GIORGIO MOIO, «Continuum», tra avanguardia e “disoccupazione mentale”

La sigla continuum, presentandosi ai lettori con un comitato direttivo di valore (Luciano Caruso, Giuliano Della Casa, Mario Diacono, Stelio M. Martini e Mario Persico) appare per la prima volta sul numero 5-6 di «Linea Sud», impiegata da Caruso e Martini, accogliendo un’indicazione di Diacono 1, per dare un titolo ad un’indagine sulla poesia internazionale. Il gruppo e la rivista «Continuum» (foglio a redazione collettiva con interventi di M. Caesar, R. Carpentieri, M. Bulzoni, L. Caruso, F. De Filippi, G. Della Casa, G. Desiato, M. Diacono, L. Marcheschi, S. M. Martini, M. Oberto, M. Persico, F. Piemontese, G. Polara, G. Ricci, P. Vicinelli, E. Villa, F. e S. Visco) che si fregeranno dell’egida «Continuum» nasceranno poco più avanti,

«fra il ’66 e il ’67, dalle ceneri di precedenti esperienze dell’avanguardia artistica (pittorica, soprattutto) napoletana. Con uno spessore culturale e una capacità di riflessione ed elaborazione teoriche, imparagonabili con le esperienze precedenti (e anche, ahimè, con quelle successive) e in stretta correlazione con quel che di più avanzato si faceva, in quello stesso periodo, in Italia e all’estero» 2.

Ogni azione d’avanguardia prodotta a Napoli, si avvale del contributo teorico-creativo soprattutto di Luciano Caruso, individuando lo spazio del fare “fuori” della grande società che una disoccupazione mentale 3 pone come rottura, scarto di un non-luogo, procedendo

«al rigetto-disgusto della biografia personale ovvero della memoria, intesa come forza dell’esistente, e sottraendosi con violenza alla logica monomaniacale del potere. Così, non meraviglia che “la disoccupazione mentale” sia nata a Napoli [e l’avanguardia di quegli anni, aggiungiamo] in una città in cui contraddizioni e deficienze storiche, sterilizzazioni di idee sono più evidenti, in bilico com’è tra residui medioevali e neocapitalismo, tra velleitarismo e acquiescenza interessata della classe dirigente» 4.

Tutta l’azione del gruppo  «Continuum» si iscrive nel netto rifiuto dell’ufficialità per aprirsi a un realismo non volgare. Agli epigoni di una letteratura effimera, di poetiche fanciulline di ritorno, si preferisce il fuori dall’autobiografia e dalla cronaca, ovvero dal luogo comune (il mondo) che ha deteriorato l’oggetto estetico: non resta che il gesto mentale rivolto a negare i ruoli, gli specifici, gli spazi delimitati della poesia o come funzione del sistema. Il luogo degli incontri e della progettazione dei sei fogli di «Continuum», è «Il Convegno», una ormai inesistente libreria di Piazza Municipio. In questo luogo si realizza di tutto: sul piano teorico, tutte quelle idee che contamineranno non poco altri gruppi, in veste di visiting editor, un’attività teorizzata in quegli anni proprio da «Continuum», riviste d’avanguardia italiane e straniere (dibattito sull’utopia, gesto poetico, l’eternità commestibile, indagine sull’internazionale situazionista, idea per una storia dell’off (Kulchur), metalinguaggio come irrazionale, il problema del limite, poesia lettrista e poesia sonora, antiscrittura, cinema sperimentale, citazione del corpo, libroggetto e poesia-oggetto, l’antifilosofia, etc.); sul piano pratico, oltre ai già citati sei fogli di «Continuum», affiches, volantini, documenti teorici fatti recapitare a tutti i sodali sparsi per il mondo, i quaderni di «Continuum», i libri di «Uomini e Idee», presso Schettini, i 40 volumetti Pattern (Visual Art Center) di Caruso, Diacono, Villa, Henri Chopin, François Dufrêne, Pietro P. Daniele, Eugenio Miccini, Pierre Vandrepole, Felice Piemontese, Giuliano Della Casa, Stelio Maria Martini, Shimizu Toshihiko, Rolando Mignani, Jiri Kolar, Claudio Parmiggiani, Giovanni Rubino, e i Lilliput presso Colonnese, otto volumetti, alti appena 8 cm, prodotti in duecento copie, assemblate a mano dallo stesso editore e curati da Caruso. Sul piano operativo e della realizzazione

«tutto doveva essere ricondotto ad un unico tempo; dal momento che il lavoro individuale, quando c’è stato, da parte di ciascuno, aveva cominciato a proporsi come inseribile, che avrebbe cioè avuto un senso soltanto se inserito e compenetrato nel lavoro di altri individui. Il processo della produzione, in tal modo, ha permesso di superare immediatamente ogni nozione di autore e di opera, per identificarsi sempre più con l’azione stessa» 5.

