CATERINA DAVINIO, Quattro poesie

Dichiarazione di poetica

 (Rielaborazione da una vecchia intervista diretta, da un sito letterario, a poeti e lettori, che però non fu mai pubblicata perché le mie risposte non piacquero [C. Davinio])

 

Sulla poesia:

La poesia non serve a nulla. Esprime un transitorio – per fortuna – e non attendibile momento di coscienza, in cui le parole sembrano appropriarsi di un qualche senso dell’esistenza o della radice di ciò che chiamiamo: universo, tempo, realtà, società, essenza, impermanenza, e con altri nomi, a seconda della nostra visione.

In epoca social, alcuni poeti accademici gridano all’apocalisse. Ma la poesia è ovunque, basta non avere pregiudizi. Non c’è un linguaggio specifico della poesia, ce ne sono molti. La poesia è come la droga: lo capisci se è “buona”, perché, quando non lo è, anche se scritta bene, non fa effetto.

 

Sullo “status” del poeta:

A partire dalla società industriale, l’intellettuale o scende a patti con le capacità ricettive del pubblico, oppure è un emarginato, un deriso, uno non compreso anche quando viene acclamato.

Dalla notte dei tempi egli ha fatto compromessi con poteri più o meno grandi. Tutti ne abbiamo fatti, ma arriva il momento in cui non vuoi più, e pensi che potresti vivere da eremita, come Zarathustra, così, forse, scaturirà un’idea, un’intuizione purificata dagli inquinamenti.

Mi piacerebbe essere una vecchia santona che dimora in una caverna e dispensa consigli a chi viene a chiederli, passando di lì, per questo scrivo libri. Non so se può essere considerato uno status.

Quello del poeta, da molto tempo, non è uno status (“Perché mi dici: poeta?”): egli non dovrebbe mai prendersi troppo sul serio.

Un poeta è uno spacciatore, che agisce nella sua cerchia clandestina, traffica nella nostra società merce proibita: dubbi, profondità, sentenze aleatorie, e anche quando gioca, quando mente, sta spacciando una qualche verità. 

Ed è anche un pornografo, giacché mai si svelano le debolezze umane in modo così osceno, in tutte le loro contorsioni, come nella poesia.

 

* * *

 

(i testi poetici che seguono sono tratti – dalla stessa autrice -, da Alieni in safari / Aliens on Safari, Robin, Roma, 2016)

 

Il Pianeta

Il pianeta è azzurro,
Mi parve fragile
Nel buio;
A distanze stellari
Rilucevano punti,
Nebulose,
Galassie come fantasmi,
Il pianeta che da vicino era disordine.
Non sapevamo le traiettorie,
I corsi matematici
Precisi nell’idea,
Il geometrico segno della sua orbita:
Gli alterchi quotidiani ci dilaniavano,
La rabbia d’amore,
La pittura sulla staccionata,
Il prato,
Le sere.
Nella sua azzurrità d’oceani,
Nello striato biancore
Dei suoi nastri
Di vapore acqueo,
Nei suoi venti come una soffice aureola
Il pianeta era umile cosa,
Una supplica nel cosmo
Che implorava frangibile sopravvivenza,
Devozione sensibile,
Alle eterne leggi
E all’uomo,
Quel parassita vincente,
Quel batterio tenace
Che macchia di sacche nere ammalate,
Di fori e crepe
la pelle della Terra
Attaccabile e lieve nella sua azzurrità,
Umida d’acque, piogge e soffici
Plasmosità rotanti
Pronte allo scarto, all’errore
Al rimedio, alla correzione
All’aggiustamento fluido della materia;
Il pianeta tenero nella tenebra
Riluceva del mio rimpianto
E amore di astronauta
Destinato al viaggio,
Alla lunga partenza,
Al nero stellare,
All’ignoto.

 

