DANIELE REFERZA, Come all’origine dell’aria

Appena si apre un libro si entra in un mistero: come se fossimo spinti dal vento, qualcosa ci muove in una nuova storia, in un nuovo incontro. La pagina che prima era bianca, ancora prima era semplice carta, ora è scritta: il foglio ha accolto la parola, ha cercato, a suo modo, di concederle spazio, di essere ospitale. La parola viva, il verbo, si è prestato a questa scrittura, ha raccolto se stesso in un guscio grammatico e si è donato alla storia.

Nell’aprire questo libro, l’apertura stessa si è rivelata molto più profonda di una semplice lettura di un testo. L’ho letto, si certo, l’ho riletto anche, ma è successo altro. Filippo, accanto a me, mi dice: “Leggimelo”. Ecco, mentre leggevo, il libro è diventato altro. Leggevo il libro al suo autore, o meglio: leggevo il poema al poeta. La poesia in un attimo aveva dato se stessa all’ascolto e si era liberata dall’affanno dell’inchiostro, come albatros fuggito dal mare nero. Come all’origine dell’aria è arrivato così.

Ci sono delle poesie che creano colori e spazi ampi, altre che portano suoni e tempi dalla vastità della vita… poche, in verità, sono quelle che specchiano la nascita ed il mistero dell’esistenza nella preziosità di un soffio leggero. Quando si incontrano questi versi nel costante bilico funambolico della nostra quotidianità, l’impatto è dolcissimo: si legge, nella parola, un tratto che l’occhio non vede e che spiazza, ci si ritrova disarmati e piacevolmente sorpresi dalla semplice complessità di una trasparenza. La sezione “Tu che sai”, anello di un cerchio che unisce l’evento de “Gli Incendi” al cuore delle “Figure senza erbario”, rapporta nel suo centro gli echi di queste ultime due: qui il tema è la Madre, la madre attesa fin dalla nascita. Qui, nell’attesa che è “dilatazione”, nei cenni e nelle trepidazioni di un’orma sfuggente, il dolore cerca la sua congiunzione ed anela ad un compimento. Questo luogo è il fulcro, il deserto che schiude altro:

La mia attesa di te è dilatazione
del frammento superstite del cuore.
Nello slargo improvviso cede il margine
si assottiglia la difesa, si apre il cosmo
attraverso le minuzie del guardare.
Piccole cose, delicati spaventi
e come una certezza segreta
che viola l’incubo, che riempie l’incavo
e dentro la terra bruna trova riposo.

 

La poesia è un’opera di solitudine, in primo luogo perché opera la solitudine e poi perché può nascere nella solitudine di ogni uomo. C’è la poesia alla nascita, un poesia nascente che riporta tutti noi alla profondità della vita ed al suo mistero, alla volontà di vivere ed alla necessità degli altri. Dalla solitudine della sua esistenza il poeta porta allo splendore della luce una parola per tutti: dalla notte tenebrosa della sua anima nasce il soffio della speranza comune. Per questo, come fossimo all’origine dell’aria, come fossimo in fasce, la solitudine è il memoriale del passaggio dalla morte alla vita, è il testamento della resurrezione.

Nella poesia di Filippo, nella buona ricerca della figura essenziale, “senza erbario”, senza catalogo o sistema, il passaggio del deserto è l’attraversamento esistenziale di una lacerante mancanza materna, di un calore sempre cercato ed atteso. Questo errare che per amore dell’amore si fa errore, suppone, presume, spera contro ogni speranza, corre al miraggio, sposta le lancette del tempo e prova a cavalcarle, è il significato della vita al di là di ogni significante. Sì, perché la poesia non porta ad altra poetica che all’esistenza stessa, a quella vita che anela all’origine e tende al compimento: la madre che ciascuno porta nel tessuto del suo esserci qui-ed-ora sporgente verso l’eternità.

La Parola in questa poesia trova finalmente la sua figura, il suo riferimento certo e saldo, l’origine del fuoco: Dio. Come scrive il profeta Isaia: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66, 13). Egli si manifesta potente in modo tutt’altro che astratto, perché la prassi di Dio nella storia è l’evidenza di un’orma lasciata nel bianco terreno innevato:

Vorrei che si capisse che è per grazia.
La pagina fu tramite fiorito
del respiro e non altro. Solamente
nell’alone del transito si illuminava.
Oltre e durante ci segnava un vento
che leviga le pietre, un’acqua dolce
che dà forma alle cose.
Io lo dicevo come il dito indica.

 

Un matrimonio spirituale, così si potrebbe vedere questo libro. Un sigillo che corona una lunga e bellissima storia facendo promessa di amore duraturo e appassionato, donato in eterno: un fidanzamento cantato per molti anni e proteso nelle sue direzioni sia archeologiche che teleologiche, nella ricerca dell’origine e del compimento. Oggi, si potrebbe dire, il cerchio si chiude e si ricomincia dal fuoco dell’incendio per arrivare a quella Figura che, come Padre, ha amato la sua sposa fino a morire per lei, Madre, nel Figlio; fino a darle, fino in fondo, nella sua possibilità originaria, la libertà di amare e di risorgere in un tempo nuovo:

Non sapevo
delle fessure che concede il legno
(l’aria vi penetrava per spifferi
insospettati).
Non sapevo che le parole
giocano sulla carta come bambine.
Il pianto copriva le zolle,
i fiori brillavano dietro la porta.

FILIPPO DAVOLI
Come all'origine dell'aria

Introduzioni alla lettura delle tre sezioni, rispettivamente, di Lucia 
Tancredi, Gianfranco Fabbri, Andrea Ponso

L'Arcolaio ed., 2010 (poesia)
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