FRANCESCO MUZZIOLI, Cacciatore: la produttività della poesia*


La figura di Edoardo Cacciatore come scandalo letterario del Novecento: un autore certamente enorme è stato cancellato, in pratica, dalle principali antologie e storie letterarie, con scarse eccezioni, e ancora oggi candidamente ignorato.

Questo discorso lo abbiamo già fatto e ripetuto inutilmente: forse per il semplice motivo che i lettori di Cacciatore devono ancora nascere. Ed è stata già detta e ripetuta anche una ragione, forse non la sola, ma indubbia: la rimozione è dovuta al fatto che quella di Cacciatore è una poesia con scarsissimi paragoni all’interno della tradizione lirica italiana, quindi con pochi appigli per i nostri poveri critici, tanto impregnati di intuizionismo sentimentale non solo nel ramo egemonico del crocianesimo, che pare rinverdire a ogni passaggio di stagione, ma anche nei rami che avrebbero dovuto essere materialistici e nei quali, malgrado tutto, in un modo o nell’altro, in misura maggiore o minore, l’armamentario sociologico ha finito per girare attorno a un nucleo estetico mai davvero aggredito e spogliato di sacralità. Per giunta la cacciatoriana poesia-pensiero è aspra e difficile, da mettere a dura prova gli interpreti sbrigativi e superficiali. Niente da fare, dunque, per un autore che, da un lato, è apparso troppo discorsivo e ragionante, dall’altro, troppo oscuro e complicato. Ed è evidente che oggi, con questi chiari di luna della comunicazione fluida e spontanea, le cose sono cambiate, sì, ma in peggio: non c’è più neanche bisogno di censura; anche rimesso in libreria, come è avvenuto di recente per l’opera benemerita dell’editore Manni, Cacciatore resterà nel suo angolo, tanto è ormai immediato, quasi un riflesso condizionato, il rifiuto delle scritture complesse, quelle che costano fatica. E la poesia di Cacciatore, anche quando è breve, come nei sonetti, di sudore interpretativo ne esige sempre tantissimo e copioso.

Diciamo che Cacciatore è stato un autore esagerato, e innanzitutto eccessivo per la perizia poietica. La sua bravura nel costruire versi è indiscutibile. Il suo apporto alla metrica italiana (anche su questo versante i manuali “ufficiali” latitano…) è di vastissima portata, sia per le misure recuperate e rimesse in vita, sia per quelle sperimentate di bel nuovo come il tridecasillabo, verso apertamente dissonante, eccedente la lunghezza canonica del numero undici e, al contempo, mai realizzato con accenti e cesure stabili (7+6 o 6+7 sono solo tra le possibilità).

Sia, ancora, per le conformazioni strofiche che pullulano di soluzioni e di forme intricate, non riducibili al solo sonetto elisabettiano, che pure ha costituito una importante cifra di Cacciatore e una “mossa del cavallo” nei confronti della tradizione indigena. Un capitolo senz’altro ragguardevole del “fare” cacciatori ano è quello della rima. Anche questo è un fenomeno che si potrebbe studiare da diverse prospettive: dagli accoppiamenti, che non sono mai facili, ma coinvolgono di preferenza vocaboli provenienti da diverse categorie grammaticali; alle sonorità utilizzate; al tipo di organizzazione che si produce con la loro distribuzione. Da questo ultimo punto di vista, in attesa di più scrupolosi rilevamenti, segnalo il fatto che il gioco delle rime non si accontenta di soluzioni facili. Cacciatore varia spesso gli schemi. C’è la rima più evidente possibile, che è quella baciata e con esiti di sentenze straordinarie. Ma è anche sperimentata una circolarità particolare in cui le rime, ad esempio, si ripetono in ordine inverso e quindi la prima ritorna solo dopo una certa distanza. Si tratta di una strofa di undici versi con rime ABCDxDCBA, dove x è un verso non rimato che fa da perno e da cui poi riparte la prima rima della strofa successiva; viene provato ne Lo specchio e la trottola, ma verrà ripreso ancora all’altezza di Ma chi è qui il responsabile? (lo incontreremo di nuovo). L’effetto è questo:

 

Sasso di tombe i corpi e i sessi a dire vita

Spogli innanzi al mare non soffrono alla vista

Parla lui solo in frotta ma sentirlo infido

Chi può più del silenzio nudità ha assoluta

Steso a pari – e l’estate è il nodo supremo.

