FRANCESCO APRILE, Jannàra. Scritture provvisorie (estratti)

Tutti i fenomeni medianici hanno come punto di partenza questo
stesso abbandono, ma, essendo più perfetti, vanno più lontano.
Henri Michaux, Passaggi

La voce tace / e se non tace / la voce / differisce dalla voce.
Marcelin Pleynet, Le linee della prosa

 

Dichiarazione di poetica

Caro Giorgio,
mi chiedi una dichiarazione e forse dovrei risponderti parlando delle ragioni che si annidano nel testo. Ecco, allora lo faccio, ti parlo delle ragioni, della stanchezza, della violenza delle cose. Jannàra. Scritture provvisorie, è un lavoro ancora inedito che raccoglie testi scritti negli ultimi anni, quasi un tentativo di rendere conto, più a me che non ad altri ipotetici lettori, di un cammino che prima ancora di farsi parola ha già marciato per chilometri nel mondo. Il processo è il concetto primario di queste scritture, per questo le dico provvisorie. Certo, quelle che ti presento e accogli sembrano preferire un andamento diverso rispetto alle linee generali del lavoro, ma anche questo fa parte di quel “processo” che porta Jannàra a dipanarsi in forma reticolare. Se nel resto del lavoro la parola è soprattutto mediatica, strozzata dal susseguirsi incessante di notizie che non vengono mai esperite per davvero e appaiono mozzate, sovrascritte già dallo stimolo successivo, in questo particolare frangente di Jannàra hanno prevalso altre ragioni. Prima di tutto il titolo: Jannàra è un luogo del Salento, uno scoglio, un piccolo arco, quasi una porta nel mare. Una dimensione culturale ed esistenziale arcaica. Una volta, in un tempo che non ho vissuto neppure alla lontana, i pescatori/contadini decidevano delle loro giornate proprio in quel posto. Quando il vento soffiava ed era tramontana e la piccola porta sul mare – lo scoglio, l’arco – veniva riempita dall’acqua, dal suo mormorio, allora i pescatori coglievano il segnale: non era un buon mare per la pesca, ma era un buon tempo per seminare, per andare nei campi. Poi ci sono le ragioni che non vengono ascoltate, un gasdotto infilato a forza proprio in quelle zone diventa motivo di raccordo con gli altri due poli della vicenda che descrivono un ipotetico triangolo che urta contro tutto il resto. Un per niente ipotetico angolo è occupato dall’Ilva, l’altro da Cerano. Nel mezzo ci sono le polveri e la loro violenza sulle cose, e il loro essere cose violente che non si arrendono alla vita. Vivo in un posto in mezzo a questi vertici, a questi angoli dell’imposizione che mi hanno insegnato a non credere (o cedere) alle belle parole. La scrittura in questo caso arriva dopo, prima ci sono i segni, sulle cose, sui corpi, che diventano altri segni, sulle parole. Anche la forma è diversa. Nel resto del lavoro persiste una forma inglobante (sarebbe meglio dire, provo a far esistere), aperta, con cui vorrei intercettare, in un andamento discorsivo, dialettico, differenti percorsi di lavoro sulla parola. Non una condizione dogmatica, ma un’esperienza del verso che provi a cercare nel cammino la pluralità strutturale della vita. Ma questi testi, ti dicevo, sono diversi, parlano delle polveri e come le polveri si fanno minimi rispetto al resto del lavoro. La contraddizione, intesa come conflittualità, ne è l’ossatura. Le belle parole continuano a sottrarre vita ai territori. Le cattive parole che ne derivano rendono solo più esplicita la violenza delle prime. Intanto le polveri non si arrendono alla vita.

10 ottobre 2018

 

* * *

 

XI

Il rosso ruggine procede con modalità di narrazione.
L’oggetto inenarrabile ha per suo statuto la vita.
Che qui è tolta. Il rosso ruggine procede con
modalità di narrazione. All’uscita Porto Varco Est,
Taranto Croce
, l’epica industriale entra nell’immaginario
come un disco dei Pink Floyd, senza maiale volante.
Di contro, l’immagine gigante sovrasta tutto, con o
senza fumi. Sotto il cartello Taranto Croce/Porto
varco Est, un altro dice: “Cimitero”. Eponimo.

