GIORGIO MOIO, «Altri Termini»: complessità e mutamento

Dopo il ’68 le riviste letterarie subiscono un netto ridimensionamento, una riduzione di attività accentuata dalla cessazione di «Quindici», fondata e diretta da Alfredo Giuliani e successivamente da Nanni Balestrini, uno dei più importanti periodici nell’ambito della ricerca e dell’impegno culturale, nemico del provincialismo, dell’establishment culturale, delle arretratezze del mondo accademico e del riaffermarsi dell’éngagément, ossia del fare politico fuso con quello poetico, che resta il motivo principale della sua scomparsa.

In una «incertezza di poetiche e di elaborazione» (1), l’invenzione “di un altro spazio poetico” ritrova una sua dimensione con «Altri Termini», rivista quadrimestrale di quaderni internazionali di letteratura (come cita il sottotitolo) fondata e diretta, a partire dal 1972, da Franco Cavallo, con il contributo di Felice Piemontese. Al pari di «Tam Tam» (rivista anch’essa nata nel ’72, fondata e diretta da Adriano Spatola e Giulia Niccolai), si riappropria – è il caso di dire – esclusivamente del “fare poetico”, attaccando la restaurazione e la “morte dell’arte”, ridando «più spazio (o, se vogliamo, più “verità”) a una storia della poesia fatta dalla poesia stessa, in una sua autonoma elaborazione di dati e di notizie» (2).

«Altri Termini» interviene «dove più bassa è la tensione, proponendo discussioni di carattere teorico sulle poetiche e sul fare poesia» (3), su un modo «veramente nuovo di concepire il lavoro letterario» (4).

E dimostra un bel coraggio andando controcorrente, in un periodo di abbandono delle ideologie, in quanto «[i]deologie e progetti letterari oggi è difficile metterne in piedi. Bisognerebbe credere nelle storie letterarie, nelle posizioni di punta o nelle battaglie delle idee» (5).

Sin dai primi fascicoli la rivista di Cavallo riscopre nelle avanguardie storiche, e in modo particolare nel surrealismo, nella sua più vitale lezione, le istanze per una letteratura di ricerca, un’utopia del “nuovo”. Si tratta di un carrefour dove coesistono diverse esperienze sperimentali, con diversi denominatori culturali ed estetici (6).

«Altri Termini», dunque, a sentire i critici addentrati, trova subito la collocazione giusta, ponendosi in contrasto con la disoccupazione mentale e il “fuori” di «Continuum»: si svela e si denuncia, nel discorso del quotidiano, la condizione disperata di una scrittura bisognosa di apporto critico e penetrante, di un fare poetico «che presupp[onga] una materialità della scrittura» (7).

Ma ben presto l’aria che si respira è poco ossigenata, l’inquinamento lassativo e arrivista sembra inquinare un po’ tutti all’interno della rivista. I “distacchi culturali”, ossia le “incomprensioni” tra alcuni sodali incominciano sin dagli esordi.

È il momento di marcare definitivamente la linea di condotta, di votarsi ad una nuova richiesta di poesia da ascriversi in un’autonomia di pensiero come nodo centrale che tenga fuori campo la contaminazione del “politico”, del mercato più vieto, sia pure prendendo atto della loro forza prorompente, contravvenendo a quanto stava accadendo, ossia a quella letteratura di consumo – nonché all’idea accademica dell’arte in genere – che sarà sempre attaccata dalla rivista.

In particolare, «Altri Termini» punta alla «elaborazione di uno spazio possibilmente alternativo rispetto a quello esistente» (8), attaccando coloro che fanno uso di una prosa da burocrati della repressione. Non si vuole più cedere «alla facile tentazione di un settarismo di maniera che, con il falso obiettivo della distruzione del museo e dell’accademia, in realtà mira proprio a questo: al museo e all’accademia» (9); né a una falsa concezione del “nuovo”, simpatizzando coi grandi “messaggi” del Novecento, ma permettendo anche, con La regressione estetica (10) di Antonio Testa, l’erosione di essi, compreso quel surrealismo che nutre, in qualche maniera, il nucleo centrale del discorso letterario della rivista di Cavallo.

