FLORIANA COPPOLA, “Oltre la linea gialla” di Marisa Papa Ruggiero (recensione – intervista)


L’ultimo lavoro di Marisa Papa Ruggiero Oltre la linea gialla presenta una forte valenza autoidentitaria, narrazione complessa e di frontiera, tra romanzo breve, prosa poetica e scrittura drammaturgica. Definito anche  thriller psicologico.

Le varie anime di questo testo alludono alla complessità dell’autrice, poliedrica e versatile nell’uso dell’arte della parola e del segno grafico e soprattutto insofferente ad ogni classificazione, che possa mortificare il mescolamento necessario delle arti espressive.

Come nasce la tua volontà di costruire questa storia?

Come nasce? E chi può dire come succede che a un certo punto viene fuori l’esigenza di mettere in moto una storia! Ma poi è chiaro che non si scrive per narrare una storia, almeno per me non funziona così, non è il raccontare dei fatti che coinvolge, se non fino a un certo punto, quello che coinvolge è la bellezza. Quello che veramente coinvolge è tentare di strappare qualche scheggia viva alla bellezza, tentare di darne una forma. È per questo che si scrive. E allora sai che quella storia che stai per raccontare sta già lì da sempre, sta già dentro di te, respira con te, non te ne liberi. E da quel momento tende a prendersi tutto lo spazio, tutto il  tempo della persona.  Questo per dire che si mettono in  moto dei meccanismi potentissimi, dei meccanismi memoriali, conoscitivi, speculativi, dei meccanismi scenici, e tu vuoi vedere come agiscono, come si muovono nello spazio. Sono sfide, delle vere e proprie sfide. Sono sfide che stremano. La scrittura le conosce bene queste sfide. Senza queste sfide, la letteratura, io credo, non potrebbe neanche cominciare.

Il linguaggio che utilizza  deraglia su un terreno scosceso e fragile, dai binari tipici tracciati dalle coordinate spazio temporali,fino a slittare in strati onirici evocativi, che toccano passaggi di sofferenza e di angoscia.

Il vortice nascosto di un perenne interrogativo sull’essere persona e animale sociale emerge da questa narrazione, che si muove di continuo mentre il lettore tenta di utilizzare la propria confortevole mappa concettuale.

Il bersaglio si sposta e irretisce, destabilizzando, espressione nervosa di un disagio interiore che vibra e fa tremare.

L’io narrante si duplica e si rincorre in un continuo gioco di specchi, osserva la realtà e poi la deforma. Si avvicina e poi si allontana, in un processo dinamico di messa a fuoco che si alterna  a posizioni di allontanamento dell’obiettivo da comprendere e accogliere. Segna il cammino inquieto della protagonista, turbata dai suoi spaesamenti tra sogno e realtà.

Le pagine del romanzo ricordano la cinematografia di Bunuel, per questa sospensione surreale percepita come un nucleo incandescente che irradia luci e ombre.

Il particolare si ingigantisce e diventa simbolo che annuncia la solitudine inevitabile che a volte travolge la protagonista per  l’ assoluta impossibilità di comunicare e di tracciare ponti solidi tra gli individui, ognuno chiuso drammaticamente in se stesso.

Alcune scene sembrano memoria cinematografica di Bergman.

Marisa sperimenta una scrittura che allude a fotogrammi, che si sovrappongono ad affondi intrapsichici, toccando la  soglia vibrante della follia.

La protagonista si osserva e osserva la sua vita, ricordi divisi tra passato e presente, in uno stato di smarrimento, che suscita  effetti di luci e ombre, percezione di un vuoto immenso.

Viene qui ripresa l’esperienza letteraria del doppio,  presente in molte opere letterarie.

Una donna che cerca un’altra, come nel romanzo di Marcela Serrano, Nostra Signora della solitudine, dove la protagonista non prende mai sostanza corporea  ma viene richiamata drammaticamente dalla narrazione delle altre donne.

Anche nel romanzo Segreta Penelope di Alicia GimenezBartlett, l’amica scomparsa e poi suicida viene cercata e ricostruita attraverso un’ equilibrata e certosina tela di dettagli e di indizi.

Altro aspetto : Il rapporto controverso tra le due donne è un tema portante,  viene descritto il legame fusionale e simbiotico tra le due personagge, che viene sciolto nella fuga e nell’esilio.

La solitudine di una competizione nascosta e agita ma non dichiarata come tema sottotraccia.

A volte, nel romanzo di Marisa,  la pagina viene invasa da un monologo ansioso che gioca con un destinatario sognato ma mai presente.

Avviene piano piano la costruzione del doppio, tra le due anime che si rincorrono senza mai incontrarsi.

Due figure che sembrano complementari e che sfumano l’una nell’altra, generando uno smottamento, uno slittare di strati, una contaminazione che reca ansia e tormento.

