BRUNO DI PIETRO, Come se il sole calasse ad Oriente

Una anafora, contenuta nei primi due versi della mia intera produzione e che primi resteranno in qualsiasi futura sistemazione, rende conto e ragione del mio scrivere.

Sto parlando dei primi due versi della “Prima Eleatica” che apre il volumetto Colpa del mare (Edizioni Oèdipus, 2002): «forse l’indisciplina degli eventi / forse l’incerto dire inesistenti».

“forse”…”forse”. Se, poi, questi due versi vengono letti alla luce dei primi versi di Colpa del mare (la viii. dell’omonimo poemetto: «Colpa del mare / del pendolare dubbioso / tra il frutteto in rigoglio / e l’orgoglio della scienza….») sono ancora più chiari la condizione e il modo di guardare di chi scrive e l’oggetto del suo scrivere.

La condizione del mio scrivere è pertanto il “pensare” “riflettere”. L’oggetto del pensiero è il pendolo fra la passione, l’istinto, la parola del Mito (“il frutteto in rigoglio”) e la ragione, il calcolo, il pensiero scientifico, il Logos (“l’orgoglio della scienza”). E questo pensiero viene esercitato dubbiosamente nella epoca (la mia scrittura data la fine degli anni ’80 anche se la prima edizione è solo del 2002) del possibile tramonto, del minacciato “naufragio” (da qui “colpa del mare”) della parola scientifica che è il tratto essenziale del pensiero Occidentale.

In tutto il mio percorso è rintracciabile questa costante ricerca e soprattutto il desiderio di dare una risposta alla domanda posta da Adorno sulla possibilità di fare ancora poesia dopo Auschwitz. Assegno alla mia scrittura quasi una funzione civile, di lettura attenta dello stato delle cose e di ostinato perseverante richiamo alla responsabilità degli intellettuali nell’epoca del minacciato naufragio del pensiero occidentale siccome pensiero del tramonto.

Non amo quindi la poesia che chiamo “insensata”, che non si fa capire e nulla dice perché nulla ha da dire, nulla da far capire, trasmettere. Non amo la poesia ripiegata nella intimità dell’“io” (salvo rarissime eccezioni) e cerco costantemente una mediazione fra l’epica e la lirica. Non amo la poesia per pochi poiché se scrivo una qualsiasi sciocchezza non la scrivo per me stesso ma perché vorrei fosse ricordata da tutti. Mi rivolgo al paradigma della “vita in versi” (per me Giudici è un Maestro) poiché ritengo essenziale l’osservazione e l’“ascolto” della realtà. E quindi anche delle passioni, dei sentimenti, delle relazioni ma sottratte però ad un esercizio di triste elegia, e, proprio per questo mi rivolgo alla Storia.

Considero la Storia un immenso “repertorio di possibilità” per la definizione di una “utopia ragionevole” di una apertura di uno sguardo di “speranza” nel futuro, di un “sogno ad occhi aperti”. E quindi tutti i nomi-simbolo del mio lavoro (i presocratici di Elea, i Pitagorici Liside e Ippàso di Metaponto, l’Ovidio “relegato” sul Mar Nero, il poeta Massimiano all’alba del VI sec. d.C., l’eretico Francesco Pucci, tutto il brulicare di nomi e di Imperatori in Impero, i personaggi degli Undici distici per undici ritratti) sono di soggetti di “confine” frequentatori di margini in cui domicilia il “dubbio”.

Quanto alle scelte formali, che ritengo importanti anche se non fissate rigidamente una volta e per tutte, lavoro, come si dice per i musicisti “ad orecchio”. Ritengo la musicalità un tratto indispensabile dello scrivere poesia (la mia “Piccola Suite” in Colpa del mare è una dichiarazione di intenti). Poiché penso che lo scopo sia quello di farsi “ricordare” da chi legge e ascolta con l’orecchio esterno e con quell’interno che è domiciliato dalle parti del cuore.