Idee contrapposte si scontrano e feriscono a morte la rivista. Anche la diversa origine poetica dei vari Franco Beltrametti:

Se le albe hanno dita
E le dita hanno tamburi
I tamburi hanno sogni
E i sogni hanno quasi ogni
Cosa…
[…]
(da Se le albe hanno dita (2), in Aa. Vv., Zero. Testi e anti-testi di poesia, a c. di F. Cavallo, Altri Termini, 1975, p. 10);

 

Franco Cordelli:

eppure i fatti più importanti dei pensieri: ormai in preda
al panico al terrore: fare o non fare, compilare
o cancellare, il labirinto delle giustificazioni che si proceda
al suono o al silenzio: «ragioni abbondanti come le more»
[…]
(da I nomi i luoghi il tempo (6), in «Altri Termini», n. 7, Napoli, febbraio 1975, p. 79);

 

Cesare Viviani:

ostrabilia ventato s’è animato, in diretta tutù
l’è geminato, pòccia alle parve doglie dello sfratto
aliquò s’è affidato, a chi nicola, è fato!
Orunque ricomposto un annodo gentile al filone
rubizzo da tuttùno
[…]
(da Isotàta assunto (1), in Zero. Testi e…, op. cit., p. 64);

 

decisamente diversa rispetto alla proposta lirico-classicheggiante dell’“onniscente” e “altruista” Giuseppe Conte:

[…]
… scelgo
parole per essere il dio del sole –
io fiore, io pietra, io luce, per donare
il dono leggero e immenso del
poema
(da La conquista del Messico, in Aa. Vv., La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-1978, antol. a c. di Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 45);

 

provoca un’insanabile rottura all’interno della rivista inducendola a sospendere le pubblicazioni.
Secondo il pensiero del Conte, «isolato da una parte l’epigonismo neo-avanguardistico, dall’altro il ritorno di diverse forme di realismo e impegno, di un uso strumentale del linguaggio, non resta che cercare una terza via (terza rispetto ai due fronti contrapposti e irresuscitabili, degli anni Settanta), autonoma ed eccessiva» (11), una condizione di solitudine che rimetta «in gioco l’esistenza non tanto nel riproporre una poesia “esistenziale” quanto nel rivendicare il “vissuto” e il “vivente” nel movimento del linguaggio» (12).

La soluzione che ci presenta Giuseppe Conte in Letteratura, l’utopia e l’impossibile (13) – soluzione che rinnegherà dopo l’allontanamento da «Altri Termini», per aprirsi ad un nauseante lirismo evanescente e di maniera –, sta tutta in una proposta di “poesia del vissuto”, affascinata dal ricordo dell’infanzia, da rigurgidi fanciullini pascoliani e da scampoli di crocianesimo ancora in fieri. Ed è una soluzione che viaggia per conto proprio, che si mantiene palesemente in un ambito inesistente della rivista («per rimettere in gioco rischiosamente il fare poetico è necessario forse tornare alle sue prime ragioni, prelinguistiche e presemiotiche» (14), avviare «un nuovo processo di rimetaforizzazione eretica» (15), un’utopia regressiva), mentre Franco Cavallo non riesce proprio a digerire lo scontro frontale che nel frattempo si è venuto a creare tra la linea spiritualistica di Conte e quella materialistico-sociologica di Roberto Esposito.

Intanto il linguaggio di «Altri Termini», nonostante qualche polemica interna (ci riferiamo a quella appunto tra Roberto Esposito, che dal n. 3 inaugura una serie di interventi sulla neoavanguardia e sui suoi reietti valori ideologici, e Giuseppe Conte (Èpater l’artist…) (16), al quale s’allinea un inferocito Giorgio Barberi Squarotti (17) che a sua volta si scaglia contro il povero Esposito, reo di aver attaccato Luciano Anceschi, accusandolo di essere il promotore di una poetica manageriale e di mercato), si è nel contempo delineato. Questa specie di “riesumazione” da parte dell’Esposito scatena, inaspettatamente, delle reazioni a catena. È l’attacco ad Anceschi e a «Il Verri» che non è tollerato, non già la provocazione di un materialismo e/o di una letteratura politico-sociologica con palesi intenzioni d’impadronirsi del mercato. In fin dei conti, se proprio non si voglia prenderli a modello del nostro ultimo periodo letterario – intona il coro avverso alla provocazione espositiana –, Anceschi e «Il Verri» – sia pure coi loro difetti –, avendo dato tanto in sostanza alla cultura italiana, andavano almeno rispettati e non trattati come elementi del malaffare. «Conte è pungente nel suo j’accuse e Barberi Squarotti sembra stare dalla parte di Conte, eppure allo stesso Conte egli intima l’altolà […] [,] scorgerà troppa indulgenza verso il feticcio della desublimazione, verso la moda di una psicoanalisi attratta monomaniacalmente dalla deiezione» (18).

