FILOMENA CIAVARELLA, La poesia di Chi Trung è vento del cielo

La poesia di Chi Trung è vento del cielo, viene da lontano, è capace di toccare il cuore, la mente e lo spirito in profondità oceaniche. Sale dal nulla celeste, in un ponte infinito con l’invisibile.

Nasce a Vung Tau, un piccolo villaggio nella costa a Sud del Vietnam. Eredita la tristezza da sua madre, la malinconia è la sua essenza, va sempre alla ricerca del paradiso perduto sulla Terra, in questa culla di dolore dove l’armonia delle vette inviolate si è eclissata nella nebbia. In quei luoghi soffiano i venti delle intoccabili altezze. L’infanzia del poeta scivola silenziosa via, vaga fra i regni del nulla, sul filo dell’essere, sul sentiero doloroso del mistero. I suoi versi nascono anche dai luoghi sacri dell’Oriente, immersi nella natura. Il Vietnam circa 1000 anni a.C., è la terra del popolo Van Lang che vive nella regione di Phu Tho, da dove proviene il nonno materno di Chi Trung. Il  popolo Van Lang è stata la dinastia che ha dato origine alla nazione del Vietnam. Il re Hung è stato il primo Re.  Questa dinastia dura dal 2879 al 258 a.C. A Phu Tho c’è ancora annualmente la grande festa nazionale per onorare il primo Re, il fondatore della nazione. Il nonno materno è stato il mandarino che organizzava il rituale sacro.

La madre è stata educata, come le sorelle, a casa. Ha letto tutto il canone della letteratura classica del VN. Ha recitato l’epos nazionale di Nguyen Du, in 3254 versi in Six-Eight, per lunghe ore fino all’età di 92 anni. Chi Trung, dopo la sua morte, scopre le sue poesie scritte su piccoli e preziosi pezzi di carta di diversa forma.  Egli in seguito riscrive, sapientemente e con amore, quei versi  sulla tristezza.

Ella non vuole che il suo amato figliolo scriva poesie, perché conosce quella nostalgia, l’ha vissuta sulla propria pelle. Il padre gli vieta di leggere, è preoccupato per la sua eccessiva empatia, pensa che suo figlio diventerà, un giorno, un monaco buddista. È troppo sensibile per stare nel mondo.

I suoi versi nascono dai luoghi sacri dell’Oriente, immersi nella natura con potenza infinita. Chi Trung si reca, per alcuni anni, nel Villaggio Santo in Vietnam, dove il Primo Re ha fondato la nazione. È un paesaggio, traboccante di religiosità, dove si può sentire l’atmosfera misterica di quella regione. Finalmente comprende perché il nonno, originario di quel sacro luogo come la madre, abbia sposato come un sacerdote il lavoro del Re. La tristezza trafigge il suo cuore di bambino, ma lui non rinnega mai la sua nostalgia, è la fonte viva della sua poetica in Venti. La sua tristezza inizia a circa 13 anni, quando visita una grande distesa di tè con lo zio materno e alcuni membri della sua famiglia.

Incuriosito, va in giro in quelle piantagioni per vedere il paesaggio, sentire il frinire delle cicale e il canto degli uccelli. Arriva in una stalla, costruita con legno e foglie di bambù. All’ombra di quel tetto alcuni bambini sono abbandonati a se stessi. Stanno lì, l’uno accanto all’altro, con lo sguardo fisso nel nulla. Non giocano, sono seduti apaticamente, immobili. Vedendoli è molto toccato, è la prima volta che incontra bambini in povertà e senza emozioni, si può quasi sfiorare con mano l’assenza di esistenza. La “non vita” ritorna sempre nei suoi poemi. Avviene un terremoto nella sua anima.

Inizia il suo “pensare” in modo melanconico, comincia ad osservare la pioggia dei monsoni, “la ricamatrice del cielo”. La tristezza si fa lamento nella poesia.

Comprende che è diventato un altro bambino, ha perso la sua infanzia, ma quella è la sua vera essenza.