Sveglia fra tanta enfasi avanzo che si scruta

In un credo di sonno dove anch’io coincido

Per un istante e subito ecco antagonista

La sorpresa mi desta un tocco ha senza dita 1.

 

(Dove la rima successiva è “crisantemo”).

 

La rima è, allora, “nascosta”, non risalta a tutta prima. Avviene così anche in quell’altro ritrovato che è il ricorso alla rima al mezzo, che Cacciatore sfrutta facendo rimare il verso con l’emistichio successivo. È la metrica degli Improperi:

 

Immune fruga in fretta arraffa

Splendido cromo e un lampo è ruga

Cupido riso a dire uomo

Cronica faccia itto preciso

Cosa ha in corteo e chi t’impaccia

Pugno è chiuso già ipogeo (…) 2

 

Letti come doppi quinari, più che come novenari (facendo uso di dialefe), i versi sono legati dalla rima tra l’emistichio e la fine verso successiva (aX-bA-cB-dC-eD, e così via).

Una soluzione originale sarà quella della sostituzione delle rime con le assonanze, anche qui in un verso spezzato in due parti (è la metrica di La cosa nuda e cruda: «Nòcciolo della voglia / sbucciato puntiglio / Mille accumuli fosti / sei ecco il lesto / Cavatappi nel sughero / a rotolo il sigaro»… 3).

Un caso davvero curioso, infine, è quello di Excessus, ne La restituzione. A prima vista diremmo di avere trovato, finalmente, un testo privo di rime (ce n’è qualcuno, ma non molti, nel complesso dell’opera):

 

Chiudi le palpebre dico è per uscire

Le vertebre volgi non è sonno di morte

Territorio antico porte senza infissi

Segni prolissi ignudi muri di avorio.

Un ardire è in tutti improvvisamente degni

Caduchi i lutti nella mente rimane

La fantasia ad essenza delle imprese

Strane e la natura subito ha nostalgia 4.

 

Ad uno sguardo attento ci si accorge però di essere in presenza di una macchina diabolica. Se in fine di verso non appaiono ripetizioni, accade tuttavia che praticamente tutti gli elementi del testo siano implicati in qualche parentela.

Per limitarci ai termini finali: “uscire” (v. 1) fa rima con “ardire” (inizio v. 5); “morte” (v. 2) con “porte” (centro v. 3); “infissi” (v. 3) con “prolissi” (inizio v. 4); “avorio” (v. 4) con “territorio” (inizio v. 3); “degni” (v. 5) con “segni” (inizio v. 4); “rimane” (v. 6) con “strane” (inizio v. 8); “imprese” (v. 7) con “chiese” (inizio v. 9, non compreso nella citazione); “nostalgia” (v. 8) con “fantasia” (inizio v. 7).

Se si aggiungono le rime interne “palpebre-vertebre” (vv. 1-2); “dico-antico” (vv. 1-3); “chiudi-ignudi” (vv. 1-4); “senza-essenza” (vv. 3-7); “tutti-lutti” e “improvvisamente-mente” (vv. 5-6), scopriamo che questo testo in apparenza sciolto è in realtà avvolto in una ragnatela pressoché totale di uguali terminazioni.

Dopo un simile tour de force, potremmo dire di avere terminato la ricerca dentro la “produttività detta testo” di Cacciatore, riscontrandola precisamente nella matrice formale che si moltiplica in mille guise, fino a gonfiarsi – opera dopo opera – nel “volumone” edito da Manni. La produttività come apparato tecnico. Questo però non può bastare. Non possiamo restare a una mera quantizzazione del prodotto. Ne c’è mai, nel nostro autore, alcuna scelta meramente formale; anzi le forme non hanno per niente l’aria di essere poste a-priori da uno sperimentalismo preconcetto (e infatti vedi la polemica contro lo sperimentalismo cosiddetto e la differenza dal “primato della struttura” di marca “novissima”). C’è sempre una sorta di connessione concettuale tra significanti e significati. Sicché l’assunzione di forme metriche ha da intendersi, in primo luogo, certo, come reazione all’acquisizione ormai scontata del verso libero nel senso comune poetico che ne fa indicazione prevedibile e scarsamente perspicua; ma in secondo luogo, poi, dentro la regolarità che si compone con la ricorrenza del numero sillabico e con lo schema delle rime, comunque giocato esso sia, si annida una tensione. Anzi la tensione si rafforza ancora di più per essere costretta dentro una griglia e molta dell’oscurità di Cacciatore deriva dalla strettoia dello stampo in cui si deve calare la materia poetica.