Il fuori, dunque, è la coordinata asintotica di lettura di «Continuum», e non è altro che una posizione periferica, di clandestinità e di fallimentarità – una lucida vocazione al fallimento, dirà Caruso –, un furore utopico eversivo degli schemi, in quanto l’esistente (la città) non è necessario, dove l’artista si sente come un separato in casa. Fallimento come unica alternativa? Pare proprio di sì, rifiuto di

«quella parte dell’uomo che è ragione. Ma il problema è anche di produrre cose che sia impossibile affidare all’industria. Se tutto ciò è utopia, non è detto che l’utopia non sia molto più lucida della ragione» 6.

Un pensiero collettivo di antiscrittura e un disordine poetico di artaudiana memoria che si avvicinano al caos, spesso realizzati «in un luogo altro dalla rivista, avendo superato le nozioni di “autore” e di “opera” [come si diceva poc’anzi], mentre il processo di produzione s’identifica con l’azione stessa ritualizzata e tiene anche conto delle singole esperienze, che sono reali solo in quanto inseribili nell’azione collettiva» 7. Ma la vera azione di «Continuum» è data dall’esaurimento degli strumenti adoperati, del compito della rivista e dello stesso gruppo, in quanto l’artista, auspice Génet, è come

«un funambolo, che esiste solo nel momento in cui si muove il filo» 8.

Aperti a un campo di ricerca sempre più ampio, a un cambiamento storico. Ma quali  atteggiamenti erano da evitare? La

«possibilità di fare riviste [ad esempio] che pretendano di essere mezzi di “penetrazione fra le masse”; […] bandire ogni equivoco derivante da atteggiamenti vanitosi e salottieri consueti ai pittori ed ai letterati in cerca di successo, […] evitare ogni confusione di discorso (e di comportamento) che […] passasse ad identificare brutalmente come politico il prodotto estetico»9.

Un vademecum ben ragionato in favore di una letteratura che preferisce l’intercodice di una verbovisualità alchemica e ipertrofica, grazie al contributo sia critico sia creativo di Luciano Caruso10 che ha il

«merito di mettere a fuoco gran parte delle attività poetiche partenopee […] gestore della sigla continuum […]: non c’è aspetto della sperimentazione [ma a noi qui interessa quello di poesia lineare] […] cui Caruso non abbia rivolto attenzione» 11:

ana/logon

avide                si cercavano              labbra

che / disse le spalle &              le sue

(compagne d’avventura)          il faut laisser

spasmodicamente   :   oh   prendimi

                    L’Eternità commestibile          :

la sua pelle        di velluto     e le mani    LE

MANI       che sfiorano      toccano

accarezzano

:  voglio tutta (e su               quella           le

labbra  non  si  stancano )  correre      ’mpa

zzire                          obli

tutto           a a a ad – oro          mia . . . mia.

espressione cambiata

euchiruslongimanusm.&f.

resisterti

« la fenestrella dove la monache e la fessur

a della grata talmente che non si possa per

esse nè fuor nè dentro »

                                             amore         (e

come potrei )

des deux voyelles sans élision        che mi p

iace                  in tutti                    i modi il

corpo             impazzire

voluttà              conosciute   (desiderio delle

colpe)          te

in   piedi     e  tutto    brucia    non  voglio /

non  /   voglio

                     simbolo         comunicare alla

donna     (certo)      fuoco passione

la  vita  senza  microbi  :  guastatori      (per

un nuovo veggente)

travolge se

la possiede con violenza VIOLENZA

tetrachacarolinalinnea

volto    tristezza                         mortale     :

ricomincerei

onde-pensiero             (violenza possente si

libra      involucro   / /   ancora  :

(da Chronica de Parthenope – 1965-1967, Libreria Palmaverde, Bologna, 1977).