Un dialogo tra due parti interne, si potrebbe dire, due anime che afferiscono all’apollineo e al dionisiaco.

Ci vuoi parlare di questa dinamica dello sdoppiamento psichico che intercorre nelle due protagoniste?

 Ho voluto, soprattutto, disegnare delle polarità oppositive, problematiche – è una cosa che amo fare sia in pittura che in poesia – ho voluto disegnare due paesaggi mentali differenti, in configurazione speculare, nelle due protagoniste: Vera e Sara, ognuna con la propria individualità e autonomia, delineandone i contrasti. In una c’è fuga e dispersione, nell’altra, ripiegamento su se stessa. Non si tratta di banale rapporto di amicizia, bensì di un rapporto tra due avversità, tra due diversità irriducibili, ancorché riscaldate da sincero affetto. L’inattingibilità della prima fa riscontro con la corporeità piena e presente dell’altra. Si potrebbe dire che tutta la narrazione non è che un continuo monitorare la condizione dell’assenza, della mancanza. La presenza di Vera, infatti, è data unicamente dallo sguardo di Sara, che la evoca. Insomma, la realtà dell’una prende forma e sostanza dalla proiezione mentale dell’altra. Anche qui, come si vede, amo l’alternanza tra virtualità e realtà oggettiva.

Ma anche il titolo suggerisce una doppia significazione, riferibile tanto a un normale segnale di pericolo, quanto ad un altro piano della coscienza, a una soglia interiore, il cui attraversamento conduce all’ignoto.

 Colei che governa la parola e colei che insegue liberamente il desiderio e il caos della creazione.

Il segno scritto e la traccia fotografica, il verbo e  l’icona.

E ancora il nascondimento e l’esibizione.

Due anime femminili che l’autrice visualizza e rende corporee eppure fantasmatiche.

Il romanzo mette in scena in modo incessante questo movimento tra tensione e desiderio, fino a disegnare un mistero, un enigma, il segno di una forte inquietudine.

In ogni pagina si percepisce angoscia e minaccia, qualcosa che può accadere di irreparabile, qualcosa che annuncia il manifestarsi indignato di una protesta e di un abbandono, di un esilio e di una affermazione di diversità e di resistenza all’omologazione borghese e decadente di un ambiente metropolitano.
Marisa scrive e descrive una tela, come se fosse un suo quadro, attraversa la trasformazione della persona che si sdoppia.

Una figura entra nell’altra come due pennellate di colore vengono contaminate nella loro densità dalla forza magnetica della mano del pittore.

Ci dici qualcosa su questo tuo rapporto intrecciato tra scrittura e pittura?

 La scrittura creativa, per me, come molti sanno, si è introdotta con forza all’interno di un percorso che è appartenuto a lungo alla pittura, ma senza prevaricarla  sostanzialmente, anzi, alternandosi ad essa.

 Una traccia narrativa simbolica, che rimanda all’attraversamento filosofico tra materia e spirito, tra l’identità di uno e la molteplicità del gruppo.

Tutto si svolge su un piano quasi privo di spazio e di tempo, in una direzione simboliche che affascina.

Si assiste alla lenta formazione di una scena teatrale, fatta di indizi e di segni.

Drammaturgia che ricorda il teatro dell’anima, asservito all’evocazione che trascende la parola e la storia ma che offre la sua magia all’interazione tra ogni elemento presente  e scelto dall’autrice con estrema cautela,componendo un collage  verbo-visuale.

Disegna il movimento ibridato  sulla pagina testuale. Il doppio e il suo contrasto, il dialogo che non si realizza mai, la fuga che non ha tracce, la ricerca che non ha fine.

Come nel metateatro, si gioca ad essere un altro e poi un altro ancora, mescolando le carte e confondendo il lettore,per sperimentare la mutazione, e non solo formale.

Le due figure sono intimamente connesse e pure mai vicine. Questa narrazione destabilizza e procura una lunga vertigine. Creare una maschera e poi indossarne un’altra.

Interrogarsi continuamente sul senso di questa operazione, combattendo con il bisogno di allontanarsi dalla scena principale. Entrare nella sfida eppure leggere la sfida come non necessaria.

Ci si imbatte ogni tanto nel tuo libro in intarsi Metatestuali, quasi sempre in corsivo, cosa stanno a indicare?

È vero, nel mio testo “scivolo” ogni tanto nel metanarrativo, sono scivoli brevi, quasi involontari. Sono due i piani narrativi: il piano lineare, cronologico e l’altro piano, parallelo, in corsivo,che dialoga, per così dire, con la scrittura stessa. Ed è questa l’altra faccia della realtà, quella immaginaria, quella “borgesiana, se così si può dire: un respiro diverso che entra sulla pagina, puntato su un altro flusso di coscienza, del tutto mentale.  