Ma la tensione è sintomo di un testo che non rimane soddisfatto nel nitore della perizia pragmatica della propria fattura (come neoclassicismo vorrebbe). La poesia-pensiero non se ne sta in panciolle nelle sue “distanti stanze”, né il “discorso a meraviglia” si appaga dell’abilità che dimostra, senza provvedere ruvide scosse e “urti” reali. Questo è chiaro, nella poesia come nelle grandi prose teoriche di Cacciatore, da L’identificazione intera a Itto itto. Non si può non risentire della realtà, sia come divenire («Sapevo poi il fascino, interno alla realtà, la sua attrazione e il suo grave pericolo, vale a dire il suo alterarsi inevitabile: in cui anche le clausole personali, di continuo vengono debitamente o indebitamente alterate» 5), sia come incontro-scontro con l’«esterno», che rappresenta insieme la sofferenza del trauma e la gioiosa realizzazione di una sortita dai limiti rigidamente imposti. Sull’«esterno» concordano l’incalzante ritornello di Andatura, nonché il pensiero immaginoso di Itto itto. Che è il seguente:

 

Prepotente impatto d’attualità, scuotitoia fino allo sfacelo (…) ecco sopravviene sempre addosso l’andatura energica dell’Esterno. (…) Anche allora, – quando a noialtri, caparbiamente intestàntici, con grettezza pusilla nella sorticina nostra, (…) – anche allora avvertiamo, con allarmante apprensione, che l’Esterno nemmeno per sogno accenna ad un regresso: ci opprime destissimo anzi. (…) Ma persino, senza vicinati di sorta, ci raggiunge lo stesso, l’Esterno. E ci tocca in ogni anfratto. E tratto tratto si applica insitivo. (…) Ma è proprio allora che l’Esterno a precipizio nella sua istantaneità (…) ci riscuote per esercitare su noi la coercizione massima (…). Per regalia dell’Esterno (…) si proviene ad avere una dislocatività prima impensabile. (…) l’Esterno si è già scrollato di dosso l’antiquatissimo e lussatissimo Essere, che affardellato vi soleva soggiornare e pernottare (…) l’inveterato Essere stantio, stazionario (…). L’Essere costante d’una volta, una buona volta in un istante solo ha lasciato la sua trascuratezza che un attimo dopo già sentiva di muffa e di abbandono caduto in desuetudine, per lasciar il destro efficiente, – e gli inevitabili sinistri di effetto pronto, – all’Energia transitante battito battito 6.

 

Ma qui si apre un punto nodale che riguarda la “valenza critica” del testo cacciatoriano. Nella poetica dell’alterazione come è collocabile una “valenza critica”? Dove può ingranarsi il rifiuto negativo dell’esistente e la stessa autonegazione poetica (quel segare il ramo su cui si sta seduti di cui parlava Brecht)? La posizione di Cacciatore non sembra prevedere uno sforzo o una volontà antagonista in tal senso. Semmai, la poetica dell’alterazione si scopre naturalmente antagonista. O, per meglio dire, come abbiamo sentito dal brano di Itto itto sopra citato, la critica non è coscienza raggiunta da cui promani la prassi, quanto piuttosto un effetto a posteriori, visibile in certo senso guardandosi indietro dopo che la prassi ha compiuto il suo effettivo percorso. La questione, infatti, in Cacciatore, è come stare al passo della trasformazione e dello slancio dell’energia, di quell’«acquazzone» o «nubifragio», come egli dice traducendo nei propri termini l’antico clinamen; la realtà è sempre diveniente, anzi, cacciatorianamente parlando, la realtà non è altro che un “cascame” dell’energia; si tratta allora di assecondare, di corrispondere all’alterazione (da questo punto di vista tutta la gamma delle soluzioni formali sopra considerate assume una particolare coloritura); non c’è quindi critica negativa, in senso stretto, quanto semmai o una vana difesa, da parte delle concrezioni della realtà, all’inevitabilità dell’alterazione o, viceversa, un lasciarsi dinamizzare da essa. Solo in questo senso, in quanto collabora a disincagliare le resistenze del senso comune, la poesia contiene un indice relativamente critico. Ma la tonalità prevalente del testo di Cacciatore, non c’è dubbio, non è il sarcasmo; è piuttosto l’entusiasmo vitale e l’apertura di attività. Lo si vede nel Carme momentaneo (pezzo forte de La restituzione e rovesciamento della “grande opera” oraziana), dove il fascismo appena deposto è scomparso sostanzialmente dall’orizzonte; della guerra non restano che accenni e vaghe tracce («Non suona nemmeno la sirena d’allarme», e «Atteso attimo di cessato pericolo»), e tutto appare travolto nell’euforia collettiva e nella confusione dei ruoli e dei ceti («La città non bada a spese è solo dispendio / Ubriachi e sobri in un solo compendio», e «Il poliziotto sottobraccio al cascherino / Cessa la sua funzione è uomo tal e quale» 7).