Novoli*

Il sapore negroamaro
Del Salento luminoso
Come un ricordo infinito,
Le palme
E le pietre gialle
Delle tue chiese
Arroventate sotto
Il sole degli oleandri.
E una stretta,
Forse ricordo
Che esita
Nel silenzio delle strade
Reticenti, deserte
Vado sola
Come un pellegrino senza tempo
E senza dimora
Alla vecchia casa
Dietro le persiane assolate;
È lì,
Disabitata e in rovina
Con tutti i sogni racchiusi,
Le parole dette,
I gesti degli avi,
I sorrisi
A uno a uno.
Mi accolsero a braccia aperte
Con gli spiriti inquieti
Nelle stanze vuote sbrecciate
Dove filtra il sole.</p
Tutti voi che riposate nell’eternità
Eppure mi ridete dinanzi
Come fantasmi accoglienti
Felici di un tempo remoto
In cui mi amaste
E vi amai,
Voi che siete me nella carne
Povera, tremula,
Stanca di futuro che incombe senza isole,
Lacerato di perdita,
Io vi penso, vi vedo
Da lenti quotidiane
D’ombra, negli angoli cupi
Della credenza,
Nella madia,
Nel tavolo modanato,
Mi parla un mondo
Irto di cose
Leggendarie,
Dietro il battente,
Dai vetri,
Luccica la presenza
Vostra,
Le voci
Filtrano come luci che
L’odiosa eternità non mitiga.
E vi voglio ancora,
I vecchi mattoni accarezzati dai nostri piedi
Le lunghe parabole dei soffitti
Profondi universi silenti e umidi,
Odori rancidi e favolosi
Tendevano agguati
Su per scale strette di solai
Ingombri di cose immaginarie,
Assiepate di misteri,
Fino a terrazze assolate
Dove il mondo a perdita d’occhio
Andava di tetto in tetto
In prospettiva scontrosa
Che diceva il mio nome.
Io vi amo ancora, e questo amore oltre la morte
Spezza la mia carne senza senso,
Recipiente mostruoso del mondo oltre misura;
Tirai la porta e sbatté
E fui fuori nella strada rovente
Senza nessuno;
Me la sento nel sangue
Come fuoco,
E intendo
Che la vita non ci appartiene,
La memoria non abitiamo
E se mai ci possiede,
Come immenso otre di venti,
A suo comando, con tutti gli arcobaleni
Trema nelle membra
Dinanzi agli occhi luminosa scia.
E come Ulisse non temo di cercare.
E vedo la madre della madre che entra
Dalla porta lattea
A doppio battente
Spinge l’imposta e scherziamo
Nella sala a volta
Gonfia di tempo,
Del primo amore della genitrice,
Della buia frescura lieta
Che ristora estati bianche di pietre brucianti,
Del tepore che rinfranca dalla paura,
Della felicità che accoglie gli esuli,
Gli dei erranti.
Padre, ricorda il mio lungo cammino
Mai sostai e mai mi volsi indietro
Ma oggi ritorno più che mai dolente
Alla casa,
In un patto di sangue,
Al mio paese.
Qui gli avi zapparono e abbracciarono le spose
Patirono il freddo e sognarono futuro avaro
Furono stanchi
Accesero bracieri
Chiusero gli occhi
Nacquero nel dolore,
Furono amici,
Ed ebbero timore
Rivalità, rimorsi,
E fu allegria
Ogni pietra, ogni vecchia sedia
È intrisa del loro cuore.
E io come l’urna che raccoglie
E le sue infinite storie
Perché mite è il poeta dinanzi al suo mandato,
Umile come un santo
Dinanzi alla materia incandescente di Dio,
Quella che ci trema dinanzi
A occhi impauriti,
Ogni uomo che incontrai
Nella nuda vita
Lo contengo,
Ogni passo, ogni foglia di vento
Ogni parola che lessi, ogni novella udita
Ogni viandante
Ogni occasione.

* Paese in provincia di Lecce, da cui proviene la famiglia del poeta.

 

Afghanistan 1970 (A un viaggiatore)

Persi nelle frontiere pietrose
sentimmo quelle note
lievi, come uno che sogna
era il nostro miraggio
dell’oppio e della storia
eravamo bambini in marcia, i bambini non dimenticano
loro non sanno di memoria e dolore
loro non sanno di dovere e saggezza
sono schegge, proiettili sparati nel futuro
non c’era da sperare senza premesse
ma noi bambini avevamo un grande destino
e la melanconia dei nostri cuori di ragazzini
era inverno fra quelle montagne
sempre immaginate solitarie
e i Pashtun sorridevano con occhi
come canne di fucile,
non ancora nemici.
E oggi sono nudo come un figlio di Gesù
volevo una tenera morte
e mi arresi
ero debole, o fui ingannato
dal fluire delle cose della storia,
che hanno colpe e nomi
e loro disegni così
illimitati
deformi,
infinite
deviate
vie.

 

L’anima è storpia (Diario di un tossico)

La mia anima è storpia
cammina sciancata
trascinando una gamba fiacca
sui marciapiedi e per le strade
zoppica come un relitto a Union Square
lì aspetta segnali dall’altro mondo
segnali di corruzione e aiuto
grida di dolore
serpenti, borsette
colorate di ragazze,
se ne va sola portando
il suo enorme passato di fanciulla;
guardandola non ho rimorsi
perché la felicità degli uomini
ha mille forme
come il loro male.
Lasciami libero, sorella,
vola lontano dalle macerie,
specchiati sulla Fifth Avenue,
lascia al delirio chimico le tue perdute note
di irrecuperabile;
qui le ragazze ascoltano Beyoncé
e disdegnano Mozart, quel dio vivace
che ha nobilitato le mie paure,
ricamato un allegro destino nelle tue trame
di afflitto prosatore di tossicodipendenze variopinte,
di schiavitù e mattane aeree
come una debolezza senza nome;
vattene in pace con il tuo fardello,
troppo tempo hai penato
troppo hai accarezzato i secondi
di ore dissipate
ma piene di auspici, esperienza, incubi
quando calpestavi la polvere rossa
dei sentieri dell’India scoprendo i rituali
e gli dèi insozzati di fiori
e marcito stupore.


Biografia di Caterina Davinio


 

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