GIANLUCA GARRAPA, Oltre lo specchio

1 – oltre il muro di cinta aguzzo in cima di sprechi di cielo, capovolto desiderio di nebbia che scivola insinuante tra le fessure inconcludenti della coscienza che non sa mai dove finisca lo sguardo e l’oggetto che preme sui sensi avvolgendo odoroso di pregnante fragranza di tiglio all’inizio d’estate la percezione del limite tra dentro e fuori, esiste ancora questo scheletro d’albero di fico parsimonioso ormai di rami e foglie, che violentemente tenace rimanda, a maggior ragione e per un motivo geometrico di contrappasso inconscio, a un confuso e ubertoso periodo della mia esistenza, denso e succoso come la polpa dei suoi frutti gloriosi di insetti e di odori e di foglie vaste di sensuale primigenia innocenza. tronco che magicamente enuclea in breve il senso della vita. spoilerando il finale con sottili riferimenti arguti. confondendo memoria e presente come farebbe un abbacinante senso di futuro in fondo alla provinciale che porta al paese vicino, allucinando la strada con un lieve tocco di intorpidimento ottico, nell’afa delle estati di fata morgana, quando l’asfalto galleggia e la malinconia illanguidisce in un oppiaceo candore di arrendevole scivolamento nella vita nascosta, che nulla più chiede e tutto, a tutto dandosi, dona.

 

2 – dal ciglio del muro, che ha qualcosa di toponomastico e di provinciale, ondeggiava precisa e tentacolare una folta edera comune che il ricordo e il ripasso – attualmente la fortificazione verde, rampicante incurante del gelo e ghiotto pasto degli uccelli, è secca, smarrita, ha ceduto al muro inorganico, si è ritirata nella sua naturale vecchiaia e morte –  rende poco comune e anzi, a cascata, l’immagine impressa nella mia mente di api nella calda stagione dei lidi, l’odore nel settembre quando il cantilenante e inquieto pomeriggio di agosto deponeva le sue fumiganti torride armi e finalmente la nudità semiproibita tornava al vizioso letargo dei pensieri ipocriti e sconci, italici, religiosi, brutalmente repressivi e clericali, quell’immagine di rampicante forte e tenace, rigogliosa come un cielo ovattato di nuvole tante e assalite dal sole, ha smesso di ossessionare i miei incubi: incurante di ogni limite, di ogni cosa che debba per forza essere radicale e tenace, improbabile è ormai lasciarmi andare al parlottio che mi addosso, egocentrico e sterile. il margine e il limite. da cui rinasce l’oltre, quel non familiare che internamente, questo sì, s’inabissa all’esterno, estroflettendosi nell’interiore colonizzato dal plagio del discorso familiare, paesano, nazional-popolare, come se l’origine fosse soltanto il fine e la finalità degli atti solo la riproduzione della copia: copulare e trasformare la propria individualità in una coppia e in una prole frattalica, autosomigliante al modello d’origine. amerei una famiglia allargatissima, una comune, che all’idea di una unica religione anteporrebbe nulla, nemmeno l’ateismo, questa forma isterica di innalzare dio a oggetto da elidere e che nell’assentarlo continuamente lo glorifica più sinceramente di ogni credo teistico; più religioni, più scontri dialoganti di idee, semmai, e l’unica politica: la cura etica dell’altro: l’idea, più che l’ideologia. non contemplo gerarchie. ruoli. nomi. soprattutto il cognome, l’appartenenza al clan. mi sgomenta la pratica ancestrale del vidimare un corpo col nome, col segno del suo orientamento sessuale e, orrore degli orrori, e supremo atto di abuso psicologico e fisico e sessuale, il battesimo, contro la volontà, di un neonato che da quel momento in poi, imparerà l’imposizione e la prepotenza degli atti. ma niente attecchisce,  e menu male, ave l’eccezione, o meglio, non tutto attecchisce. e spuntano allodole dove le rose vorrebbero spine, alberi di arcobaleno e zucchero negli anfratti cespugliosi di un cimitero abusivo di auto, un grosso pensiero laddove la noia tradizionalista e violenta gradirebbe un silenzio omertoso, una spiaggia fatta di cristalli liquidi su una scogliera deturpata dal suono schifoso di una discoteca, innevata di coca, mafia, e buoni propositi. quel che qui non attecchisce muore, o germoglia, altrove, in programmi che sfidano il tempo feroce e la violenza di questa nazione abbrutita. senza senso, col consenso taciuto di chi si volta sempre dall’altra parte.


Biografia di Gianluca Garrapa


 

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