologia (rif. Laborintus di Edoardo Sanguineti). Il primo, verso un effimero rapinoso, un elegismo misticheggiante e redditizio, sia pure sperimentale della realtà; il secondo, verso l’impoetico, il deforme, il demistificatorio, l’antisacrale, il plurilinguismo. Il che comportava sia una sovrapposizione esautorativa della vera funzione poetica (le guerre servono ‒ ammesso che servano ‒ per le spartizioni di territori, per le grandi strategie politiche ed economiche. La letteratura, che è sempre stata il contrario di una distruzione o di un mantenimento, dovrebbe starne fuori) sia una condizione di instabilità che, inconsciamente alimentano un sistema minaccioso e prepotente: la catastrofe.

Questi aspetti divergenti del tortuoso cammino della letteratura, sono scaturiti in primis dal comportamento della società e della politica fagocitanti nei confronti di tutto ciò che appare nuovo, deforme, nel solco dell’assunto “se non posso distruggerti allora ti controllo”, lasciandoti addirittura entrare nelle stanze che contano. Si pensi ai Novissimi, la neoavanguardia degli anni ’60 (Sanguineti, Balestrini, Porta, Giuliani, Pagliarani): una volta che gli consentirono di occupare posti importanti nell’industria culturale, la loro forza dirompente per aprire la strada al nuovo, si arrestò inevitabilmente, andando ad occupare uno spazio, sia pure privilegiato, nei musei e nelle biblioteche, alimentando un sistema produttivo (si fa per dire!) che genera inevitabilmente stereotipi e linguaggi ripetitivi. È da questo punto, da questa insolente pretesa occorre interrogarsi, e una domanda si pone inevitabile: in base a questa invisibile guerra che ha mietuto vittime illustre, la letteratura è fatta per il potere o per altro? E nei Poeti s’incunea l’elemento di incertezza che, non già per il ricorrere sempre più sovente all’auto-pubblicazione (dove le trovi le case editrici che oggi investono sulla poesia?), ma per l’appartenenza sempre più minacciosa e invisibile ad una “poesia di nicchia”, calata nel miele e nell’oblio.

Non vi è dubbio che ultimamente la letteratura è più votata al potere di quanto non lo sia stata in passato. Di conseguenza viene ad essere vistosamente influenzata e non solo nelle scelte di fondo della sua ricerca, ma anche nel metodo o nei metodi, nelle intuizioni operative. Se la logica indica nel concetto di amplificazione, quel recepire e crescente potenziamento delle masse, il nuovo ‒ quindi ‒ non può essere escluso da questa prerogativa ma esserne il fulcro del modello di un attributo innovativo, e la letteratura “istituzionale”, non può che tenerne conto di questo bisogno di mutamento. Se si ampliano gli spazi interregionali per adeguarvi le nuove ondate di crescita, non vedo perché da questa esigenza la letteratura debba restare fuori.

In termini sia pratici che teorici, l’odierna fase post-postmoderna ha gettato le basi per un duraturo mantenimento del potere e delle strategie passatiste e ipnotiche che hanno scalzato dal campo socio-culturale la contrapposizione, il pensiero contraddittorio, in un gioco dove le cose che non si conoscono vengono fatte passare per cose che si conoscono, avvolte di arroganza e di imposizione. Insomma, stiamo divorando il futuro prima che sorga. Ovviamente, la non-conoscenza è alla base di questa fase caotica della letteratura. Personaggi del jet-set che si fanno scrivere libri sulla loro vita che saranno poi pretesti per organizzare talk-show dove quando va bene si arriva alla rissa verbale, a chi alza di più la voce, ovviamente solo per far spettacolo. Un volume per far spettacolo. Lo scopo e quello di inocularci il fatto che la letteratura (non esaurita affatto) non apre mondi nuovi, non è disponibile a tutto ciò che emozioni, ma è un trampolino di lancio verso il divismo, un automatismo di pensare che affossi il linguaggio per innalzare il miraggio di un sogno nel sogno, di un infinito nell’infinito, dove ci attende non già il divismo o affini ma il vuoto dell’essere.


 

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Una risposta a “GIORGIO MOIO, Dove si nascondono i poeti?”

  1. I poeti veri non si nascondono mai… non hanno paura di se stessi e osservano dentro di se come all’esterno di se secondo il periodo della vita e lo stato di salute personale. Scriviono quello che pansano con intensità e secondo ciò che contrasta la vita e l’espressione della vita e della bellezza in amore per la vita e per tutto ciò che è riguardante il futuro del presente della vita.

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