Il poemetto inedito che ho indirizzato, pur potendosi leggere come poesia dei sentimenti, ad un occhio più attento risulta essere un ragionamento su quell’Altrove della lingua e del gesto con cui oggi l’Occidente si trova a dover comprendere. Come se il sole calasse ad Oriente, appunto (Bruno Di Pietro).

 

* * *

 

“Perciò i Greci esperirono l’adocchiante

presenza degli Dèi come il più tremendo

e ammaliante essere-di-fronte.

L’essere di fronte avviene come incontro

con il totalmente Altro. Questo si manifesta

 allora come sguardo e come voce” .

Byung Chul Han, L’espulsione dell’Altro (Milano, 2017)

 

i.

 

come se il sole calasse ad Oriente

guardo tutto con la schiena, impaziente

 

 

 

ii.

porta la tua voce ignoti suoni

apre fughe profonde

(allude riparo alle tue sponde)

 

 

 

iii.

 

preso congedo dall‘ io

l’uno di fronte all’ altra

ci siamo dimessi

noi da noi stessi

dall’essere individui,

così senza riserve

senza residui,

se amore è perdita

e insieme acquisizione

(non c’è alcun calcolo

né spazio per la ragione)

 

 

iv.

spegni per sempre la luna

il buio esalti la differenza

lasciami sulla  bocca la presenza

della tua scienza bruna

 

 

v.

 

offriamoci l’ascolto l’attenzione

lo sguardo che ama

la più piccola imperfezione

offriamoci la profanazione dell’usuale

lo scambio dei morsi sulle labbra

il timore il pudore

il sudore che bagna i corpi

nei quali ci immergiamo:

non ci toccheranno gli inverni

non avremo freddo non avremo fame

(perché noi siamo eterni)

 

 

vi.

amo ascoltare la tua bellezza

nella voce che è acqua e vento

sento il fresco profumo della brezza

l’odore del sale l’attesa dell’evento

 

 

vii.

 

restò sulle labbra il bacio mai dato

insieme a un lieve sentore di lillà

cullato fra volere e non volere

 

ed era già ricordo

 

quando lo riportarono le sere

di autunno coi primi temporali

gonfi di una pioggia che lava

e scava

 

 

viii.

in un altrove aereo o marino

forse nell’ultimo lembo di terra

al confine di ogni pensabile destino

ai margini sconfinati di un deserto

nell’incerto che inclina alla speranza

noi ci ritroveremo

allora sarà detta la parola giusta

quella che fugge la noia dell’indicibile

daremo altro nome a tutte le cose

liberi dalla paura di morire,

esaurito ogni dove, di esaurire ogni dire

 

 

ix.

 

“era bello il tuo sguardo”

“era bello guardarti”

 

ma eravamo in ritardo nel gioco di parti

poi lo sbaglio, le labbra serrate

quella vita sofferta ristretta

quella bocca al sapore di orgoglio

al ritorno dischiusa in rigoglio

 

rimanesti infine a guardarti

tu da sola a guardare il mio sguardo

occhi abbassati ancorati agli scarti

 

 

x.

se valga la pena tradurre i sospiri

il gemito in amore i desideri

il grido lanciato nel litigio

l’incontro le carezze i pensieri

ma cosa si può dire a occhi stranieri

per non ripetere il dettato usuale

dell’uguale a se stesso sempre uguale

 

 

xi.

 

s’insinua fra i dubbi il tocco dell’ora

(dicono arrivasti poi sconvolta

come la volta che trasalì la lampada

allo sbattere del vetro)

 

scolora in niente se ti guardi indietro

l’orizzonte che sembrò vicino

in fondo un deserto il destino

 

 

xii.

era grigio fuori

ho sognato

di raggiungerti

aggrappato alla pioggia

 

 

xiii.

 

neanche un bacio

una carezza

un morso

esiste solo il passato

(ed è trascorso)


 

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