Nello stesso tempo, è chiaro che l’identificazione intera ricercata da Cacciatore, e la sua idea di restituzione non possono non avere sempre e comunque un risvolto sociale. I luoghi della poesia acquistano una prospettiva storica e dialettica, fuori da qualsivoglia venerazione d’archetipo: «dove fu un fatto d’armi ora è alta quiete / dove uno stupro bambine giocano liete» 8; e lo mostra lo straordinario componimento su Campo de’ fiori, tutto giocato sul riaffiorare, sotto gli odori del mercato ittico attuale, della puzza di «bruciato» del rogo di Giordano Bruno, che riaffiora dalla profondità della memoria storica, nonostante la volontà di cancellazione rappresentata dal quotidiano lavaggio del selciato della piazza («Il sangue si lava affermano i benpensanti // Il sangue si lava chi se ne rammenta») 9.

Vi è sempre una questione della moltitudine, tanto che la raccolta Lo specchio e la trottola si apre con un sonetto dedicato a La piazza:

 

Non più distanti senti ed estranei dentro

(…)

L’udito amoroso che nella piazza ha il centro

(…)

Non di alberi la Piazza ci parla e di foglie

Brusìo è unanime e per sempre in sé ci accoglie 10.

 

E poiché all’alterazione non può opporsi nemmeno la barriera dell’identità individuale, così l’“io sono” si smembra e si moltiplica. l’io «è fatto da tanti», è un composto provvisorio e assolutamente multiplo. Ancora nella summa de La puntura dell’assillo, l’ultima e sintetica “corona di sonetti” di Cacciatore, l’immagine della folla è, da un lato, il prodotto della vita moderna metropolitana e dello choc dell’indistinguibilità nella massa, dall’altro lato si direbbe che sia anche l’equivalente di una vita interiore parcellizzata, eterogenea e composita:

 

Senz’altro è già tempo di frangersi in folla

Fiumana che rapida prende su quota

(…)

Non va alla deriva volubile è giostra

Scomposti i riflessi si frangono in frange (…) 11

 

A partire da questi punti, ecco che allora è possibile rintracciare un atteggiamento critico tutte le volte in cui il testo si scontra con forme simboliche rassicuranti, certezze dogmatiche, finte ed illusorie sicurezze. Un atteggiamento non preordinato, e tuttavia sempre impellente e potenzialmente attivabile, che conserva malgrado tutto qualcosa del benjaminiano “carattere distruttivo” in quanto vitalmente occupato dalla bisogna di aprire nuove strade e di “fare spazio” a una febbrile forza lavorativa. Il che impedisce, nello stesso tempo, anche le “fissazioni” di valori progressisti troppo consolidati e a loro volta altrettanto fermi e indiscutibili di quelli conservatori. Al contempo non vi è mera condanna (né del giudizio etico, né dell’evoluzione temporale) che non consenta impensati risvolti dialettici.