Le “incomprensioni” si fanno sempre più serrate e non promettono nulla di buono. In cinque anni di pubblicazioni (1972-77) producono due serie, comprese in 13 fascicoli; comunque, coscienza e rispetto del proprio essere del mondo convergono verso una fuga in avanti – come vedremo nelle prossime tre puntate –, di barthesiana memoria, un articolarsi di forme mobili e un’alterità che smascherano false promesse per una “pratica” disposta al rinnovo continuo. Che è poi il linguaggio del suo fondatore e principale animatore. Infatti i testi poetici di Franco Cavallo (19) suscitano sempre un’emozione nuova, sia quando sono ancorati da una rivisitazione e reinvenzione della “tradizione del nuovo” alle linee principali dell’avanguardia storica francese, sia quando il fare poetico si fa meno serioso, popolare – come ebbe a dire Sebastiano Vassalli –, fatto di filastrocche, di favole, di litanìe,

Épaves

farsi saggio
farsi luce
farsi niente

farsi arco che si tende

ferita che si apre
veleno che sgorga
sangue che si purifica
[…]
Penelope telapallida
che si dà al primo Procio
al primo frocio
per evitare l’atrocità della vendetta
(da I nove sensi, op. cit., p. 101),

di tavole sinottiche, di falsi proverbi, ma sempre – come si dice – “coi piedi per terra”. Corrodono la raréfaction del tempo e la materia verbale in superficie in un gioco d’intelligenza per meglio evidenziare una dinamica condizione del mondo. Ma il gioco è solo apparente, sotto si cela il dramma della stessa poesia che crede, col gioco e l’irrisione, di sfuggire al proprio fallimento ma che inevitabilmente da esso verrà annientata: la materia verbale, ironica e irriverente, riesce ad apparire nel suo “reale” apparire, in tutto il suo dramma.

Con un rasente stravolgimento, astutamente architettato e con la consapevolezza che la poesia alla fin fine è un discorso serio, di quelle effusioni e liricità, tende a distruggere la concezione auratica della creatività. Questo da sempre, sin dall’uscita della sua prima importante opera (Fétiche), anche quando crea testi visuali, un altro aspetto del dinamismo di Cavallo: attaccando il facile fruire, le mode effimere, dilaga in cancellazioni, deformazioni, calembours, divertissements

(«scorre un Lete
sul mio lato
solo un loto
fa un invito»)
(Ovuli, da Haeretica poesis, op. cit., p. 20),

ironie e parodie, fino alla creazione di un gioco di fonemi anagrammati, sofferenti e al contempo pieni di confortante alterità che sfugge alla pigrizia del senso comune:

Poesie anagrammate (1)

la leta ragna
regno del ragno
sì che fa il bagno
dentro lo stagno

la lope nepe
non mi fa nepa
si drempe il pene
le che fa bene
(in «Altri Termini», n. 2, IV serie, Napoli, aprile 1991, p. 39).

