DAVIDE URIA, Trame d’assenza

Tra i rami e le nuvole

 

Se mi cerchi

sono tra i rami

e le nuvole,

a disegnare

una nuova e sottile voce

alle osannate utopie

assopite,

annebbiate dal tempo.

 

Vieni a cercarmi

domani

con la luce

di un giorno nuovo,

lontano

dai consueti luoghi

del rimpianto,

con gli occhi

di un bambino

per mietere

i frutti

di questi cupidi rami,

che si intrecciano

tra le dissipate nubi.

 

Se mi cerchi

sono tra le foglie leggere,

a misurare il vento,

a rintracciare

le soglie di questo

cupo inverno.

 

 

Falene

Nei tuoi occhi,

svelati dalla luce,

informi falene

blindano con destrezza

il mio sognante cammino.

Mi offrono un viso

dove l’impronta del Diavolo,

cucita sulla pelle,

ricama un folle potere

intriso di odio e raggelante passione.

Disegno la dimora

dei miei occhi

e il silenzio della tua voce

mi avvolge in un guscio roccioso.

Lentamente mi imprigiona,

in una bocca di fuoco mi lacera,

trafigge il mio cuore con struggenti parole,

crudelmente induce all’autodistruzione.

 

Il canto della monotonia

 

Sospiri riempiono le serate di inerzia.

 

Distanti e inermi nel mondo,

anche questa sera

le nostre braccia prolungate

diventeranno rami

che tristemente avvolgeranno

i nostri corpi

immobili e spogli,

simili ad alberi

affiancati su viali.

 

 

Nel mio paese, la morte

Ali d’aria

gettate nel fango,

decomposte anime

sul paese della rovina

in cerca di pasti

e frugali sentimenti.

Chiamami

sulla via dell’abbandono,

ho tra le mani

una serie di astri,

stelle di elementi nocivi

che danzano sulla morte.

Fiumi di seta

sfociano nei mari,

come capelli di Diavolo

affliggono e disincantano

silenziosi utopisti.

Svegliami

sotto le artiche montagne,

ho nelle membra

miseri tesori,

ricordi sfocati

simili a sfere di lacrime.

 

(il male)

 

(la mia mano è un fiume

che sfocia attraverso le dita

nel tuo mare di sangue e di fuoco.)

 

 

L’ attesa 

La luce del giorno

svela l’effimera sostanza

dei miei occhi.

Supremo al mio cospetto,

un monte si erge

come un’elevata muraglia

Giunge con una gelida coltre

la stagione invernale.

Un soffice e candido tappeto

ricopre il sentiero,

atrofizza parole.

Parole che sfuggono

tra le graffianti mani,

parole dimenticate,

oscurate dall’oblio.

Vorrei che la notte

accolta nel silenzio,

mi stringa nel suo algido abbraccio.

Perduto,

rimembro alle fragili attese

di ogni tuo sguardo.

Ho colto l’immenso, l’eterno, il soave,

lo stupore della mia amarezza

di ogni tua mancata carezza.

Terra, genitrice funesta

sovrana dell’indigenza

rendi il mio spirito

Imperatore del vuoto.

E soffro, verso umido dolore

un fiume che traccia,

con macabre sfumature,

uno sgradevole

ed insanabile tormento.


 

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