Un vitalismo che produce sempre nuove idee, la capacità espressiva della lettera anche come semplice segno tra il primordiale e  l’esperienza linguistica che

«nasce dalla necessità di contrastare “l’ossessione del deperimento” (vedi, metodo di produzione, diffusione e consumo), che insieme all’avvento di un metodo solo apparentemente diverso (nozione di separazione) dal primo (produzione, ecc.), si può considerare alla base della realizzazione dei presupposti impliciti nella cosiddetta cultura, arte, filosofia, scienza, ecc. (leggi, alibi del padrone), risultato della libertà di morire, che l’ordine assicura con la larghezza e il virtuosismo dell’abitudine» 12,

scaturendo

«un rifiuto netto di ogni mito escatologico della fine della storia, perché questo nostro vissuto non si può definire storia, con tutto il suo carico deluso di aspettative programmate; il vitalismo, di cui si diceva, le impedisce, buttando e costringendo in una considerazione quasi immobile del presente […]  Ci si deve rifiutare di lasciarsi organizzare, e di preoccuparsi dei limiti impliciti nelle finalità di questo stesso discorso, distruggendo nelle proprie azioni l’accordo formale, che di solito sancisce il legame implicito in ciò che si lega. Si deve diventare coscienti della problematicità sostanziale, non solo della cultura, che sarebbe “normale”, ma anche dell’individuo storico» 13.

S’instaura in egli un’avventura scritturale fatta prevalentemente di aspetti visuali e materici, persino di libroggetti, una volontà di negazione, una “rivoluzione culturale” che anticipa i tempi e le sommosse del ’68 – limitandoci alla città di Napoli –; soggiunti da un nichilismo che rifiuta gli schemi precostituiti e unitari, forte della lezione di Nietzsche, Wittgenstein, Artaud. Lo confermano le sue opere sostenute da una continua ricerca di nuovi linguaggi, con la volontà di un “guerriero culturale”, come egli stesso si definisce, che lo hanno portato a promuovere e curare una serie di straordinari eventi culturali in una città abbastanza disattenta alle novità e incurante del proprio patrimonio. A partire da Il gesto poetico e le Tavole parolibere futuriste, è tutto un proliferare di scritti, all’insegna della ricerca,

«un ribadimento quasi maniacale del gesto che nasce da una disperazione autentica. E non si tratta tanto di una rettifica di un modo particolare di intendere e praticare l’attività culturale, piuttosto della cultura stessa» 14,

attraverso un plurilinguismo carico di citazioni, di lingue morte, che s’abbandoni al ritmo sovente smorzato da parole troncate d’improvviso, disposte sulla pagina bianca a zig zag, a blocchi, ordinatamente “disordinate”. Tutti “esercizi” di una scrittura narrante, anapoetica, di forti enunciati, vettori “incontrollabili” ed “inclassificabili”, alchemici e ipertrofici, un furore utopico, quasi barocco, un flusso-erezione di una parola inseribile – come già si è detto – in uno spazio problematico che contamina la struttura semantica del testo stesso, per dare un senso impreciso del paesaggio: la fregola di quantificare piuttosto che qualificare, viene definitivamente abbandonata al proprio misero destino. Il chiamarsi fuori dal non necessario esistente, non ha impedito, comunque, a Caruso di affondare le mani nella materia, di camminare sul suolo dove le sue idee operano, di toccare gli oggetti di tutti i giorni e trasformarli, lacerarli, spogliandoli della banalità, per un’apertura di una strada nuova, plurima-terica e plurilinguistica, in uno spazio asimmetrico “dell’istante” dove persino il semplice gesto di una mano rompe l’opacità, la ripetitività della vecchia scrittura, del vecchio logos, divenendo sempre più scrittura-oggetto, libro-opera, oggettivizzando la dimensione verbale.

Non v’è dubbio: la disperazione di Caruso è la disperazione di «Continuum».

«L’aria di fine del mondo delle sue creazioni, contrapposta al rigore delle sue analisi, lungi dall’esser propria della funzione saturnina e notturna dell’intelligenza e della sensibilità (come si vorrebbe secondo desuete categorie critiche) deriva dall’insanabile dualismo tra la ricerca disperata e sempre giovane del nuovo, non solo mentale, attraverso i ciechi tentacoli della sensibilità (che pure sono gli unici di cui disponiamo) e la lucida coscienza di non poterlo perché è troppo presto» 15.