Da allora le colonne blu del dolore si fanno cariatidi metafisiche, trafiggono la terra, gli alberi di tamarindo. Le immagini si fanno carne e polvere nelle sue metafore, emergono soavemente dalla sua memoria, morbide e cariche di grazia. Sale l’odore dolce e profondo dell’Oriente, con la sua luce che folgora e colora questi versi celesti. La polvere, il villaggio, la coltre erbosa sono corpi viventi che parlano all’anima, con una finestra spalancata sul mare infinito. I venti soffiano sugli elementi della terra, nelle aree invisibili, sono lievi e fulminano come folgori, attraversano il filo infinito del tempo. La sua voce è melanconica e nostalgica, le sue parole entrano nella vita come sole meridiano, con lucidità essenziale, potente. Questi versi emanano un amore per la vita sconfinato. Dipinge quadri vivi, colorati anche nell’oscurità, nel dolore portano il cuore del poeta, innamorato delle altezze invisibili, avvolte dalla nebbia, che a mano a mano si rivelano. Il vento lo accompagna costantemente nella sua vita, l’eco dei monsoni sembra volteggiare sempre dell’alba della sua costellazione. Soffiano con infinita forza a Saigon quando è bambino, continuano a volteggiare anche la notte nella quale giunge a Stoccarda nel 1967. Avvolgono il suo essere quando in una notte del 1992 inizia a scrivere Venti in stato di trans. Sono venti che accarezzano a volte come uno zefiro leggero, altre volte sembrano tuonare dalle viscere profonde della terra.

La sua poesia, come magma incandescente si fa voce, pensiero, perfora la roccia. La nostalgia sfiora vette inviolate, ha una dimensione umana abissale come un pozzo senza fine.

La sua voce scende negli abissi per toccare il pulviscolo di luce, la notte sul “mare di pietra” ed elevarsi fra le ali dell’invisibile. Le domande metafisiche respirano vento d’Oriente, per levare il volo è ritornare all’origine, nella calma del lago dove i cigni si tuffano in una oasi di pace. La sua maestosa nostalgia si fa canto negli elementi della natura, con le fondamenta nell’infinito.

La sua voce si fa vento e sa entrare nella pelle, con una forza immateriale che giunge da spazi immacolati. L’attesa è forte e sfiora sfere intoccabili, va alle origini in una vertigine celeste. Il dolore universale attraversa l’inconoscibile in modo essenziale, naviga oltre l’arte e l’amore che svapora. I venti si fanno carne in scie di luce sulla riva del mistero dell’esistenza.

 La poetica di Venti è antidogmatica ed ha una dimensione mistica che scava nel profondo. Le sue domande sulla vita non sono circuite da un credo, da una dimensione divina come in Hölderlin. La sua poesia si fa mistero con una religiosità senza religione come in Montale e in Leopardi.

Chi Trung ama profondamente il poeta dell’Infinito, la sua tensione metafisica è la potenza immaginifica della sua filosofia. Leopardi è molto vicino al pensiero buddista, cerca con l’immaginazione quello che con la sola ragione non può essere percepito. Dietro i versi di Venti c’è il pensiero poetante orientale, come in Leopardi c’è una vasta visione della realtà, che si fa impeto lirico.

Gli elementi della natura ci parlano al cuore, giunge il vento del sogno che con un urlo perfora la notte, “il mare di pietra”. Arriva la pioggia, “la ricamatrice del cielo” e“il mandriano dei bufali d’acqua”, si guardano “cuore a cuore” per non dimenticarsi”. Versi veramente inarrivabili, forti, infiniti. Il vento che fischia sotto “la coperta dell’autunno”, mentre il dolore esplode sul pavimento prima di toccare la pozza senza anima che giace sulla “lastra di pietra”. E il vento continua a spirare con forza, ruggisce e accarezza  i sogni di Chi Trung, il cuore spacca le porte con un lavoro di gru, di anni, siamo “detentori di una transizione”. Non sappiamo dove andare, non abbiamo idea delle “ampiezze della solitudine”, “ghiaia ingoiata da una voragine” incommensurabile, l’anima in essa forse sparisce. Le foglie si perdono senza toccare “né roccia e né zolla, si è persa la meta, che senso ha scambiarsi piccoli doni? Forse nulla. Spirano i venti “su corpi vacillanti”. Il ricordo si fa “onda immobile che non finisce”. Si dilatano gli attimi mentre cambia la vita che non si lascia riempire fino all’orlo. Sulla spiaggia rovente si fa cielo “la noce di cocco rinsecchita”, la vita è semplicemente lì, mentre il cuore e la mente svaniscono “in cenere e carbone con devozione”. L’istante si fa folgore di vita nella benedizione, nel ringraziamento.