 Ma perché hai sentito il bisogno di questo piano?

Perché il piano razionale, descrittivo, da solo non basta. La descrizione oggettiva non è tutto, tanto meno in letteratura, secondo me. Perché l’altra faccia della realtà, con le sue dinamiche intuitive, percettive, non fa che premere per venire allo scoperto, facendo emergere a tratti, stati della coscienza sommersi in netta contrapposizione con la coscienza storica, e cercare di ribaltarla.

Il linguaggio è sicuramente al centro di questa battaglia interiore.

Essere nella comunicazione oppure scegliere l’esilio e la morte. Realtà e immaginazione si contaminano, procurando un forte smarrimento psicologico, giocando drammaticamente nella sfera degli sdoppiamenti, delle trasmutazioni. Realtà e immaginazione si (con)fondono, si scambiano le parti; una sfida che spinge, anche, la parola poetica ad interrogare se stessa, a interrogarsi sul potere effimero e ingannevole del verbo.

Essere un altro è proprio della maschera ma  la maschera è ciò che ci mette in contatto con la parte oscura e inesplicabile del nostro sé, quella parte a cui la parola poetica attinge.

Lettura di Marisa a p. 98: («Qualcosa è svolato in velocità sulla retina»).

Marisa:

 Hai accennato prima al “teatro dell’anima”. Siamo qui nel fulcro del libro. È qui il luogo in cui agiscono le voci interiori in intimo colloquio, le voci delle presenze e dell’assenza,le voci dell’anima che si accampano in una spazio  come in una scena della mente, dove avviene la prefigurazione da parte di Sara di ciò che sta avvenendo nella villa accanto, di ciò che si sta consumando simultaneamente sul piano della mente e sul piano della realtà.

 Altro punto da esplorare: Eros, pathos e thanatos, motori inarrestabili della ricerca sperimentale di Papa Ruggiero.

Il logos  prende forma attraverso la mediazione di un “pensiero d’anima” intriso di passione e di immaginazione. Ama l’espressione allusiva e metaforica che si dispiega nelle elaborazioni simboliche, oniriche, poetiche. Scaturisce dal fondo mitico della mente, dà vita alle immagini dei sogni, muove le figure del “gran teatro” dell’anima. È il filo che permette di inoltrarsi nel labirinto di un percorso che può essere terapeutico, radicato nei suoi fondamenti archetipici.

Teatro dell’anima quindi e proprio l’autrice in una passata intervista parla di intonazione teatrale  dichiara il  teatro metafora,  teatro mutante dalle mille anime e accensioni inaspettate connesso non a un ordine fisico, ma mentale.

Il teatro dell’anima è il teatro che si occupa della sofferenza di vivere.

Il male di vivere, nel nostro tempo, anche quando non raggiunge livelli patologici, è una realtà sempre più presente. Il teatro dell’anima si pone come “rimedio”. Attraverso la finzione della scena si rende oggettiva la sofferenza e si realizza una purificazione e una rigenerazione.

Marisa infatti dice:  «un teatro a cielo aperto, fatto di superfici specchianti ‒ così lo voleva Carmelo Bene ‒ dove ogni luogo è un altro. Dove vedersi all’interno stando fuori. Un gioco scenico che muove le parole e i ritmi sfidandoli a dire qualcosa che ancora non so riconoscere, ma che mi appartiene nel profondo, stati della percezione che giungono a me per “trasfusione” e “contagio”».

“ll teatro dell’anima. Intimi frammenti di un rituale interattivo” è un pezzo di vita personale e al contempo la vita di ognuno di noi: la vita è un palcoscenico, quotidianamente rappresentato. Frammenti poetici, un’anima univoca, in cui la metafora del teatro crea un affresco di questa danza di ruoli, dei diversi sé e maschere da noi mostrate continuamente. “Non facciamo che recitare una parte sempre e dappertutto”.

Vogliamo chiudere, Marisa, con la lettura di un tuo conclusivo brano evocativo?

 Sì. Leggerò un brano  ispirato a questo conclusivo clima teatrale  tenendo presente che ciò che “accade” in questo teatro dell’anima, piano piano entra nella circolarità magica e silenziosa del tempo che gli compete. Ecco, ne facciamo parte, voi ed io, come in una scena, come in un rito finale, intorno a questo cerchio abitato da maschere, da presenze bambine, vecchie di troppi anni, da sempre in attesa. Siamo qui, noi che leggiamo, invitati a spiare questo rito tremendo ed estremo che segna il senso del distacco e dell’assenza… (pp. 77-78). Grazie, Floriana, per questa tua acuta attenzione al mio libro.

Marisa Papa Ruggiero
Oltre la linea gialla
Edizioni Divinafollia, 2018, pp. 100

Biografia di Floriana Coppola


 

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