 

XII

Sotto il cartello “Cimitero”, all’ingresso prima dei
ponti, di pietra e girevole, sembra non esserci nulla.
Il rosso ruggine insiste nella modalità di narrazione.
Ma l’oggetto inenarrabile concede sempre poco di
se stesso, che ha per statuto la vita. Dietro l’epica
nazionale dell’immaginario cimiteriale, le polveri
non raccolgono tutto lo scibile se non il principio,
sud-pugliese, dell’olocausto. Il rosso ruggine
procede in modalità di narrazione, quasi non si
arrende alla vita.

 

XIII

Il rosso-ruggine insiste in modalità di narrazione.
Volendo insistere, insiste. Volendo non arrendersi,
non si arrende alla vita, che è inenarrabile per statuto.
Qualcosa, qualcosa sfugge sotto l’insistenza. Qualcosa,
qualcosa insiste sotto la modalità di narrazione. Dietro
l’epica nazionale dell’immaginario cimiteriale, il rosso
ruggine insiste, permane, conduce il discorso, lo affonda
lo buca lo incide lo narra lo sperimenta sulle cose,
insegnando a non avere pietà delle buone parole.

 

XIV

Imparare a rastrellare le polveri, abitare gli organi col
disagio, fare i conti con l’estraneo nel corpo, che è
avere più corpo nel corpo, mentre rifà nuovo il vivere,
più malato e spellato e sdentato e collocare i resti in
un’oasi di rabbia e amore per ridare alle parole il tono
e la coscienza, la forma etica della protesta.

 

XV

Quantificare i danni, raccogliere i numeri, stringersi
attorno ai dati e alle previsioni e alle prospettive,
per capire quanti danni ha causato la strategia dei
Poli di sviluppo. Bisognerebbe quantificare i morti
per rendere conto del genocidio e del suo avvenire.
Bisognerebbe ascoltare la polvere, asportare i granelli,
ammucchiarli sulla spiaggia dei valori della moneta,
dei vestiti buoni, dei salottieri di paese, dei poveri
di visione. Bisognerebbe quantificare i morti per
ridare un senso alla terra e al sangue nei denti.

 

XVI

I comignoli innevati di fumo sospingono nella grazia
il profilo meccanico delle gru. Allo svincolo tra fumo
e nuvole si affittano respiratori e mungitori di polvere.
L’etica è il profitto (così impone la politica, l’unione).
La vita cammina sola verso la morte. È la qualità del
processo a cambiare. Intanto il processo, quello di
trasformazione dell’immaginario, istruisce le gru alla
danza. Quando si alza la tempesta, tutto si lascia invadere
dal rosso-ruggine e le finestre chiuse proclamano calamità.
Resta un profilo tagliato di danza, allo svincolo tra fumo e
nuvole, a innevare di polvere il processo di trasformazione
dell’immaginario.

 

XVII

Di lato, le parole conducono a forme di verità senza
processo di avvicinamento.  L’effetto-verità, come
l’effetto-soggetto, nasce dallo sprofondo: affondati,
dritti, seduti, immobili, solo vista e udito, solo vista e
udito. Alla voce, le parole preferiscono lo strillo,
l’annuncio, grandi manovre, sorrisi, mani stringono
mani senza contatto. Dall’altro lato della polvere
i comignoli di nero-cerano scavano ancora i corpi.
È corsa al tesoro, ghiotti impavidi sputano. Che la
verità sia un processo senza terraferma è noto solo
all’epica del dubbio e all’arte marziale
dell’avvicinamento.
Dall’altro lato della polvere l’olio biologico, fatta
nuova la muta, nero-cerano sotto i camini della voce,
destituisce il paesaggio e rimodula l’immaginario.
Nel nulla degli alberi, recuperato alla lingua, senza
parlanti, disponendo sillabe fra i passi prima che,
poi inizia la narrazione, improvvisamente ai tavoli
irrompono persone e le voci, vociano, si compone
davvero il silenzio.


Biografia di Francesco Aprile


 

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