Tra discussioni e prese di posizioni, battagliere e arcigne, Luciano Caruso dimostra di saper conoscere bene la situazione letteraria che lo circonda, anche quella sotterranea all’ufficialità: contribuisce alla riscoperta di esperienze letterarie e politiche troppo presto dimenticate (il lettrismo, la rivoluzione culturale, il movimento situazionista francese, il vecchio e nuovo Bauhaus, le ultime avanguardie, etc.). Esse, proprio perché lontane dalla razionalità e dai rapporti mercificabili e/o mercificati dell’esistente – sembra suggerirci Caruso – possono proporsi come elementi che giocano d’anticipo. Essendo libere dal rigore storico, possono allargare il limite imposto da una restaurazione ipocrita e fascista, spaziare in un campo mentale “incontrollabile” – appunto –, “fuori”… di ogni limite. Ma, a scanso di equivoci, è bene ricordarlo, predicando e affermando

«il rifiuto dell’ufficialità in nome di un realismo non volgare, […] dibatt[endo sui] problemi reali […], a cominciare dal rapporto fra arte, attività culturale e politica» 16.

Anche se fuori dell’esistente, Caruso mantiene ben saldo un principio basilare: non porre nessun limite al linguaggio. Si tratta di un’atassia che annulla i presupposti di un uso comune, esaltando il rifiuto assoluto del mercato in favore del laboratorio dell’antiscrittura dell’antifilosofia – temi molto cari in seno a «Continuum» –, l’anarchia del non/essere, del non/essere ragione, per non essere convenzione. E se spesso i fatti importanti non riusciamo a scorgerli, continuamente alterati dal calcolo delle tautologie, dal rafforzarsi dell’establishment culturale (rendendo vano ogni tentativo di riconoscere e interpretare la letteratura di quegli anni), i progetti, sia che essi orientino la risposta del pubblico sulla materialità del testo sia che pongano la dimensione del gesto violentemente oltre la contemplazione estetica tradizionale, non possono che preordinare il nulla, una lucida utopia che non è detto che non sia più lucida della ragione – come si legge ne L’eternità commestibile – o

«per tappe successive, una […] ribellione di fronte all’eterno ribadirsi […] dello scorrere oscuro del desiderio» 17

narcisista.

Ormai il fuori di «Continuum», sia pure importante, in una violenza istituzionale, in attesa di un mutamento, ha fatto il suo tempo, un tempo non consumato. La forte sensazione di solitudine culturale, di “inutilità”, induce il gruppo ad abbandonare “la scelta del silenzio”, una decisione che si presenta né come abolizione né come esaltazione della situazione circostante, che continua a presentare la figura del demiurgo, del profeta; bensì come analisi di essa, e si colloca nel bisogno – già soddisfatto in altri paesi – di unire gruppi d’avanguardia, uscire allo scoperto, scambiarsi le idee, rigorosamente nel rifiuto del mercato. Questa decisione trova in Felice Piemontese 18 un accanito assertore, il quale, nonostante abbia un ruolo secondario nel gruppo, è convinto della possibilità, anche in Italia, di proporre e

«stabilire collegamenti, visto che il compito da svolgere  è di tale portata […] perché ci sono ormai diverse riviste che si muovono con intenti abbastanza simili ai nostri. C’è il «Piccolo Hans», c’è «Pianura», c’è «Per la Critica», continua a esserci, come utile punto di riferimento, Tel Quel, nonostante certe chiusure recenti e certe ingenuità» 19.

Sulla linea di un rifiuto istintivo, con la consapevolezza che la scelta del “silenzio” non è più funzionale ad una letteratura d’avanguardia, non corrisponde più all’esigenza di farsi sentire dal sistema capitalistico culturale. Un bisogno solo di Piemontese, visto che Caruso ed altri avevano dichiarato la nullità dell’esistente?

«Si tratta di affermare, soprattutto, la poesia visiva in Italia, vivere l’altra faccia della poesia, sulle orme di Artaud, rifiutando anche il marxismo, in quanto «Molti filosofi (anche marxisti) continuano a fare i “conservatori dei valori ammessi”. […] In realtà il nostro rifiuto dei “valori ammessi” non è fatto né in nome di un nichilismo astorico e irrazionale né richiamandoci a valori vigenti prima, bensì in vista di un cambiamento profondo e radicale della società che può avvenire solo in conseguenza dell’eliminazione del capitalismo» 20.