Vediamo ad esempio il sonetto (questa volta di tradizione italiana) sulla fantasmagoria della moda 12: un tema che comporterebbe facilmente la disapprovazione moralistica per la futilità, la vanità, la mera apparenza, funzionali alla logica mercantile. Ma l’abito, qui, non nasconde, non vela la verità: «Semplicemente è il vero questo e non doppiezza». La “lontananza” delle indossatrici dice esplicitamente il ricostituirsi dell’aura attorno alle merci, che dovrebbero essere cose e nient’altro. Tuttavia la nuova religione laica non vincola i nuovi idoli alla morale, crea una discordanza ideologica; lo dichiara, fulminante, l’inizio; parlano le moderne dee: «Vestali no certo ma ogni veste è tempio». Non c’è più un solo codice, ma si entra in un gioco di piani complessi; una duplicazione, abito-corpo, che è, anzi, una triplicazione: «Gusti altrui il costume il corpo altri goda / Ortodosso lo sguardo che ambedue carezza / Scisma aggiusta ed oscenità che altro è moda». La sfilata non può essere ridotta al mero valore pubblicitario, e neppure a una semplice mostra sessuale; il “costume” e il “corpo” della mannequin sono destinati a consumi differenti e drasticamente separati; quello che congiunge le due realtà brutalmente materialistiche del prodotto in vendita e dell’oggetto erotico è, invece, il tertium assolutamente immateriale del valore simbolico, dell’estetico diffuso. Si scopre un complesso legame, tra il paravento sviante (la moda come abbaglio), e la sublimazione positiva, rispetto alla violenza diretta:

 

Impazienti le mani di stringere ordigni

L’evo ignudo che paura non ha ma scienza

Ci applaude e gli artigli si fanno benigni.

 

Dove, nella stessa mossa, Cacciatore collega la moda e la guerra (le due pratiche complementari del capitalismo, i due estremi del processo continuo di rinnovamento del mercato) 13; sottolinea la carica trasformatrice della moda (indubbiamente un fattore di sblocco dell’inerzia); e però all’istante la demistifica ironicamente (l’ironia prorompeva già nei versi: «Restaura il mistero chi mai ne può far senza»…) come “prosecuzione della guerra con altri mezzi”, per quanto certamente assai più “gentili”.

Soprattutto all’altezza de Lo specchio e la trottola e soprattutto in quei testi quasi-teatrali fitti di personaggi e di interna dialettica di voci, dal titolo Libido dominandi, Cacciatore raggiunge le sue punte più avversative. Con decisa durezza è trattata l’idolatria del denaro, in questi versi a coppia messi in finale di strofa (Il numero chiuso) dove il rimbalzo suona come impietoso “diretto”:

 

Sordo il mostro afoni i giganti i coboldi

Tuttavia ancor oggi il tam-tam sono i soldi

(…)

L’inedia è ormai Ercole in nailon o seta

Tuttavia ancor oggi hai panni se hai moneta

(…)

Disco volante dell’eternità minuzzolo

Tuttavia ancor oggi lustri in tasca è un gruzzolo

(…)

Plenum gremito e il la conforme suona chiaro

Tuttavia ancor oggi l’unanime è il denaro 14

 

L’istanza critica si complica, dunque, e va scavare nella materia della complessità “reale” e nella realtà dell’“irrealtà”. E i nodi vengono al pettine soprattutto nella raccolta più scomoda tra tutte, Ma chi è qui il responsabile?, proprio alle soglie della grande mutazione, di quello che verrà chiamato da molti il postmoderno (quanto a me, preferirei “basso capitalismo”), dove il nostro autore arriva addirittura a rinunciare a qualsiasi armonia, fosse pure una armonia mentale e una euforia comunitaria. Qui Cacciatore fornisce, nel paratesto dei titoli, una costante indicazione al mondo del lavoro (Posto di lavoro, Lavoro a mano, Lavoro a macchina… fino a Il nastro trasportatore); è, forse, allora, diventato marxista, magari un po’ in ritardo? È quello che potremmo pensare leggendo il titolo della sezione più significativa, La cosa nuda e cruda: saremmo arrivati, scansati tutti gli abbellimenti e gli orpelli ideologici, al cuore del sistema, al nocciolo del “modo di produzione”? In realtà, a ben vedere i testi del nostro autore continuano a non avere che sparsi cenni lessicali alla sfera “produttiva”.

