“La poesia è un modo di prendere la vita alla gola”.
(Robert Frost)
I
Con versi leggeri, aerei, ma sempre incisivi, come un bisturi impugnato con mano ferma, Gabriele Galloni scava nella storia dell’uomo, provando a giungere fino alle radici.
Prima c’è il sangue, l’acqua, il tempo, poi la Parola, ma solo perché è la Parola che tutto contiene e tutto origina.
Dalla Parola arriva il futuro che costeggia il passato; nella Parola si ritrova l’origine del discorso e dunque anche della vita.
[…] Non parlare del tempo. Ora ne abbiamo
finché ci va. Non fare troppo caso
a quante volte ci sono e ci sei:
ricordati più tardi la Parola.
Galloni nei suoi slittamenti di parola e di concetto, vorrebbe lasciarsi dietro la tragedia quotidiana; vorrebbe approdare al vuoto, riappropriarsi dei corpi, magari, ma tutto con una certa disinvoltura,
senza troppo impegno. L’unica premura è lo stile.
E così il giovane anarchico racconta a se stesso e all’universo la cruda favola della vita con stile (oggi così poco in voga) e soprattutto ci riesce, e anche bene.
Nuova fermata: il mare
dietro la sala
d’attesa. Quando capita
vediamoci: sarò spesso
da quelle parti.
Il libretto è pervaso da un sottile, divertito, erotismo. L’ironia poi, gioca un ruolo nient’affatto secondario.
… Azzardo: forse
l’ultimo buio
di carnevale. A stento
il pantalone
largo celava
la sua erezione.
II
L’operazione che compie il poeta si dimostra estremamente raffinata: su un fondo classico appoggia versi moderni, nuove storie, ironiche, crude, a volte persino violente.
Nasce lì il dissidio interiore tra l’essere persona di oggi ed essere continuatore del passato, la poesia è dunque lo spartiacque tra il possedere la storia e l’essere posseduto da essa.
L’inquietudine diventa diario di ordinaria melancolia, ma in una prospettiva completamente diversa: niente paura, niente arroccamento al passato, ma solo svagato distacco, forse solo apparente.
[…] È carnevale.
Indossai la maschera del diavolo,
la stessa di quell’anno in cui il tuo male
pensasti fosse il male di tutti noi.
Figlio della tradizione lirica, Galloni scrive appunti e mette su pagina segni e abbozzi di mappe. I suoi versi sono le molliche di Pollicino, che attraverso una parola pura ritrova la strada per un reale illuminato dal sogno. Attraverso slittamenti continui, di verbo e di esistenza, il poeta emigra, insieme al suo lettore, in un bosco di parole, dove, ad ambedue, ci si augura venga restituito il maltolto.
[…] Riporta la corrente a pelo d’acqua
un frammento, una scheggia della cosa
nostra che fu […]
III
Galloni non fa mistero del suo procedere poetico, dove i classici letti e amati passano nella pagina come echi, ma non manca neppure buona parte della poesia anni Settanta e Ottanta, cito alla rinfusa: Dario Bellezza, Gino Scartaghiande, Attilio Lolini, Stefano Moretti, Gilberto Sacerdoti.
Se Renzo Paris riprendesse il suo pregnante e indimenticabile Io che brucia (antologia della scuola romana di poesia) e inserisse qualche nuovo autore, potrebbe sicuramente trovare un posto a questo
poeta che racconta il mondo e l’io, con l’impertinente distacco di un ventenne.
IV
Fughe contrappuntistiche, ma anche musica rock, sotto le parole. Il tutto giocato con molta selettività e grande attenzione, in modo da non sottrarre mai la freschezza e la spontaneità del dettato. Siamo di fronte a un’affabulazione ontobiologica che ora è sovrabbondante ora reticente. Galloni è un visionario che va avanti ritornando indietro. Il suo è un controcanto alla vita, al tempo che fugge, all’inevitabilità del dolore, della delusione, della morte.
La musica innata è sostenuta da una griglia classica e questo produce una specie di sbilanciamento verso una dicibilità per così dire “cantabile”, che però è subito stemperata dall’appiglio alla parola significante, al frammento illuminante.
[…] quasi ogni Messico
cerca una nuvola.
“Dunque il poeta
è veramente
ladro di fuoco”.
(Arthur Rimbaud)
Gabriele Galloni Slittamenti Haugh! Edizioni, 2017, pp. 56