Continuano a spirare sulle vette inviolate, nei luoghi dove vanno i significati delle parole, “non oltre, prima del dominio dell’io e del tu”, dove non c’era separazione. Siamo tenuti insieme da un dolore intangibile, lo stesso dolore che il poeta affida fidandosi della parola e si fa portatore del dolore dell’altro. Il cielo non ci abbandona ma non offre più protezione, mentre il ricordo va come il fiume dello spirito di ciò che muore e vive. Il ricordo lambisce le rive dell’anima sgraziata, non permette di entrare in terre sconosciute e lontane.

Venti che trasportano sé stessi e sopravvivono a sé stessi “come il dolore al tempo”, il dolore che attraversa “la carne nuda” come la visita silenziosa di un corpo di donna nel buio per poi ricadere nella disperazione. La vita forse anela ad un significato o ad una parola. Venti che fanno svanire “l’amore come ogni evento della vita”, tracce d’infinito avvinghiate al balcone dell’oceano, nella santa distanza per intravedere la bellezza ancora viva, ancora fresca e non bruciata dall’istante che infiamma. Spirano i venti fra le stanze del vuoto che invade ogni luogo, villaggi nascosti, protetti da “infinite foreste” o città del regno dell’opulenza. Il cuore è pietra umana che si sta sgretolando, alcuni credono “nel sasso d’oro” della parola indistruttibile vanamente. La sofferenza non ha tempo, danza con passo di morte. Il nostro corpo è “l’esilio nell’indicibile” che spazza via ogni cosa, ma fino a quando?

Venti che materializzato i sogni, “nell’attacco della morte”, mentre gli attimi spasimano, senza trovare congedo, le onde “della pattumiera del mare” che distendendosi ci fanno intravedere l’origine, in una visione dove ogni cosa ritrova la propria dimensione quasi pacificata. La metamorfosi giace sepolta, le storie antiche “consigliano” come “zolle erbose in autunno”. La disperazione dell’intimo cuore, la preghiera che sostituiamo alla poesia riesce ad obliare la condizione umana, ma fino a che punto? Venti che portano via il meriggio e “il ronzio delle menti inquiete”, che ci fanno percepire “il sottobosco dei giorni andati”, mentre il sangue scorre oltre “la frattura del cuore”.  Parole scritte con lacrime “nere d’inchiostro” si fanno anima in secoli di storia. Viviamo la vita e “ci portiamo la fine non solo nella carne”. Noi “che alla data di oggi dichiariamo che la nostra storia è completa”, ma non è ancora giunta alla fine. Il cuore vuole ancora immaginare, è ancora abbastanza grande, mentre giace nel vuoto “come uno scoglio” saluta le onde tempestose nel buio “amico della notte”. La carne si consuma nel fiume dell’eternità, la lingua non esaurisce la superficialità, questa breve durata dell’esistenza che evapora nel foglio dell’ultimo verso prima di morire. La carne si consuma, svanisce nel fiume dell’eternità, nell’ infinita corrente del non essere? Quale poeta può rappresentare tutto il dolore su un foglio di carta stracciato, che si ricompone nel filo dipanato in un labirinto. Venti che ululano per avvolgere il riverbero della luce, portatori di pioggia insieme al continuo tormento del cuore, esplodono in una canzone innocente “su una foglia inviolata”. Venti che viaggiano su foreste vergini, sui rami distesi degli alberi e i cespugli del deserto, ora fogli di carta e testamento dei mortali, si lamentano e piangono, come un ronzio di cicale nelle notti d’estate. Perdono vigore nel tempo ma ancora non sono consumati, mentre soffiano sulle “ossa esangui” corrose da tempo immemore. Si potrà mai spazzare via l’amore o “l’idea dell’amore” definitivamente in questo regno di transizione? Il nostro cuore non dovrà più cercare se stesso, la passione è effimera, evapora con il tempo, rimane la parola, siamo “detentori di una transizione”, forse il cuore è troppo grande per le cose del mondo. Nel momento finale della vita le ore “delle ceneri” si adagiano in un moto vorticoso nell’ultimo porto per riposare. Venti che come bassa marea prolungano la pena, dov’è “il detentore del dolore”? Venti che si allontanano dalla flebile “illuminazione” e scolpiscono “le nostre carni” di anima e le fanno giacere folgorante dal dolore, la separazione avviene di continuo e le persone amate “quando non sono lì “vuol dire che non ci sono”.