Eppure qualcosa accade; qualcosa di “duro” si inscrive nella scrittura di Cacciatore e proprio in corrispondenza del grande cambiamento degli assetti economico-sociali, quando sempre più il livello economico si interseca con quello mentale-immaginario, il “fare” con il “dire”, il reale con l’irreale, e in modo tale che la prima a saltare è la distinzione “deterministica” di base e sovrastruttura, prevista dall’impianto marxista classico. La “cosa” comincia a farsi intrecciata; l’ideologia stessa non è una data visione del mondo, ma è dappertutto, è l’aria che respiriamo; e l’io, questo ancoraggio identitario, s’avvia a diventare – come ha scritto recentemente Rodríguez – esso stesso “un mezzo di produzione”; l’immaginario è campo privilegiato di dominio e di lotta. Ora, il nostro Cacciatore sembra muoversi già su questa lunghezza d’onda, come vediamo in Chi è qui il responsabile? (il testo che fornisce il titolo alla raccolta del 1974):

 

Divergenza sobilla? dipende… gli anelli

Catena più non fanno sibbene orizzonti

A gara al gancio adattano l’inutile

Sul piacere singhiozzante luce beatifica

Sminuzza le folgori i frantumi congloba

Manopole servendo con seghe di raggi –

Ma chi è qui il responsabile? chi la roba

Sorveglia all’esito e i poteri ratifica?

Perfetto apribocca sarebbe un feto futile?

Dipende… l’energia concùbiti ha pronti

Spolmona i defunti – dove stanno i ribelli? 15

 

(Noto che abbiamo qui una strofa di undici versi del tipo che ho sopra descritto, con rime a ciclo inverso). Il conflitto si configura diversamente: i poteri da contestare e le forze antagoniste non sono più subito identificabili e riconducibili a individui singoli.

Ancora, che la repulsione umanistica per la “nuova barbarie” non sia sufficiente ce lo indica, nella stessa raccolta, Transistor 16. Cosa potremmo incontrare di più alienato di un giovane con la radiolina? Isolato dalla società, incapace di ascoltare la propria interiorità, rimbambito da una musica battente?

Invece Cacciatore non la vede così; o non soltanto così. Il fatto che il teen-ager finisca avvolto in un consumo passivo è evidente, ma – proprio perciò – fin troppo scontato e benpensante il giudizio: «Ovvio è dire l’abbindola l’apparecchio / Con litanie d’incurie false»; e «Sembra sembra un consumatore che viva / Di scrocco e egoista». Ma, dall’altro lato, si instaura una sorta di permeabilità comunicativa tra il corpo e i segni sociali («Capta messaggi – mai triste // Più sarà né tagliato fuori un istante / Dall’armonia del mondo e preme all’orecchio / L’ordigno che s’irradia / Dal capo fino alle piante»); dall’altro lato, c’è il contatto paradossale con uno stadio quasi “primordiale” di rumore che, al di là dell’incultura e banalità dei significati, va al “fondo” del rapporto con il mormorio impersonale di una voce collettiva («Tocca in realtà il fondo viscido e l’infiamma / Crepitìo ascolta e il soffio estraneo dell’uomo / Vi sminuzza e il primordio / Coglie entro un vizzo programma»), tanto da far assistere in chiusura a uno strano soprassalto dell’energia («Forza d’urto ecco insorge / L’escluso ora ha osanna in portatile duomo»).

Ma soprattutto una serata ambivalenza si riscontra nella sequenza sul “lavoro”, che è proprio La cosa nuda e cruda di cui parlavo, e in essa, come esempio, leggerei Lavoro in catena di montaggio. Vediamo per intero queste tre strofe di cinque versi, con varie misure metriche (al tridecasillabo sono aggiunti versi di cinque, sei, sette sillabe) connesse in un insieme dissonante:

 

Se rende l’idea…

La sguinzaglia che ringhia

Per l’eccidio dei pezzi dove si crea

Metempsicosi bucherellata a cinghia

E in corsa piena

È un recapito di trapassi che comunica

Di larva in larva al tormento di quei singoli

Lo sbozzolo di un’unica

Farfalla con cingoli

Ghiotta a cancrena

L’attira la luce

«C’è gesto libero? C’è bracco vagante?»

Smembrato il pensiero madreforme introduce

Le cui indagini infrante

Spranga e incatena.