Era un’ulteriore sforzo per congiurare il definitivo compimento del fascino attrattivo dell’editoria che voleva rendere le migliori espressioni letterarie non solo di Napoli, fagocitanti individualisti col “silenzio della ragione”.

«Abbiamo potuto vedere come una simile scelta [il silenzio] finisca con l’essere, in realtà, essa stessa funzionale alle esigenze del sistema. Per questo pensiamo ora che invece bisogna esserci, e farsi sentire» 21.

Un pensiero in minoranza in seno al gruppo, ma che apre una dialettica e un processo arbitrario della produzione, e una spinta verso il tentativo di svecchiamento del genoma culturale cui si approcceranno più avanti le nuove generazioni:

data a qualcosa (nulla

 le  cose  fragili  e  as

  è   straziato  nel  ve

   alle    furie   della

    privi   di   senso

                       se

                      lasc

                   c’è  un

                   patetico

               che   non  en

            su questo  suolo  antico  e

              essere   infine   crudeltà

               ancora nè  scoperti  m

                 saper anche  perder

                  verso  paesi   senz

(da MDZ, op. cit.).

Stabilire collegamenti “off” non ha mai raggiunto totalmente lo scopo, anche se con l’uscita di «E/mana/azione», un foglio discontinuo a circolazione privata, di cui si realizzano 25 numeri, dal 1976 al 1981, si tenta di rimanere aperti i contatti con altri sodali italiani, visto che

«chiunque p[oteva] in qualsiasi luogo realizzare uno semplicemente segnalandone ai corrispondenti il numero progressivo» 22.

La sua è innanzitutto una grande illusione di un cambiamento radicale della vita e dei rapporti umani, un’utopia di un’impresa disperata che riversa fino all’esaurimento nella sua scrittura, caratterizzata dal taglio operato sui testi, dall’afasia di una coscienza lucida “dell’inutile” che inevitabilmente produce versi apocopi – come si nota nei testi di poc’anzi –, particolari disposizioni in-naturali sulla pagina bianca che richiamano molto i codici delle avanguardie storiche (in modo particolare i calligrammi, accorgimento grafico che avvicina la parola all’elemento visivo), la significazione della non abitudinalità del fare creativo, di un interminabile grado zero della scrittura:

perché rimane l’ultimo modo di comunic

gemiti  si  possono   infatti  udire a  qu

febbre si  è  impadronita di  quel  co

sioni  sulla  necessità  di   continu

iola  di  cui  si  servirà  per  imp

nere   tratte  dal  libro  di   due

vecchia  impazzita  di  paura

ndonando per sempre la c

sporge  lentamente  la  t

trebbe  esservi   conte

memoria agonizzand

immondo   pianet

po   comincian

ioni     fanta

brucia    i

o odia

dell

ta

(ibid.);

una forma di liberazione del testo si apre alla materializzazione del linguaggio (anche nei componimenti prettamente visivi che va producendo), alla

«trasgressione [come] luogo della contraddizione e del conflitto, della messa in causa dell’esistente»23.

Ci si rende conto che sono pochi i gruppi o le riviste disposte a “rimanere ignoti” nel panorama letterario, a impegnarsi per una via d’uscita che contrasti il carattere medioevale del vivere quotidiano, con le inevitabili coazioni a ripetere e cadute di tono. E se la colpa non è imputabile alla scelta di fare laboratorio lontano dall’esistente ipnotico e museificante, vuol dire che neanche all’interno della “novità” si è saputo scegliere, mantenere i contatti, la quale ha avuto gambe corte e respiro affannoso, senza tra l’altro, come è successo per le avanguardie storiche, coinvolgere i vari sistemi sociali e culturali.

__________________________

1  In una lettera, datata 12 dicembre 1965, indirizzata a Stelio M. Martini, così scrive Mario Diacono: «… Se acchiappo il tipo che ci vuole, lo costringerò subito a fare quella rivistina che sembra io stia sempre sbandierando ai tuoi occhi e che ho già pensato di intitolare continuum: titolo che avrebbe almeno il pregio di essere scaramantico verso la tentata e cortissima vita delle nostre imprese letterarie» (Luciano Caruso, L’avanguardia a Napoli. Documenti 1945-1972, Schettini, Napoli, 1976. Ora in Claudio Caserta, Scrittura visuale a Napoli. Documenti dal 1958, E.S.I., Napoli, 1998).

2  Felice Piemontese, Appunti per un ripensamento della vicenda di continuum che anticipò elaborazioni di sorprendente attualità, in «Il Mattino», Napoli, 27 luglio 1983.

