FRANCESCA MARICA, Nota su “Quinta vez” di Maria Pia Quintavalla


Quinta vez (Ed. Stampa 2009, 2018) è fondamentalmente il desiderio di un volver, lo svolgersi di un destino che diventa scrittura, l’urgenza di un legame che chiede di essere declinato al tempo presente nonostante l’impossibilità di un suo dispiegarsi quotidiano. Tradiscono questo intento già i versi di Mauro Maconi posti in esergo Ci incontreremo ancora in questa distanza. C’è una distanza e solo la poesia sembra poterla colmare. La poesia diventa per Quintavalla pharmakos capace di curare e unire quello che la morte terrena ha separato. Un libro complesso Quinta vez, un libro che affronta temi cardinali: la vita, l’amore, la morte, il riavvicinamento e il perdono.

Se è vero che «Il più grande amore di una donna è la madre» (Melanie Klein, Il nostro mondo adulto e le sue radici nell’infanzia, Martinelli, 1972) e «Il punto più alto delle perversioni femminili è rappresentato dall’amore materno» (Louise Kaplan, Perversioni femminili, Raffaello Cortina Ed., 1992), questo amore e questa perversione, realizzano qui, una delle loro massime manifestazioni.

Ad animare quasi per intero il libro è un tema caro alla poetessa: il rapporto madre/figlia; madre sempre intesa nella doppia veste di soggetto e oggetto dei primi desideri, del primo amore, della prima ferita. Un rapporto contraddittorio e conflittuale che si articola su piani diversi: «reale / così il reale non ricondotto a interrotte somiglianze, / archetipo |materno segreto come / guardare in faccia l’eterno / ma anche analitico / riparare in se stessa sua luce sua / ombra questa ancora (quanto)» ‒ come la poetessa faceva osservare in un suo precedente lavoro (Le Moradas, Empiria, 1996).

La madre continua a costituirsi nella visione poetica di Quintavalla come fantasma originario, come matrice e nucleo originale dell’esperienza dinamica del vivere. Il materno, e il femminile tutto diventano per la poetessa, a partire dal dato meramente biografico, segni di apertura e chiusura del mondo, la nascita e la morte si attestano a confini dell’esistenza. E Quintavalla dimostra di sapere che, all’interno di quei confini, si finisce per essere contemporaneamente figlia e madre della propria madre in un sentimento che, come ci insegna Jung (in Aspetto psicologico della figura di Core, Bollati Boringhieri, 1969), non può che essere di «liberazione del tempo. Ogni madre contiene in sé la propria figlia e ogni figlia la propria madre, ogni donna si amplia per un verso nella madre e per l’altro nella figlia – ha scritto Jung – e da questa partecipazione e fusione nasce l’incertezza nei confronti del momento ‘tempo’: da madre si vive prima, da figlia poi. La vita singola si eleva al tipo, all’archetipo del destino femminile in generale».

Ad essere protagonista indiscussa di quest’ultima fatica editoriale di Quintavalla, è sempre China, all’anagrafe Gina De Lama, la madre della poetessa. I lettori di Quintavalla hanno già incontrato China in molte sue opere precedenti. China è stata nella produzione letteraria Quintavalla un approfondimento ricorrente, una presenza costante. In Cantare semplice (Tam Tam, 1984) se ne ricordavano le origini magiche «nata da un albero magico / mia madre stava male / io fui il ramo / salvato e benedetto» (Il cantare, Campanotto, 1991) China era signora naturale «di latte statua bianca l’ho fatta / ma solo per poco / ride ascolta nelle parole / nostre lacrime e saliva» (Le Moradas, op. cit.) si faceva cenno al suo essere assente, forse altrove, vittima di mal celate irrequietezze («spesso ti dissolvevi andavi/ via ed io imperfetta ne ordino l’ordito muto/ diniego di muta esistenza la sua incandescenza)/ è motivo della mia gloria sempre»).

In Album feriale (Archinto, 2005) China era beatitudine di piccolo rosa e piccolo giallo che forava il bianco dell’aria mentre, in China. Breve storia di Gina tra città e pianura (Effigie, collana Le stelle filanti, 2010), se ne ricordava il momento della dipartita «Era questa una zona del tempo / dove ruspe per l’aria, e macerie / cadevano per terra come stelle fitte ,/ pezzi di realtà volavano cedevano / senza dolore: mia madre era morta». Più recentemente, in Vitae (La Vita Felice, 2017) China «(…) era donna di incomparabile bellezza, carnale e gioiosa nel cuore, dalle mani danzanti con noi bambini. (…) La sua voce era canto, la sua pelle risuonava melodie speziate, il seno pieno e morbido odorava di avena, le mani erano piccole come i piedi, il naso deciso e altero, una piega improvvisa le serrava le labbra, a volte. (…) Mia madre parlava e rideva ancora con noi nella sua lingua, ma alla presenza di estranei si affrettava a parlare uno stentato italiano, un po’ latino, come quello che in chiesa era cantato nelle messe domenicali». E ancora, poco oltre, (…) «D’altra parte fosti tu la sua bambina che lui chiamava “la giapponesina”, per la frangetta nera e gli occhi nero liquido di china (…) eri inesausta nel narrare: tutto rapivi al volo del racconto, nei dettagli di un’epica solenne, e noi tutti lì vinti, ad ascoltare il verbo, il verso».