 

Certo non c’è impegno nel modo consueto: e del tema del lavoro, non è rimasto molto, alla superficie del testo; solo sparso lessico, i “pezzi”, la “cinghia” (di trasmissione?), lo “sprangare”, la mostruosa meccanica della “farfalla con cingoli”). Ma in tutto il brano la realtà naturale (del mondo degli insetti: la “larva”, il “bozzolo”, la “farfalla”) e quella mentale del pensiero, sembrano prese in un vortice di trasformazione decisamente ansioso e, in buona sostanza, confliggente. L’antinomia della produttività (per cui essa aumenta il corpo, ma nello stesso tempo lo esaurisce) si stampa in modo indelebile in queste immagini dal doppio risvolto (positivo/negativo) davvero inestricabile: l’idea è un “cane” liberato ma ringhioso; la rinascita dell’anima (la “metempsicosi”) è curiosamente “bucherellata”, come da un trapano; la leggera, volatile e “estetica” farfalla, viene minacciosamente munita di “cingoli” (è un carro armato?); la libertà e l’autonomia sono date per interrogativo; infine, la possibilità di ricomporre l’infranto si concepisce come atto di violenza che chiude il testo, facendo smagare qualsiasi accredito di felicità. Direi: la costruzione metrica difforme e aritmica e, in corrispondenza, l’intorbidarsi e l’incespicare del vitalismo, sono il modo migliore di affrontare l’emergere della contraddizione costitutiva tra la spinta potenziale e lo sfruttamento. Dico che la “cosa” che tocca infine Cacciatore era già stata segnalata da Marx: il capitalismo è un grande risveglio di energie, suscitate dappertutto; ma il problema è come vengono poi gestite e rilanciate. Il

problema non è soltanto la messa a produzione delle energie, il loro convogliamento, c’è in più il loro spreco, la perdita, la diminuzione, causata dall’assetto dei poteri del mercato. La critica al capitalismo è, insomma, di essere troppo poco produttivo.

Su questo punto Cacciatore non ha soluzioni: gli basta mostrarlo stampato nel caos delle sue immagini profluvianti. Ma intanto la sua carica vitale è riuscita ad andare ben oltre alle posizioni di un umanesimo nostalgico e inorridito della tecnologia. L’alternativa al mondo della produzione è, semmai, quella di una produttività maggiore e condivisa. E la poesia vi ha parte, messa alla prova del modello dinamico, come “discorso a meraviglia”. Certo, essa contiene l’utopia della pienezza (della pleroforia: «È pleroforia il vivere adesso» 17); ma l’utopia non è garantita, se non come “puntura dell’assillo”. L’utopia ha uno statuto ipotetico; lo stesso statuto che tocca alla poesia. E non c’è da stupirsi se poi, nella situazione istituzionale della letteratura, la poesia di Cacciatore ha mantenuto, suo malgrado, la propria evanescenza e indefinibilità: sicché essa è tuttora una ipotesi.

Non dico che il silenzio che la circonda sia la miglior riprova della sua grandezza; ma, certo, che la potenzialità esplosiva del suo discorso, rimasta inevasa, è ancora qui, implacabilmente a “assillare” l’ascolto mediocre e distratto dei contemporanei, al modo di una domanda irrisolta e di una promessa di apertura di nuove modalità poetiche.

__________________

1  Cito da E. CACCIATORE, Tutte le poesie, Manni, 2003, pp. 113-114.

2  Ivi, p. 159.

3  Ivi, p. 461.

4  Ivi, p. 45.

5  ID., L’identificazione intera, Edizioni Scientifiche Italiane, 1951, p.187.

6  ID., Itto itto, Manni, 2003, pp. 221-228.

7  ID., Tutte le poesie, cit., pp. 68-69.

8  Ivi, p. 51.

9  Ivi, p. 43.

10  Ivi, p. 91.

11  Ivi, pp. 587-588.

12  Il sonetto Indossatrici è inserito in Libido dominadi de Lo specchio e la trottola (ivi, p. 251).

13  Riprendo qui le acute notazioni di J. C. RODRÍGUEZ, nel recentissimo Literatura moda y erotismo: el deseo, Investigación & Critica, 2003, in particolare p. 50.

14  E. CACCIATORE, Tutte le poesie, cit., pp. 260-261.

15  Ivi, p. 444.

16  Ivi, pp. 404-405.

17  Da La puntura dell’assillo, ivi, p. 610.

 

* (da “Critica Integrale – francescomuzzioli.com)


Biografia di Francesco Muzzioli


 

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