3  Cfr. La disoccupazione mentale/inchiesta sulla cultura a Napoli (antologia), a c. di L. Caruso, Longo ed., Ravenna. 1972, documenti, materiali, programmi delle varie istituzioni socio-culturali che vanno dal 1969-71. Evidenzia una società marcia, un mercato senza regole, un cliché valido però per molte altre città.

4  Emilio Piccolo, La disoccupazione mentale, in «Logos», n. 2, Napoli, 1973.

5  Luciano Caruso, Contributi per una storia dei gruppi culturali a Napoli (1958-80), in L’impassibile naufrago. Le riviste sperimentali a Napoli negli anni ’60 e ’70, a c. di Stelio M. Martini, Guida, Napoli, 1986, p. 175.

6  Renato Carpentieri-L. Caruso- Arturo Fittipaldi-F. Piemontese, L’eternità commestibile (trascrizione di L. Caruso), in «Uomini e Idee», n. 15-17, Portolano ed., Napoli, maggio-ottobre 1968.

7  Pietro Pasquale Daniele, Cronistoria del gruppo di continuum, in «Rendiconti», nn. 29-30, gennaio 1977, p. 37.

8  Renato Carpentieri-L. Caruso-A. Fittipaldi-F. Piemontese, L’eternità commestibile, art. cit.

9  Pietro Pasquale Daniele, Cronistoria del gruppo di continuum, art. cit.

10  È nato a Foglianise, in provincia di Benevento, nel 1944, ma è vissuto a Napoli fino al 1976, anno in cui si è stabilito a Firenze. Non è facile documentarsi sulla biografia di Caruso, il quale tra l’altro ha tenuto più di 60 mostre personali e due antologiche nel 1975 e nel 1993, essendo essa innumerevole e sparsa; per un’ampia conoscenza si rimandi a quella contenuta in vari cataloghi e monografie.

11  Vincenzo Accame, Il segno poetico, Spirali Ed., Milano, 1981, p. 116.

12  Luciano Caruso, Teoria della violenza e violenza della teoria, in «Uomini e Idee», n. 1, terza serie, Schettini ed., Napoli, aprile 1975, p. 9.

13  Ivi, p. 10.

14  Luciano Caruso, Teoria della violenza e violenza della teoria, art. cit., p. 10.

15  Pietro Pasquale Daniele, Cronistoria del gruppo di continuum, art. cit., p. 179.

16  Luciano Caruso, La totalità imperfetta e la sacralità negata, in C. Caserta, Scrittura visuale a Napoli, p. 218 [nota].

17  Id., Continuum, in Continuum. Contributi per una storia…., art. cit.

18  È nato a Monte S. Angelo in provincia di Foggia nel 1942 ma vive a Napoli dal 1946 dove ha lavorato come giornalista presso la RAI. Oltre che di poesia, si occupa di narrativa e critica letteraria. Ha pubblicato, di poesia: Là-bas (Geiger, Torino, 1971); Ancora delle poesie visive (Continuum, Napoli, 1972); MDZ (Colonnese, Napoli, 1972); Intorno a quelle macerie (Carte Segrete, Roma, 1981); La città di Ys (Manni, Lecce, 1996); Il migliore dei mondi (id., 2006). Di narrativa: Testo (Longo ed., 1973); Da un’immensa distanza (Shakespeare & Company, 1986); Epidemia (Pironti, 1989); Dottore in niente (Marsilio, 2001); Fantasmi vesuviani (Ed. Matelica, 2009). Saggistica: Dopo l’avanguardia. Interventi sulla letteratura (1968-1980) (Guida, 1981). Curatela: Autodizionario degli scrittori italiani (Leonardo, 1990). Traduzioni: La danza degli ardenti di Jean Noël Schifano (Pironti, 1988); Cronache napoletane di Jean Noël Schifano, con Carmen Micillo (id., 1992).

19  Felice Piemontese, La normalità e la sfida, in «Uomini e Idee», n. 1, terza serie, cit., p. 29.

20  Ibid.

21  Ibid.

22  Claudio Caserta, La poesia visiva a Napoli (intervista a Stelio Maria Martini), in «Poesia Visiva», vol. I-II, ottobre 1992, p. 40.

23  Felice Piemontese, Dopo l’avanguardia, op. cit., p. 14.

 

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