Quinta vez è il libro che racchiude e sintetizza tutte queste precedenti esperienze e le cinque sezioni del libro, evocative sin dalla titolazione (Pre-natale (ai non nati), Mater e Mater II; Quinta vez o del ritrovamento, Le sorelle), ne sono la prova tangibile. Con Quinta vez, Quintavalla tenta di chiudere un cerchio, di trovare un giusto punto di incontro tra l’esuberanza della vita e i fantasmi di coloro che la vita hanno ormai da tempo abbandonato.

La sezione di apertura del libro, Pre-natale (ai non nati), individua il momento dell’incontro mistico tra la poetessa e la madre ormai morta («intendevo farti dei cenni e lasciare che le due anime conversassero subito, liberamente»). Il momento dell’incontro diventa il luogo della possibilità di una resurrezione («tu eri là, e me cercavi»), della progettazione di un dialogo in uno spazio altro («eravamo libere e insieme sole, parlammo?»).

Ed è lì, in quella specie di mondo sommerso, che le due donne si incontrano di nuovo dando avvio a una corrispondenza di amorosi sensi («Così provammo. A parlarci e toccarci col pensiero e desiderio tutto, a lasciare sprigionare gli incontri che sarebbero fluiti»). In quella specie di mondo sommerso, China viene continuamente evocata, se ne ricercano i fili («mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili / che quei fili ho cercato amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli»), le tracce («c’eri tu e interamente, come figura che lo spazio occupato da te indicava, e ti ho fatto cenno di posare dove volevi»), la corporeità («se nessuna foglia ti chiamava, ti sapevo accanto sulla soglia: eri tu che cercavi un varco, avevi bisogno di alitare tra noi»). Quintavalla si ricongiunge alla madre e, con lei, alla condizione di innocenza da lei rappresentata.

Mater e Mater II sono le due sezioni centrali del libro e lì il dialogo si fa polifonico: accanto a China e alla poetessa, compare Sara che della poetessa è figlia. Il rapporto matrilineare si amplia fino a ricomprendere due generazioni diverse e le due sezioni, scardinando il concetto logico e razionale di tempo, si presentano invertite.

In Mater, Quintavalla non è solo figlia ma anche madre di una creatura «che vede appartenere a un mondo nuovo, a una vicenda personale e storica diversa e comunque più libera più umana perché non conosce guerre né latitudini del nero e il novecento appena lo ha leccato», come osserva Cucchi nella prefazione. In Mater II, Quintavalla torna invece a essere solo figlia, donna alla ricerca del suo disperato, insopprimibile bisogno di verità. C’è un tempo che è di sdoppiamento in queste due sezioni: Due sono una, scrive la poetessa.

«Lei è cresciuta non parla la tua voce», si legge in apertura di Mater. «Lei non ascolta  / se cammina non ti vede più / sei tu alle spalle, la conosci / dal silenzio dei passi, lei non corre / più accanto alla tua vita ma davanti (…) Lei scrive in versi la sua notte / si trucca gli occhi, ride. Si seduce. (…) Ogni mattina / chiude piano le porte .Lei è più felice di te che, di fortuna / la vedesti nascere alla vita. / Lei tace ride, si compiace. Aspetta / i tempi delle se radure».

In Mater II, «Io scrivo China per pulire» è l’esordio forte. E poco oltre, «Dentro l’aria entra la voce / che piange, che punisce, dice, Va lontano / maledicta, né amata o stupefatta / di male, e di dolore». E ancora, A sera: la sua voce che danneggia, è lei la lepre/ con modi che scardinano, che bucano/ nel viola; e non serene fa/ tutte le mie giornate, le impoverisce/ nuove, le violenta/ come in un fumetto orribile.

