ANTONIO FRANCESCO PEROZZI, Essere e significare

FRESCHI DI STAMPA


Il tema della silloge è quello della complessità del rapporto tra mondo e linguaggio, che si ripercuote sulla coscienza del soggetto e dunque sulla scrittura stessa; per tale motivo lo stile si trasforma lungo la raccolta e segue in particolare tre tappe scandite da altrettante sezioni: “Soma simbolica” (in cui mondo e linguaggio sembrano non poter comunicare fra loro, ma la riflessione si muove ancora su un livello cosciente e razionale); “Discredito dell’uno” (in cui la tragedia della scissione tra parole e cose entra concretamente nei versi e fa deflagrare la poesia stessa); “Incarnazione del Verbo” (in cui il concetto cristiano è laicizzato per l’idea di un approdo a una situazione semi-risolutiva, in verità molto instabile, di accordo tra linguaggio e corpo). (A. F. Perozzi)

 

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PREFAZIONE

 

COSA RESTA DA SIGNIFICARE

Nella situazione attuale è molto difficile riconoscere la poesia. Di poesia se ne scrive tanta, forse anche troppa, e in assenza di filtri (editoriali e critici) orientarsi è diventato un problema e la valutazione un fatto decisamente soggettivo. Per di più, anche nei casi migliori in cui possiamo in qualche modo rintracciare la qualità (nel senso di compattezza e coerenza strutturale, ampiezza di linguaggio e assenza di narcisismo), tuttavia a mancare – salvo rarissimi casi – è il progetto, la poetica forte, la tendenza. Mancano, insomma, le nuove mappe ed è forte il pericolo di rimanere ai vecchi parametri sovrimponendo ai testi un’idea critica del tutto inadatta a loro.

Lo sforzo di una osservazione impregiudicata vale certamente la pena e soprattutto nel caso di un autore molto giovane come Antonio Francesco Perozzi e del suo poema Essere e significare. La prima cosa che salta agli occhi è la presenza in questa poesia di un carattere fortemente filosofico. Poesia-pensiero, si potrebbe dire e tuttavia assai lontana dall’impeto o dalle forti travature di autori novecenteschi come Michelstaedter o Cacciatore. Qui la riflessione sembra aver perduto qualsiasi fiducia nel supporto formale ‒ quella che una volta era la logica della forma, la sua coesione garantita da metri, rime e quant’altro. Qui, quanto alla metrica, si può trovare soltanto qualche residuo, o meglio qualche rovina, come ad esempio il sonetto di endecasillabi ottenuti attraverso la tagliatura della tmesi, oppure l’acrostico in cui il nome da leggere in verticale è per l’appunto quello stesso del genere, ACROSTICO (tornerò tra poco sul senso di questa tautologia). Per il resto, Perozzi dimostra una sorta di indifferenza al ritmo esteriore, per dedicarsi a una sorta di “ritmo interiore” con prevalenza di versi brevi che si possono interpretare come il decorso lento del tono ragionativo. Nello stesso tempo, l’aspetto riflessivo introduce, quanto a registri lessicali, tutta una serie di termini critico-teorici, che conferiscono alla pagina un’inflessione metapoetica. Ma proprio questo costruire la poesia come ripensamento su se stessa è l’indice di una radicale incertezza sulla possibilità stessa della poesia. E la tautologia, che già accennavo, tocca il punto dolente che è il rapporto tra le parole e le cose: può la parola poetica toccare le cose, o non finisce sempre per trasformarle in parole e quindi per toccare non altro che se stessa? Oppure, che è più o meno l’uguale: può la poesia toccare le cose quando le cose sono già state mangiate dalla cultura e quindi non sono più cose, ma simboli sociali? Mi pare che tutta la poesia di Perozzi si sviluppi nella tenaglia di queste due domande radicali, tentando di trovare gli spiragli di una risposta. Nel divario tra essere e significare non si arriva a «sbucciare gli oggetti» le cui costituzioni sono, per altro, «ormai sfibrate», per cui resta «il tormento di non essere capace a scalfire le cose» oppure l’interrogativo di una “esattezza” irraggiungibile («E allora era esatta la stanza?»).

Se la poesia, a questo punto, torna ad appoggiarsi sulle basi cartesiane dell’io e del cogito è per verificare che queste basi sono ormai crollate e che quello che è possibile mettere in versi è un simil-pensiero, forse un sotto-pensiero misto di frammenti teorico-concettuali e frammenti naturali-biologici, che finisce nelle vicinanze di un delirio surrealista («Nel trasmigrare tra punteggiature / cercare corpi addizionali / forme bulimiche di trascendenza: / lo spirito sovrano che farnetica»), consapevole del resto di significare sull’orlo del nulla, di «arabescare sul niente». In qualche caso estremo, proprio il nulla si offre come l’ultima e unica autenticità possibile, come ad esempio nella poesia che contiene soltanto la data della sua stesura, o quella (Dispoesia) costituita da righe non ancora riempite.

In tutto ciò l’io ‒ questo invadentissimo salvagente (forato) nell’epoca dell’esibizionismo internettistico ‒ pur essendo continuamente presente, non ha nulla dell’ingenuo rappresentante del proprio vissuto. L’io è al massimo un esploratore, che però deve confessarsi e riconoscersi «smarrito», «confuso», «randagio», oppure, dall’altro lato, eterodiretto e già parlato dal linguaggio, mero effetto di linguaggio. Sicché la poesia del pensiero e della riflessione risulta, per il suo stesso rigore, una poesia dell’incertezza e del naufragio.

