DARIO ZUMKELLER, Precari in domotica


DICHIARAZIONE DI POETICA

Lev Trotsky diceva che la vita umana ha significato solo nella misura in cui sia posta al servizio di qualcosa di infinito. Ciò che dovrebbe piacere della vita è proprio questo porsi verso l’infinito. Ma che cos’è l’infinito? Invece di parlare di infinito, non è meglio parlare dell’indefinito? Perché  la vita materiale e spirituale si dirigono verso un qualcosa di indefinito che non conosciamo o che è più grande di noi. Allora nella vita tutte le nostre azioni e i nostri progetti sono importanti ma allo stesso tempo nulla ha un senso, perché poi tutto verrà lasciato per l’indefinito che è speculare all’infinito. Per questo, molte volte, non bisogna prendere la vita con eccessiva serietà. E la poesia? La poesia è una cosa seria? Direi di sì, anzi, la poesia ha bisogno di serietà e rispetto. Innanzitutto, la poesia non è una cosa semplice. Fare poesia vuol dire sempre mettersi in discussione, fare continua ricerca e studio del proprio stile linguistico, imparando e assimilando da ciò che gli altri poeti del secolo scorso hanno scritto. Essere poeta è una forma di resistenza perché siamo emarginati dal panorama culturale e minimalista dei tempi di oggi. Questo perchè la poesia non vende, non crea profitti, perché  l’unica cosa che conta nella nostra società è il mercato. La poesia come forma d’arte, come crescita interiore, spirituale e culturale è finita. Il poeta riassume nella sua vita tutta la precarietà materiale della vita e deve combattere contro il declassamento antropologico dell’umanità che ha gettato non solo la poesia, ma l’arte in generale, alle ortiche diventando in molti aspetti un fenomeno da baraccone. C’è chi pensa che per essere poeta basta svegliarsi una mattina, prendere la penna e con un foglio davanti scrivere quello che gli passa per la testa. Invece la poesia è una grande fatica. Per saper suonare bene uno strumento musicale ci vogliono ore ed ore di studio e di pratica. Lo stesso vale per la poesia. È prima di tutto conoscenza di se stessi e nel lungo percorso di conoscenza, insieme allo studio storico e letterario della poesia, si potrà tentare di realizzare delle immagini poetiche attraverso le figure retoriche (anche con l’utilizzo associato di suoni musicali in sottofondo come i dub poetry giamaicani)  che non devono mai essere eloquenti e definiti. La bellezza estetica della poesia è proprio nella sua incompiutezza e nel suo non dire; la capacità di creare un disegno con i versi che possa essere visibile anche al lettore/ascoltatore. Ancora meglio se la poesia non avesse più i versi, se non fosse più scritta e orale, se la poesia del futuro fosse fatta solo di immagini in movimento, di gestualità ed espressioni mute, di suoni, di rumori, di profumi e di cattivi odori. Sarà così la poesia del XXI secolo? 

 

*

Sono morti gli astri in questo stagno,

son caduti dal paggio con i passi in ostaggio.

 

Misero languire di rantolo stelvio,

e i giardini sprangati su carezze di fango.

 

Ben allestite le bare spiaggiate

sul trenino di Sabato con la divisa di fabbrica.

 

Tetri, spenti, le chiese di merci,

di un’Africa gelida, un’ayahuasca di chierici.

 

Non conoscono le bare lo strappo della terra,

il farsi mendicante da un furgone di afta.

 

E mangiare la iuta nel selciato dei templi

chiedendo dell’acqua a una puttana cadente.

 

Sostare sui fossi, le minerarie bellezze,

e le percussioni di alloro, di stemmi e ribrezzi.

 

Ci troviamo riuniti tra gli inglesi proficui,

con i nostri dialetti, fra le rocce di ortiche.

 

Con la miseria si paga per gli sbagli di scelta,

non volevamo solo l’aria impiattata e disunta.

 

Ma cinguettano gli oracoli luminosi alla mano,

per coloro che cercano e non sanno che fare.

 

Siam frutti marciti sputati dai vermi,

che vanno lontano a lavar le padelle.

Perché per lavorare oggi serve una cosa,

un’iniezione di estrogeni alti a iosa.

 

Che sanno rivendicare il loro gender con grido,

ma lo prendono nel culo nel giorno di paga in silenzio.

 

E non servono i club di uranisti convinti,

ci sono i call centre a renderli vivi.

 

Eh! Poveri diavoli i trentenni solenni,

scadenti, deprimenti, impazienti e negligenti.

 

Bare mature di gialla pisciazza,

abbiam perso, esigiamo l’erranza.

 

*

Non vola nell’organza

il mio cuore di mozzo

vestito di bitume di pizzo

 

e sull’albero del rosario

sporco di sesso

c’è la disfagia della vista

la disfagia dell’aria e del tempo

che sbrana il ventre delle ombre di goccia.

 

Polline di rame

fibre scolpite

mandate un canto di runa appassita

stipate il grimore al sigillo recinto.

 

Il canto dispiana nelle notti acciaccate

quelle voci irlandesi

profumate di terra

di signora dipinta di grigia eminenza,

mi lavano il capo

e lo sterno ammaccato.