La sezione Quinta vez o del ritrovamento, che dà il titolo al libro, è quella più estrosa e onirica in cui Quintavalla realizza una breve allegoria della seconda vita di China. Con un atto psicomagico, China ci viene presentata come una madre fanciulla risorta in terra di Castiglia. «Belle le gambe e belli gli occhi oscuri, forti le braccia nel danzare danze di vita, China, integra e infante già molto intenta a fidanzarsi / con la dea fortuna che lei sentiva chiara, / scriveva storia di cantari stanchi e / di cavalli picari, di lestofanti pronti alla guerra / e lei non più morire». Libera da obblighi e doveri familiari, China può andare incontro alla vita desiderata. Non si sposa e non fa figli, ricerca «mondi andalusi e canti di Castiglia ed è libera da insegnare che beltà ha nome / di regale follia, di andamento virtuoso / in più spumoso. China diventa prodigio di canzone / meravigliosa creatura in luogo chiaro».

Le sorelle è la sezione conclusiva del libro. Lì Quintavalla abbandona la struttura lirica e le prose poetiche e approda al dialogo teatrale. Il tema centrale del libro (il rapporto madre/figlia) lascia spazio a una riflessione più ampia sul mondo femminile. Oggi sappiamo che la storia è materia inerte per la poesia e l’incomprensione e l’incapacità di dialogo tra le due protagoniste femminili di questa sezione finisce per assumere una valenza più ampia, dal valore anche politico. Ci troviamo di fronte a due sorelle, due donne dai destini e dai desideri profondamente alieni.

Una delle sorelle, quella maggiore, va incontro alla vita che è stata decisa per lei «Vi lascio, vado via, mi sposo, Perché così alle donne, borghesi e parmigiane, era dovuto». L’altra, quella minore, lotta e si fa partecipe del suo tempo rinunciando a stare dalla parte giusta, dalla parte delle donne che mettono su famiglia. Le due sorelle, troppo lontane nelle scelte di vita e nelle rispettive inclinazioni, dopo un tentativo di chiarimento si salutano sapendo che non si incontreranno più; l’arrivo di un temporale sancirà il loro definitivo addio («nel crepuscolo, entrato ormai nel buio, faticano a trovarla, l’uscita, ma poi, in silenzio, una a piedi, l’altra in bicicletta, infilano il cancello una dopo l’altra, senza voltarsi, e credendo di essersi salutate, forse una delle due mormora qualcosa. Dopo questo incontro non si parleranno più»). Questa è l’unica sezione del libro a rimanere irrisolta, forse  perché irrisolti sono i corsi e i ricorsi della Storia, quella individuale ma anche collettiva.

Nella prefazione al libro, Maurizio Cucchi individua quale carattere di suo maggior rilievo, «la varietà delle sue soluzioni formali. Dalla narrazione in prosa poetica con accensioni liriche – scrive Cucchi – Quintavalla passa alla cronaca in versi per approdare anche al dialogo teatrale componendo un insieme, una proposta di cangiante novità espressiva, di sorprendente efficacia».

La varietà di quelle soluzioni formali e il fiorire di suggestioni e immagini che ne derivano contribuiscono a regalarci un libro che sfugge alle catalogazioni, un libro ricco di sovrapposizioni che si nutre di una nostalgia, di una malattia d’amore, di una tensione sempre costanti e con cui siamo costretti a confrontarci.

La varietà delle soluzioni e le convergenze-divergenze di piani di esperienza contribuiscono alla caratterizzazione dei personaggi, alla loro frantumazione anche interiore. All’interno di questa struttura apparentemente coerente e alla rigorosa organizzazione del materiale verbale e semantico che ne deriva, Quintavalla mette in rapporto e crea un dialogo tra presente e passato, tra realtà e mito. «Bisogna rovesciare la prospettive mettersi dall’altro lato, accettare con fiducia intrepida ciò che si profila all’orizzonte», direbbe Elvio Facchinelli (La mente estatica, Adelphi, 1989).

Persino il linguaggio scelto, anche quando abbraccia toni aspri, riesce comunque a muoversi su un terreno etico consegnandoci una visione alta della vita che vira verso quella «forma di terrena metafisica della poesia» a cui già Zanzotto aveva dedicato parte delle sue attenzioni (in «Nuovi Argomenti», Cantari dolorosi. Sulla poesia di Maria Pia Quintavalla, 1990).

Un lavoro questo di Quintavalla che ci ricorda come la scrittura possa diventare nei casi migliori strumento di comprensione e trasformazione della realtà e le qualità del femminile spesso coincidano con una ricettività e un’empatia che si rinnovano e si riaprono continuamente: il femminile accoglie il bene e il male e poi li separa, come avviene nelle fiabe, anche quelle dai finali ancora aperti o da riscrivere con pazienza e cura.

Settembre 2019

 

Maria Pia Quintavalla
Quinta vez 
Ed. Stampa 2009, 2018, pp. 96

Biografia di Francesca Marica


 

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