Le essenze dell’arte sembrano essersi obliate per sempre. In esse scorre la linfa essenziale dell’esistenza, “come il fiume al pescatore, la foresta al guardiano”. Noi umani brancoliamo nel nulla, abbiamo perso la casa dell’essere.

Il vento soffia sulla ricerca senza stelle, sull’annullamento del senso dell’essere, sulla dimenticanza dell’umano. Ormai non sappiamo più dove andare, non ne abbiamo idea. Siamo soli come “ciottoli smussati nella cavità della terra”. L’anima in questo regno del nulla non dovrebbe essere svanita? Sale un grido di dolore dalla poesia profonda di Chi Trung. È fiume alluvionale che spezza le ossa, giunge fino all’intimo cuore.

La società consumistica sta distruggendo le risorse della terra per produrre all’infinito, mercificando la bellezza. Non abbiamo occhi per guardare il piccolo fiore, desideriamo il massimo e non il minimo. Siamo costretti a crescere.

È il meccanismo della convergenza della nostra vita fino alla fine, se non si conclude prima con una guerra atomica che è più vicina di quanto gli esseri umani possano immaginare.

Chi Trung tesse dei versi di consistenza universale in Venti n. 39.

Venti n. 39

Venti che rapidi andate via dalla

nostra illuminazione di breve durata,

che per lungo tempo dimorate con l’infelicità,

e incidete la nostra carne di anima 

lasciandola sanguinare

Quanto sono vicine le cose!

All’inizio, nella precedente unione iniziò

la separazione che continuamente diviene

E le persone, amate e non amate,

quando non sono lì,

significa anche la mia assenza?

E l’assenza di chi tiene alla terra,

segue l’assenza della poesia

Descrive la bellezza dell’illuminazione umana che è di breve durata. Dimora nella nostra infelicità, lungo la nostra carne “facendola sanguinare”. La separazione diviene continuamente. Quando le persone non sono presenti nella nostra esistenza, abbiamo la sensazione di non vivere, di fluttuare nel vuoto. Quando non percepiamo la presenza di chi ama la terra, la poesia è assente. Sono versi universali che s’ispirano a Pane e Vino di Hölderlin.

Heidegger ha versato fiumi di inchiostro sul significato della poesia in questo tempo di povertà. Solo alcune volte siamo capaci di sopportare la pienezza della vita. Il nostro essere erranti ci porta gioia in pochi istanti di grazia, mentre il dolore ci rende forti nella nostra bronzea culla. Bisogna avere il coraggio eroico nella sacra notte, essere capaci di abbracciare  e accendere ancora la miccia alle stelle.  È meglio il sonno che stare senza compagni. I poeti sono come sacri sacerdoti di Bacco. Sanno trarre di terra in terra nella notte, nella morte sacra. Senza amore è dedizione per la vita, la poesia si svuota di significato. In questi versi il poeta tiene viva nella poesia la fiamma dell’amore per la terra. La poesia è vino e pane di vita.

Chi Trung si pone domande metafisiche profonde, si chiede se i venti hanno il potere di spazzare via l’amore, la concezione dell’amore interamente e definitivamente dal regno dell’esistenza.

Il cuore di sangue è effimero, noi siamo solo “contenitori di transizione”. Essere consapevoli che siamo di passaggio, ci radica profondamente in un umano intimo cuore.

La tristezza è la sua compagna fedele, ma in essa il suo canto si fa infinito, ha una chiarità potente che viene scolpita nelle parole.

Nella realtà nichilistica contemporanea non si può parlare di dolore, di malinconia. Ma Chi Trung ha la consapevolezza che la vera poesia nasce dal cuore umano, dilaniato sulla terra sotto un cielo colmo d’indifferenza. Senza sofferenza i versi seguono solo mode che non entrano nell’intimo della vita.

Oggi regna il pensiero primitivo postmoderno, è essenziale e non ha niente da condividere con le vie dell’arte.

I venti passano “come in furioso assalto”, a volte tuonano, altre volte esitano, sembrano incalzare impazienti in una nuova terra, dove il tempo non c’è più. Trovano malinconicamente rifugio in tempi andati come “un’onda-dilagante bassa-marea che non finisce”.