 

*

Dall’alto dell’aereo la terra è un’eruzione di gioielli,

e noi siamo pulviscoli che aspettano lo sprint dell’amplesso

o di un petting cosmopolita

per diventare come monete sorde di una mancia distesa sul tavolo.

 

Dall’alto dell’aereo la terra cancella i suoi sintagma marci.

 

*

Dimenticarti nei mantelli di facciata,

candeggiava dove scivola e si accascia

l’immaginazione santuaria in battaglia.

Nella marmaglia si spegneva

nella corrida senza tori

tra zerbini stranieri con lauree di paglia

venti viaggianti ornati senza aspetto.

 

*

Cosa altro c’è lì?

Lo smottamento delle giunture di buio,

voli di angioli.

Un fischio malato ricade sui piedi bruciati,

voci di aiole.

E frutti ispidi crescono e ricrescono.

 

*

Le cipolle non fanno più piangere

Sono state sanitarizzate e ospedalizzate nelle tende di fortuna

Bruciatele con il napalm!

<< Roger, Sir! >>

 

Alla radiotrasmittente il soldato “dona-budelle-allimpero”

Appollaiato sul coleottero ferroso con la croce di S.Andrea a rotazione anti-mai

Ordine! Decifrare manoscritti pre-umani.

Quando?

Camerati

Macerati

Ricamano

Accumuli

Di marcie

Arcuate

 

E nelle mattine già morte la biosfera si sveglia in frammenti sepolti nella fogna.

Prudenti o provvidenti

le pietre hanno le vene, le ossa, le orecchie, custodi immagazzinatori millenari di misteri dilettuosi.

Basta prenderli e poggiarli sul viso per sentire lo strato rigonfio dei loro polmoni,

lo sfregamento giamaicano danzante dei corpi,

e invece, Parola d’Ordine: Domotizzare!     <<All right? >>   << Yes, Sir >>

Domotizzare gli impianti della casa

Domotizzare le gambe quando sei stanco di camminare, o i grattini sulla schiena.

Domotizzare quando ti masturbi senza voglia o caghi seduto sul cesso senza più spremerti le idee.

Domotizzare è come sodomizzare, e lobotomizzare è come invandrare (immigrato in svedese)

Oh sorry! Volevo dire sterilizzare come gli svedesi facevano con certe persone in passato

<< Roger, Sir! >>

 

Niente più fa piangere se la vita è teatro NO

e le ghiandole lacrimali manipolate geneticamente sono inattive.

Ma la domotica con una tastiera di pulsanti apriranno le maschere di ceramica

e le lacrime scenderanno solo nel momento che serve.

Cioè quando?

Camerati

Macerati

Ricamano

Accumuli

Di marcie

Arcuate

 

*

Il colombo zoppica beccando le rasoie degli istanti

e il pane rancido storpiato dalle labbra dei roseti,

dagli occhi impiccati di una donna

con le unghie smaltate più grandi della sua età.

 

Si accovaccia il colombo

sulle pozzanghere dei rimorsi vomitati

sui marciapiedi di isolamento umano

di risaie decadenti e asciutte.

 

Quella tossica strafatta raccoglie le sue piume

per un cunnulingus di veemenze da stagliare.

 

*

Quando mi tolgo gli occhiali

vedo una pianura di catrame e

pietre enormi a forma cilindrica con

sopra quattro piccoli uomini

quanto il palmo di una mano attorno

ad un fuoco infreddolito.

Tra queste pietre, una massa di rumori in cammino

sotto un cielo fil di rame.

 

Quando rimetto gli occhiali

vedo una tv a colori e

una famiglia allegra che fa colazione.


Biografia di Dario Zumkeller


 

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Una risposta a “DARIO ZUMKELLER, Precari in domotica”

  1. Condivido pienamente questo articolo. Il mio commento lo lascia con questi miei versi .Cordiali saluti

    CI PROVANO IN MOLTI

    Ci provano in molti ad oscurarti nel silenzio
    dell’ombra con profumo di rose in bocche
    di fiele, lo spirito e la carne si contendono
    la piazza, al belato dell’umile capra si oppone
    la voce di chi si fa padrone del cuore.

    Ci provano in molti a soffocarti con parole
    che parlano di nulla: il sorriso disumano
    che sorride sorrisi tra vie oblique d’inganno,
    nani che diventano giganti, ulivi saraceni
    che colpiscono il viandante con frecce di faretre
    nascoste sotto ruderi solitari che sfoggiano sapere.

    Il poeta è un folle che gronda sangue d’insulti,
    una bandiera senza seguito in una terra a brandelli,
    l’inutile stolto che mendica la diafana luce
    percorrendo fosche montagne per scontare il calvario.
    Il mormorio del caos dorme nelle cimase dell’anima
    ove nessuno può uccidere le folli falene.

    Ci provano in molti a serrarti la voce nelle stanze
    delle magie e del disordine, dove corvi e volpi
    preparano la nostra via crucis e lenta scorre l’agonia
    che tenta di condurci sulle orme del Getsemani.
    Il poeta è un reietto, sconta la lebbra delle sue parole,
    in solitudine versa olio sulle ferite dello spaesamento
    in attesa del Folle, per tutti scandalo e stoltezza
    ma in grado di aprire la tomba sepolcrale del cuore.
    Domenico Pisana
    30 MARZO 2018

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