BIAGIO CEPOLLARO, Il collasso della storia


Dichiarazione di poetica

La composizione della trilogia Il poema delle qualità copre un arco di una decina di anni (2008-2017). Ma se considero le fasi precedenti che hanno portato a questa trilogia e che hanno dato vita a Versi nuovi (1998-2001) e Lavoro da fare (2002-2005), il tempo si raddoppia. Si tratta di venti anni in cui ho cercato uno stile diverso rispetto a quello iperletterario della prima trilogia coeva a Baldus e al Gruppo 93, diverso rispetto alle mescolanze linguistiche o di codici che ho cercato con Scribeide, Luna persciente e Fabrica.

Lavoro da fare mi aveva lasciato con un compito non solo letterario ma anche esistenziale e morale: allentare la prospettiva egoica e intellettuale per considerare da una certa distanza la concretezza della mia vita, le relazioni di cui era intessuta, il contesto anche storico in cui si spendeva e di farlo soprattutto a partire dal qui e ora.

Quando ho iniziato il primo libro della Trilogia, Le qualità (2008-2011), ben presto è apparso questo protagonista, il corpo, che si ripeterà sempre all’inizio di ogni poesia come soggetto enunciante e contemporaneamente come oggetto. Non era solo un nuovo inizio per la mia scrittura, era anche un nuovo inizio per la mia vita, una sorta di doppio grado zero da cui ripartire. Il corpo che provavo a dire in poesia era sia sensazione, passione che pensiero, sia percezione che azione, era sia dentro che fuori ma sempre collocato in una determinata situazione e condizione. Ho detto allora della sua paura, del suo sentirsi minacciato come del suo amore per la luce e per la vita quotidiana  spesso vissuta come miracolosa.

Questo corpo a suo modo ha cantato le lodi di ciò che lo tiene in vita ogni giorno, non dando nulla per scontato e provando a sentirsi inserito in un contesto non solo urbano ma anche di civiltà, di specie e cosmico. Il sentimento della gratitudine di “essere stato invitato al banchetto” come si esprimeva Lavoro da fare, qui presiede perfino all’esplorazione del sentimento dell’odio che per quanto sia negativo è pur sempre un sentimento o una secrezione del corpo, se si vuole.

Ma è soprattutto con La curva del giorno (2011-2014) che ho esplorato poeticamente la condizione felice come passione,anche erotica, per l’immanenza e alacrità del vuoto. Si trattava di cercare una misura per il corpo e per la sua impermanenza, trovare un modo per vivere dentro la condizione che ci tocca senza distrazione, senza spreco di tempo, intensamente. Questa prospettiva del corpo mi appariva come una concreta resistenza alle ideologie e alle propagande del sistema della comunicazione sociale.

Con Al centro dell’inverno (2013-2017) ho sentito la storia collettiva irrompere con più forza, per il suo collasso. Il corpo non è il corpo naturale che sarebbe astrazione, il corpo è quello concreto, è il corpo continuamente connesso in rete e anestetizzato dalla compulsività del comunicare.

In questo ultimo libro ho avvertito più che altrove l’eccezionalità delle condizioni di equilibrio e la facilità con cui l’esser presenti può essere negato dal torpore, dal conflitto e dal trauma, situazioni negative non sempre legate alle singole persone ma spesso derivanti dal degrado della vita civile e culturale di questi anni. Ecco perché alla minaccia costante di opacità per le esistenze individuali fa da cornice come un venire meno della speranza collettiva nella fortuna dell’Occidente che a me appare sempre più indirizzato verso un nuovo e tecnologico Medioevo.

Se Lavoro da fare era realizzato con una lingua del monologo teatrale, dell’oratoria pensosa non priva di pathos, la trilogia Il poema delle qualità sembra giungere per abbassamento retorico a una sorta di  grado zero come modo dell’immanenza: lontano dalle retoriche dell’io psicologico-romantico e lontano dalla retorica impersonale dell’operatore di scrittura, dalla scrittura “oggettiva”. Oltre i modi sia della poesia orfica e simbolista, sia della poesia “sperimentale” della post-avanguardia o postmoderna, della mia stessa poesia della prima trilogia coeva ai lavori del Gruppo 93.

Chi scrive poesia non è più lo Scriba, protagonista della prima trilogia, versione ormai priva di aura dello scrittore nel mondo dell’estetizzazione diffusa alla fine del ‘900, ma il Corpo, tra il collasso della storia e la sua condizione attuale dell’essere sempre connesso (b. c.).

 

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Dal Prologo, Il collasso della storia

 

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il corpo ogni giorno si accende come si avvia un terminale
a lui fanno capo i messaggi in arrivo e ogni input che suona
è richiesta di attenzione e risposta. è pioggia che batte
sui vetri la chat che moltiplica i gruppi divisi per tema

 

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il corpo al centro dell’inverno può anche coprire con un respiro
lo spazio della stanza: desiderio e gioia ripetono la loro danza
ma è come stare su di una zattera o dentro un cerchio di luce
che scivola sulla terra. è tutto intorno che non si vede o peggio
è questo mondo prossimo che anche visto non si può toccare: sono
i corpi tutti nell’acquario che “postano” di cibi gatti e grandi imprese

 

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il corpo ogni giorno si connette attraverso un fascio di luce
ad altri corpi e le teste si annodano con onde invisibili
che muovono e smuovono anche di notte senza sudare
ciò che prima era solitaria fantasticheria ora è fantasma
di gruppo che si solleva dai cuscini e plana attraverso le porte
se il corpo tagliasse questo filo che lo lega agli altri
si sentirebbe immediatamente respirare ma l’incertezza
della strada sarebbe più grande e anche assordante
sarebbe l’immediato silenzio sceso nella stanza

 

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il corpo si tuffa nella piscina riempita da parole
che scorrono incessanti attraverso tubi invisibili
e lo connettono al mondo da ogni lato. sono continue
trasfusioni di senso che nella quotidiana insensatezza
affollano psiche fino a farla sola e febbricitante

 

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il corpo anche nel sonno avverte il sussulto del terminale
che dice il messaggio in arrivo o la battuta di qualcuno
a proposito di qualcosa ad una certa ora della notte: il silenzio

non c’è. in suo luogo una modalità silenziosa che piano
sovverte la calma del corpo e la sua greve indifferenza

 

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il corpo al centro dell’inverno è un vuoto che non si risolve
è un punto interrogativo che attende il tempo che lo prende
e lo solleva come quando è dentro al suo dire e non c’è differenza
col suo fare. affacciato sull’istante luminoso che non viene si sporge
oltre la minaccia di morte e malattia: ripassa a memoria i volti
pochi dell’incanto che lo salvano forse dal collasso della storia

 

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il corpo che si disconnette sguscia via dall’involucro
d’onde che lo stringe. fuori torna ad essere assenza
di linguaggio: ora è soltanto pelle e patina tempo
e postura mentre l’aria della primavera profuma

(Da Al centro dell’inverno, L’arcolaio, 2018).


Biografia di Biagio Cepollaro


 

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