ANTONIO PERRONE, Afasie


Dichiarazione di poetica

Afasie, ovvero silenzi. Il titolo rimanda ad un io lirico che sa parlare solo se a stesso, in lunghi monologhi o nell’immagine di un “tu” che d’altra parte non ascolta, e non risponde se non con domande o affermazioni fuori tempo.

Lo spazio del poetare è qui lo spazio del non detto, del non comunicabile, lo specchio di una realtà solipsistica, o di un coralliera di ascendenza montaliana, mentre il frequente richiamo alla musica rimanda all’idea di una parola alogica ma eufonica, un incastro di metri e «sequenze» sillabiche che si cela ad un senso immediato, e che invece mira alla ricostituzione di quella che vuole essere una sorta di ristabilita oralità, un’oratio continua che, per dirla alla Cohen, procede per immagini e suoni.  

La destrutturazione che ha subito la parola poetica a partire (o per meglio dire a finire) dalle sperimentazioni della nuova avanguardia (e penso al gruppo 63, al gruppo 93, a Zanzotto, a Pagliarani, a Sanguineti padre, fino a fermarmi sulla soglia di ciò che possa dirsi oggi già storicizzabile e concluso, o se non concluso almeno arrivato a una sorta di scuola epigonica) ha sottratto al poeta moderno un terreno su cui poggiare i piedi, giacché lo stesso risulta franato, spaccato, crollato su se stesso in maniera inesorabile.

Se fino all’ultimo scorcio del ventesimo secolo poteva in un certo qual modo risultare ancora lecito un discorso sulla volontà o non volontà di comunicazione di una voce o di un testo, oggi tale discorso sortisce invero inefficacia nonché mancanza di senso, dal momento che il poeta, non riuscendo più a parlare, ha letteralmente disimparato la comunicazione.

Per dirla in modi un po’ più perentori io credo che la poesia non sia capace ormai di costruire alcunché, né ancor meno abbia idea di dove cominciare a farlo o se questo sia ancora il suo ruolo (e mi si perdoni l’insistenza su un ‘io’ autobiografico che inevitabilmente va distinto da quello dei testi qui presentati) (a. p.).

 

* * *

 

Ad e. l., mio maestro

Avrai bisogno d’anni

per imparare

avrai bisogno d’anni

per dis-imparare

(l’arte della scrittura

-se di arte si può

parlare- è la misura

ma il metro è multiforme di natura)

 

 

1.

 

I.

Non ci sono riuscito, le dita che contano ancora le vedi suonare
la musica scema dei sordi e a Parigi in un vecchio motel
tu mi facevi l’amore sui bordi del letto e in silenzio
lavavi le ascelle e le cosce in un mutuo pudore.
Su quel letto ora piangi, o forse su un altro, ma  piango anche io
al rumore del phon che ti usciva i capelli,
quando ancora ci avevi le punte.
Le voci del freddo le aeree parole sull’uscio di un
bel ristorante
e poi l’aeroporto
nel vuoto silenzio del mondo
Il tabacco mal spento, con la punta dei piedi, le piazze
che girano ancora le piazze che girano qui
nel nuovo silenzio di nuovo in silenzio di nuovo
mi dici le scarpe ed i piedi, è il modo in cui poggi
per terra le punte e i talloni
Cammini male
come se fossi costantemente su un filo ma a
volte però tu mi vedi lo vedi che a volte io so camminare.
È la testa lo sai che è la testa e poi gli occhi (i miei occhi?)
ma lo sai che ore sono e che ho ancora cinquantadue euro
nella tasca sinistra del bomber o forse
la destra
non so non ricordo
oppure non voglio più dirtelo.
Le parole che poi mi dimentico come i vestiti
e i colori e le facce, ma tu ti ricordi di quando
salimmo sulla parte più alta del faro di ferro?

C’era vento.

II.

Tu lo sai che io non ci credo, che la linea del tempo
per me non ha senso
non ha senso ordinare i ricordi ma ha senso
suonarli
(forse)
nella musica scema che io so suonare
e che tu pure suoni ma in modo diverso.
Forse ci siamo incontrati per farci soffrire
o forse è un po’ troppo cattivo parlare così
però a me piace suonare, e una volta hai voluto
ascoltarmi ma hai pianto
io poi non avevo capito se non ero bravo a
suonare o se tu non avevi capito che avevo
suonato per te.

2.

Le dita piovono a fiotti sui tasti di un muto pianoforte e
la sinfonia che suonano rimane solo nella testa
abile marionettista tu muovi i fili del telaio
con la punta dell’indice e col mignolo emendi
gli errori. I pollici in un moto alterno ticchettano
il tempo ondulato
me ne dànno partitura
O chiave musicale che non so disegnare
perché non conosco le regole ora dimmi
come faccio rumore?

3.

Capisci quante note
e quanti numeri
contati sulla punta delle dita
e quanti accenti e quali
io abbia ripartito in pari o dispari
e poi deciso dove collocare
nella testa
o su quale dei due polsi,
il destro
o il sinistro se è vero non esista
un ordine o se al contrario esiste
e va prestabilito

Capisci quante regole e se quante
era mai stato l’aggettivo giusto
ora che quanto basta è che tu chieda
Quando?
e per davvero così tanto?
e di preciso Quanto?

4.

(parlare con te è come rendere
un suono alle cose
sventare paure irrisolte
sciogliere nodi
mettere punti
chirurgici
Le salde incertezze dell’uomo
che sono diventano vane
vuoti spauracchi
volatili fisime fiumi
in carsismo.
Non lasciano scorie le mie
paranoie se tu le lenisci
mentre guardi al di più
delle cose
e le sfrondi).

5.

verba volant
sonus manent
etsi volant
tamen manent
sonus volant
verba manent
semper volant
nempe manent
sunt qui dicunt
falsum esse
etiam dicunt
dubium esse
alii dicunt
certum esse.

 

  

6.

Mi chiesero e mi chiedono perché
perché oggi
e a che serve?

Una volta lo hai chiesto anche tu e fu un novoide
Un boato, una stella che muore
e poi io che perdetti il talento per due lunghi anni
A che serve?

Né mai l’ho trovata la risposta
la luce che disturba il sonno
la paura che si cela sul fondo del petto
e che è muta

(Ferso non verse
ma non oh spatuo
arecattloc, en
redoc-che protìmi
riverse a sacolqua).

7.

Fiorivano tumori nella testa
a mo’ di piccole iridi monocolori
emofili fiori di campo potati dal
lento reflusso di sangue al cervello
coralli pulsanti ambystòmi serpenti
urobòri in continuo fluire

Vividi rossi e arancioni violenti
immagini a scatti e sequenze che tu
tu che guardavi e chiedevi
Se posso
quando a stento potevo io stesso.


Biografia di Antonio Perrone


 

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