Come unica possibilità di uscire dalla “prigione del linguaggio” verso l’esterno troviamo la forma della preghiera. E qui (come ad esempio in Vocazione) sembrerebbe riaffacciarsi il mito romantico del poeta come portatore di una visione altra e oltreumana: senonché, non solo questa invocazione è accompagnata da alcuni dubbi («Sei tu, forse?»), né è dato conoscere una eventuale risposta all’apostrofe, ma per giunta quel testo è seguito, un po’ più avanti, dalla constatazione del Fallimento dei romantici. Come pure non compatibile viene dichiarato il postmodernismo e, in fondo, le stesse avanguardie, delle quali non è raccoglibile l’ottimismo in un linguaggio esente dal mercato. Mi sembra un carattere rilevante, da parte del giovane autore, volersi tracciare la strada da solo. Una strada senza uscita? Non esattamente, in quanto la virtù di tutta la poesia moderna (prima di tutti di quel capostipite che è Leopardi e aggiungerei il Baudelaire della “coscienza nel male”) sta nel ribaltamento della negazione in paradossale e imprevedibile nuova produzione. È solo nella consapevolezza dello scacco che può sorgere un’autentica libertà espressiva. E alla fine, malgrado tutta la sua problematicità, questo libro dimostra una grande vitalità intellettuale e creativa. È vero che la sua Sapienza poetica sta tutta nel «com’è possibile / ancora / scrivere versi», ma noto che proprio quella frase decisiva è scritta senza punto interrogativo; si tratta quindi non di una domanda, sia pur retorica, ma di un dato di fatto. Il problema non è come scrivere ancora poesia, il problema è che la poesia si scrive… Ma per scriverla ancora con “dignità” occorre dare senso alla scrittura attraverso l’atteggiamento più lucido e rigoroso. Se sia il punto di partenza per una ricostruzione non so dirlo: penso che questa fase iniziale indichi all’autore una buona direzione alla ricerca di ciò che resta da significare, ovvero, come egli stesso dice, di «altri anelli che non tengono» (Francesco Muzzioli).

 

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ESTRATTI

 

Da “Soma simbolica” (prima sezione)

Cultura simbolica

Non può esistere Medioevo senza Madonne,
né volontà di popoli
senza smagliature d’immagini e
corredi simbolici che
sono feritoie del corredo esistenziale.
Cultura è dare al corpo filosofia di simboli,
è possibilità di pensare il due nell’uno
per rilancio d’icone, per agnelli che
sacrificano il Cristo e falli enormi che
invocano il raccolto.
È fucina di messe pasquali e significazioni che
incrociano i palmi sul petto e
tendono le lingue all’ostia.
E il negro ha il canto nel cotone,
il vate ha il lauro in Campidoglio e
le geishe hanno abiti e cosmesi,
nell’indiagnosticabile rito che allaccia le parti,
nel vaglio euritmico di ogni impulso morale.

 

I due pesi

Quale tra duemila discorsi può dirci
del nervo che attacca
questi corpi anoressici e questi dentisti,
questi spasmi alla riproduzione
a un linguaggio
di così vacua non materia?
Quale tra duemila discorsi può dirci
che non coli trincea tra i due pesi
e che abbiano fibre che in laghi insondabili si trovano?

Quale può giurarci
che non è il dizionario
sostanza volatile e convenzione,
e d’altronde garantirci
che al bulbo oculare è fatalmente promesso
un suo linguistico umore?
Quale tra duemila discorsi può dirsi metadiscorso
e quale discorso può dirlo tale
senza che f(x) tenda a più o meno infinito?

Può davvero una paleontologia reperire
un uomo solo sessuale
svincolato da ogni sovrasistema di segni?
Può davvero ogni paleontologia
dirsi empirica e scongiurare il falso
pur conservando l’incanto dei giochi verbali
che pensano un essere antico,
diamante non mitico di tempi lontani?

Chiamavano culto
il libro la zappa il divino:
da intrecci etimosostanziali sintesi promossa
o solo decollata arbitrarietà dei segni e delle cose?
Per soma simbolica schizofrenici,
per soma corporea fatti schiavi e collezionisti di scarlattina,
ineluttabilmente chiediamo.

 

Da “Discredito dell’uno” (seconda sezione) 

Ipotesi per una detonazione

Sarebbe da seminare tritolo
sotto la scorza delle lingue
e finalmente disertare
questo codice d’onore
che ci rende facili i gesti
in grazia di morte intelligibili

 

Essere e significare

A scanso di equivoci e
Cronicamente equivoco
Recuperato dal fondo
Ottenebrato in luce e
Stocastico e irrimediabilmente rimossa la provenienza e
Trasferito sulla superficie degli esseri
Idiomaticamente sovrapposto a se stesso
Con cura di
Oblio

 

Da “Incarnazione del Verbo” (terza sezione)

Artigiano confuso

Io sono
un artigiano confuso
il diapason di una materia
l’esatto pensiero del cosmo

Possiedo
scriteriata intuizione di Dio
il verso come autentica tragedia
il verso come unico mezzo

Nato in secolo ventesimo
trapassato impunemente il millennio
confermato bipede
per condonata sopravvivenza scrivo

 

Copulazione

In brevi formule nascoste lunghe
facoltà di qualificazione e
abilità di sostanziare le potenze
e sgrammaticarci tutti

Se ogn’altra vendemmia è un furto
se ogn’altro incesto è proibito
a impiastrare i corpi a due a due
a irrigare noi terre solcate
vieni

 

Antonio Francesco Perozzi
Essere e significare
Oèdipus Editrice, 2019, pp. 88

Biografia di Antonio Francesco Perozzi


 

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