Dove ha dimora la detentrice del dolore, avvolta dalla veste dell’invisibile… Viviamo continuamente nell’attesa del domani. I Venti soffiano “sul cuore diventato impassibile”, oltre l’equanimità con la quale guardiamo alla perdita di noi stessi. Quella stessa equità che ci tiene in vita, ma non ci fa vivere. È il distacco dal fiume che scorre, è la dimensione che porta nel suo grembo il mistero che avvolge l’esistenza. È il terzo occhio dell’illuminazione versato sul mondo, porta lacrime e gioia, dolcezza e vento sui frammenti dell’esistenza che ritornano allo splendore primigenio. È la visione prefigurata nel ritorno all’essenza che si disvela, in una dimensione di chiara nostalgia.

Tale bellezza non è in sintonia con l’arte, ormai si sono perse le vie della bellezza che si rivela.

La cricca dei poeti pensa solo alla gloria, ha perso la dimensione del ringraziamento.

I venti soffiano sulla riva della dimenticanza, dell’impensato. Spesso si adagiano le piccole foglie dell’albero di tamarindo sulle antiche strade, ritornano i tempi di ere che non possono essere obliate.

La vita deve essere rigettata dinanzi alla poesia? O la poesia dinanzi la vita ora? Pessoa ha rinunciato a vivere per il suo canto di Orfeo. La nostra vita non è unica, Chi Trung supera la logica del possesso quando ci invita a gettare le nostre esistenze al vento.

Il poeta chiede ai Venti di insegnarci ad amare la morte. Sono il respiro del su e giù di palpebre che non sono più. Ci danno la dimensione tangibile dell’eternità, oltre “le vite che non vogliono finire”.

Cosa sappiamo dell’esistenza o della non esistenza dell’anima. “Forse è solo un morbido profumo, appena percepibile”. Noi “gli auto-inquietanti”, possiamo percepire nel nostro momento finale della morte, in una sfera di vicinanza e lontananza, “nuvole di gas che diventano carne! Materiale che diventa vita!”.

Il suo stile è unico, il poeta nazionale vietnamita Bui Giang lo aveva intuito, pubblicamente disse che Chi Trung è il più grande poeta vivente. Tale apertura mentale è affascinante. La terra inviolata si porta il dolore e i fiori del tradimento dalle origini. Le foglie prendono il volo per perdersi l’una nell’altra, senza ragione, senza sfiorare la terra e la pietra. La meta dov’è rimasta e il fine dove è andato. Sentire il dolore dell’altro in un volo che ci porta dove. Donarsi l’uno a l’altro è troppo o non significa nulla. Sono versi che incarnano in modo forte l’essere di questo umano morire o rifiorire alla vita, in una dimensione che viaggia sul limite, al punto zero di Kierkegaard. Su quel filo immateriale “lasciamo cuore e intelletto svanire in cenere e carbone, con la dovuta devozione”. La nostra mente ha debiti ineluttabili, poiché abbiamo obliato la bellezza primordiale della terra, a causa della sete di potere e di denaro inesauribile nell’essere umano. Abbiamo perso la direzione, non sappiamo più qual è il dove, il quando. La sua anima si trova a cospetto di se stessa, la tristezza si trasforma in lava incandescente che spacca le pietre fino al cuore del mondo, con la morte negli occhi. L’arte universale deve far memoria di tale profondità, l’essere non può obliarsi negli inferi, dove giace sulla nuda terra nell’indifferenza. La nostalgia è una caratteristica delle anime celestiali mai paghe di se stesse. Le dita del vento corrono sulle rive dell’ignoto, diventano sogno materializzato. Tale tristezza è creatrice del fiore universale della poesia. Il possesso si scioglie nel suo spirito, oltre l’anello della carne. Nei suoi versi il cerchio dell’usignolo si compie in una unione fra cielo e terra.  La sua sensibilità s’infrange nella sofferenza e trabocca dall’orlo del cuore. La sua voce rompe il marmo freddo dell’esistenza per trasformarlo in un magma di luce nel buio. Trasforma la tristezza in quadri, le emozioni si stagliano con la morte nell’illuminazione del momento finale della vita.