__________________________
(1) Matteo D’Ambrosio, La ricerca letteraria a Napoli. Studi e interventi (1977-1987), Dick Peerson, Napoli, 1987, p. 78.
(2) Adriano Spatola, introd. a La ricerca della poesia. Poeti italiani degli ultimi anni, a c. dello stesso, in «La Battana», s.q.i., p. 37. «A quel vuoto […] a quella crisi viene data una risposta molto contraddittoria. Non c’è dubbio, comunque, che il quadro delle riviste interessate ai problemi della letteratura si rimetta in movimento, dando vita a una situazione profondamente modificata rispetto alla fase sessantottesca» (Gian Carlo Ferretti, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino, 1979, p. 148).
(3) M. D’Ambrosio, op. cit., pp. 82-83.
(4) Franco Cavallo, Applicando il concetto di violenza, in «Altri Termini», n. 3, Napoli, maggio 1973, p. 5.
(5) Alfonso Berardinelli, Effetti di deriva, introd. a Il pubblico della poesia, a c. dello stesso e di Franco Cordelli, Lerici, Cosenza, 1975, p. 9.
(6) Cfr. F. Cavallo, Complessità e mutamento, in «AltriTermini», nn. 6-7-8, III serie, Napoli, settembre 1987, p. 6.
(7) Mario Lunetta, Introd. a Poesia italiana oggi, a c. dello stesso, Newton Compton, Roma, 1981, p. 10.
(8) F. Cavallo, Spazio, in «Altri Termini», n. 1, Napoli, maggio 1972, p. 11.
(9) Ibidem.
(10) In «Altri Termini», ibidem, pp. 13-33. L’apporto filosofico di Testa, con la tesi dell’irrazionale che scaturisce, demistificando la pubblicità, ma soprattutto polemizzando con il “Gruppo 70”, ovverosia con la loro «monotonia del confezionamento facile del collage, coltivato da epigonismi che si adagiano nella formula del maestro, caricandola inutilmente con enfasi barocca» (ibidem, pp. 19-20), propone una scrittura, sì con immagini, avvalorata però da «una cultura pluridirezionale e funzionale per nascondere, nella sperimentazione, il ripiegamento sul solito gioco dell’alienazione fantastica» (ibidem, p. 20).
(11) Da Atti del convegno 1968-1978. Riviste culturali e letteratura, in «Tabula», n. 1, Milano, 1979, p. 44.
(12) Ivi, p. 41.
(13) In «Altri Termini», n. 3, cit., p. 13 sgg.
(14) Giuseppe Conte, La poesia del grado zero al regime estremo del desiderio (proposta per una poesia non bianca), in «Altri Termini», n. 9-10, Napoli, febbraio 1976, p. 59.
(15) M. D’Ambrosio, op. cit. (in nota 92), p. 96.
(16) In «Altri Termini, n. 4-5, Napoli, gennaio 1974, pp. 3-18.
(17) Critica come delazione?, ivi, pp. 23-30.
(18) Marcello Carlino, I dieci anni di «Altri Termini» ovvero della contraddizione, in L’affermazione negata. Antologia di «Altri Termini», a c. di M. D’Ambrosio, Guida, ed., Napoli, 1984, p. 75.
(19) È nato a Marano (NA) il 3 gennaio 1929 ed è morto nel 2005. Dopo aver vissuto per circa un quindicennio a Roma, esercitando la professione di giornalista e lavorando per la televisione, si stabilisce a Cuma (NA). Ha pubblicato, di poesia: Paesaggio flegreo (Rebellato, Padova, 1957); Reliquia marina e altri versi (id., 1959); Eremo delle carceri (L’Arco, Macerata, 1968); Fétiche (Guanda, Parma, 1969); I nove sensi (id., 1971); Veroniche. Le sedie dell’isterismo, in collaborazione col pittore M. Persico (Il Centro, Napoli, 1972); Rien ne va plus (Ed. Altri Termini, 1974); Flusso (id., 1976); Frammentazioni (id., 1979); Ziggurat (id.); L’alfabeto dei numeri (id., 1981); Falkland & Maldive (Fétiche edition, Bergamo, 1983); L’anno del capricorno (Rossi & Spera, Roma, 1985); La nascita del Principe, con disegni di W. Xerra (Edizione del Vicolo del Pavone, Piacenza, 1988); Haeretica poesis (Edizioni Ripostes, Salerno-Roma, 1989); Á rebours (Il Ventaglio, Roma, 1990); Frammenti dell’horror vacui (Ed. Altri Termini, 1995); di prosa: Festival (Shakespeare & C., Napoli, 1982); La forma buia del vento (Ed. Altri Termini, 1983) e Le memorie del professor Zarathustra (id., 1987). Inoltre, studioso di letteratura francese, ha tradotto per Guanda Gli amori gialli di T. Corbière (1965); La maggior parte del tempo di P. Reverdy (1966); Il laboratorio centrale di M. Jacob (1969); Il passeggero del transatlantico di B. Péret (1972); ha organizzato incontri culturali e curato le antologie Zero. Testi e anti-testi… (op. cit.); Uno. Testi e anti-testi di poesia (Ed. Altri Termini, 1978); Coscienza & Evanescenza. Antologia dei poeti degli anni Ottanta (S.E.N., Napoli, 1986) e con M. Lunetta Poesia italiana della contraddizione. L’avanguardia dei nostri anni (Newton Compton, Roma, 1989).


 

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