Chi Trung coniuga l’alba orientale con il tramonto occidentale sul filo della rinascita, in una sfera inviolata che giunge dalle acque sacre del Gange. Sono versi che arrivano da lontano, dai luoghi santi del Vietnam come il vento delle vette intoccabili, inafferrabili come il mistero della vita. È una poesia forte, vera che nasce dal dolore lacerante del popolo vietnamita, distrutto dall’inferno sulla terra, dal suicidio collettivo degli esseri umani immersi nel fenomeno storico Medea. Il cielo dilaniato perfora e trafigge il suo cuore di bambino e si fa poesia, lacerato dalla stagione dei monsoni, dalla morte dei suoi compagni di classe in Vietnam. Il buco nero della guerra risucchia la dimensione esistenziale dell’essere umano contemporaneo. Tale dolore è di una tenerezza e di una bellezza indescrivibile. La sua poesia è giunta nella mia esistenza in modo forte, essenziale, come se il cielo avesse voluto così. Il confine fra la morte, la vita, il dolore si coniuga nell’insondabile bellezza della tristezza umana che tiene per mano la morte, che evapora con forza infinita nella vera vita. Versi preziosi, misteriosi, vivi, capaci di legare il cuore, la mente e lo spirito. Saper morire a se stessi è un segno di amore per la vita, solo pochi riescono a farlo. Alcune volte si può temere il potere della luce, la poesia può accecare le emozioni forti, le ali del cielo sono pesanti da sopportare, come il dolore umano che si consuma silenzioso. Chi Trung vive in attesa degli occhi della poesia, nel vuoto, nel non essere, anche quando le vie essenziali dell’arte sembrano scendere negli inferi. Questi versi liberano il cuore dal possesso in una luce che non acceca, scavano un ponte ai confini dell’infinito.

La sua poesia si fa cielo nel vento e scende negli occhi come fiume che tiene il dolore sul Golgota, nel meriggio della solitudine, nel silenzio. I suoi versi in una follia d’amore si fanno usignolo in un canto infinito. Come sole che non muore si alzano i venti del cielo. Entrano nella mente come tempestoso mare. La morte rompe il marmo d’oro dell’ombra che si scioglie nel richiamo inviolato della vita. Solitudine trafitta di luce nell’origine silente dell’infinito. Il dolore si fa fuoco in un raggio inquieto, senza pretese e con le mani tese nel mistero. La morte frange gli occhi con la forza del veliero del sole. Le ossa dei morti trovano dimora nel cuore dove il sangue gronda e si fa gioia immortale di rosa, si porta il dolore nel comando del tempo.

Il sole alleato del buio trafigge di cielo il delirio del comando che si annulla nella sua poesia. Versi di una realtà immateriale, vivi nella tristezza della luce in At The Behest of Noon.

Come vento il dolore si fa abbraccio affamato di luce.

Come libellula fra i prati il braccio della morte si fa orizzonte, la poesia si fa rugiada nel sole. I suoi occhi attendono la benedetta elegia del giorno, quando le foglie si attaccheranno di nuovo ai rami in un vento senza tempo. La sua poesia sa tenere il gioco della parola sulla filigrana della vita, dove la fiamma s’infiamma. La sua notte tramonta di morte in un dolore assiso nel sole. Sono versi che hanno per me un valore quasi sacro, pieno di mistero.

Hanno il volto di una bellezza mai paga di se stessa, non è di questo mondo. Sono gemme preziose, capaci di far scendere  lacrime di cielo nel cuore.

Il mistero si svela alla materia nel vento, va oltre il Porto sepolto di Ungaretti. Il segreto inesauribile non si rivela in una dimensione classica nella discesa degli inferi, diffuso nell’Eneide fino alla Commedia di Dante. La poesia di Chi Trung non è solo il compimento di una illuminazione iniziale che permette di svelare l’ignoto. La casa dell’essere di Heidegger si rivela attraverso il dolore universale nella sua dimensione inviolata, lo porta senza pretese, nel comando della luce, che regna in una dimensione forte nel saggio Sugli errori popolari degli antichi di Leopardi e in Petrolio di Pasolini. Alza il velo dell’oblio oltre ogni possesso, perdendosi nel vento, nella carne della vita. Il sacramento della luce si fa essere senza dogmi nella sua poesia immortale, nel suo canto senza frontiere. La fede, la speranza, la carità dei versi di Dante si elevano in Chi Trung nella bellezza immateriale e nel soffio vitale del vento che non finisce. La sua poesia si fa ignoto in un vessillo piantato nell’eternità.

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