ANNA SANTORO, Matilde Serao

Su Matilde Serao, tra le pochissime scrittrici italiane riconosciute dai critici, non cancellate dalla memoria collettiva e nominate nei testi scolastici, si è scritto molto, mai però uno studio completo che desse ragione della complessità della sua opera 1. Così molti  sono i nodi che, in spazi più ampi di questa nota,  bisognerà affrontare e cercare di sciogliere: la qualità della sua scrittura, la funzione che esercitò come giornalista e come scrittrice, e ancora il rapporto con la “questione femminile”, il rapporto tra vita quotidiana e personaggio pubblico, eccetera.

Certo è che quello di Matilde è un caso interessante: scrittrice di talento, la Serao ha al suo attivo una quarantina di romanzi e raccolte di novelle, un’attività continua di giornalista, l’essere stata fondatrice e direttrice di giornali, una costante attenzione da parte del suo vasto pubblico, un riconoscimento, sia pure parziale, da parte della cultura ufficiale ai suoi tempi e ancora oggi.

Nata a Patrasso nel 1856 da Francesco Serao e Paolina Bonelly, donna colta e aristocratica che contribuiva al bilancio familiare facendo lezioni private, Matilde trascorre in povertà la sua fanciullezza a Napoli, dove consegue il diploma di maestra nel 1876.

Impiegatasi ai Telegrafi di Stato, inizia contemporaneamente a collaborare ad alcuni giornali e a pubblicare novelle. Morta la madre amatissima nel 1879, due anni dopo si trasferisce con il padre a Roma e diventa collaboratrice fissa del «Capitan Fracassa». Ha così inizio la carriera giornalistica di Matilde che prosegue con la collaborazione ad altri giornali, come il «Fanfulla della Domenica», la «Nuova Antologia», la «Cronaca Bizantina».

Assieme a Edoardo Scarfoglio, sposato nel 1884 e con il quale avrà quattro figli, fonda il «Corriere di Roma», il «Corriere di Napoli», «Il Mattino».  Nel 1904 si separa dal marito, costruendosi una nuova vita familiare con l’avvocato Giuseppe Natale con il quale avrà la figlia Eleonora,  e fonda «Il Giorno» che sopravviverà di un solo mese alla sua morte nel 1927.

Della sua vastissima produzione, ricordo in particolare Leggende napoletane  e Cuore infermo (1881); Fantasia (Casanova, Torino, 1883); La virtù di Checchina e Il ventre di Napoli (1884); Scuola normale femminile (Nuova Antologia, Roma, 1885); Il romanzo della fanciulla (1886); Vita e avventure di Riccardo Joanna (Milano, 1887, ma riveduto e ripubblicato con il titolo I capelli di Sansone, Perrella, Napoli, 1909);  Il paese di Cuccagna (1891); Gli amanti (III edizione, Napoli, Perrella, 1908); Piccole anime (Baldini e Castoldi, Milano, 1902); Storia di due anime (Nuova Antologia, Roma, 1904); Telegrafi dello Stato (Perino, Roma, 1895);  Dopo il perdono (Nuova Antologia, Roma, 1905); Evviva la vita! (1908); Ella non rispose,  Addio amore ! e  Castigo (1914); Mors tua vita mea (1926).

La passionalità, la forza, la centralità dei suoi personaggi femminili più riusciti, sono anche le caratteristiche di sé che, più di altre, a Matilde piace evidenziare. Sia come narratrice sia come giornalista, infatti, Matilde rappresenta di  sé e dei suoi personaggi femminili l’unità stretta tra testa e corpo, tra passione e intelligenza critica, tra partecipazione e distacco. Perfino la sua scrittura che spesso parrebbe “spontanea” (e a volte lo è),  e che è, sì,  certe volte, sgrammaticata, prolissa, fa parte di questa immagine.

Fa parte di una immagine costruita dalla stessa Matilde: quella della scrittrice (e della giornalista) che scrive di getto, appassionatamente, sull’emozione del vissuto o sul filo della memoria, attingendo alla propria conoscenza di ambienti e tipologie, senza fermarsi a correggere e a limare 2. Come i suoi personaggi femminili danno vita ad un immaginario forte nei riguardi delle donne,  destinato però a mutare di lì a poco, Matilde è assieme l’ultima esponente di una certa tipologia di scrittrici del’800 e la prima di un’altra, proiettata verso il secolo successivo. Raccoglie una eredità, una tradizione di presenza e di scrittura femminile che di lì a poco andrà scomparendo, eppure anticipa anche dei tratti della “donna futura”. Come già nella tradizione ottocentesca femminile, Matilde ama rappresentare ambienti borghesi, aristocratici, popolari, perché tutti frequenta, cogliendo in ciascuno di essi elementi caratterizzanti. Si sofferma, come altre scrittrici, sui temi che abbiamo segnalato, come il matrimonio di convenienza, la capacità di amore come privilegio femminile, gli antagonismi tra i due sessi di sguardo e di comportamento, le condizioni di lavoro delle donne, eccetera, e, come altre, allarga la denuncia su questioni non “specificamente femminili” ma che uno sguardo femminile sa cogliere bene, forse perché parte dal quotidiano, dalla vita.

Ma inserisce elementi di grande novità. Per esempio la denuncia ferma dell’usura e della presenza della camorra, la capacità di cogliere il doppio della cultura meridionale, sono prese di posizioni inedite nella letteratura.

Il punto è che il  suo “campo d’ambiguità” nell’opera letteraria, per quel che riguarda la mediazione con la tradizione letteraria, con i critici, con gli editori,  è ridottissimo. Matilde riesce a creare il suo pubblico, cerca lettrici e lettori dove sa di trovarli. Nelle sue opere migliori riesce a dire esattamente ciò che vuole e come vuole. Nella vita reale è, in certo senso, prepotente, ambiziosa, sicura di sé. Soggetto forte, si procura visibilità, attenzione, Potere. Con le donne crea sì comunanze, ma svela loro anche pieghe dei loro comportamenti, dei loro sentimenti, della loro mentalità, poco piacevoli: svela debolezze, perbenismo, ipocrisia, abitudine all’autodistruzione.

Comprendere Matilde è comprendere che, una volta chiarita la nozione di differenza, di  punto di vista, di scrittura e lettura di genere,  ciascuna donna è diversa dalle altre e ciò che è importante in Matilde è l’autonomia, la soggettività con cui si muove, con cui costruisce un “esempio”, il suo esempio di essere donna, scrittrice, giornalista, imprenditrice.

Comprendere Matilde serve anche a leggere meglio le altre scrittrici, perché lei riesce a lavorare con una raggiunta libertà di scrittura, e di visibilità, che altre non ebbero, impegnate, giustamente, nella rivendicazione dei diritti, “distratte”, direbbe Virginia Woolf, dalla dimostrazione di assunti, coerenti in scelte etiche necessarie per il loro tragitto e per quello delle altre. Matilde semmai, è “distratta”, riguardo l’opera letteraria, dalla pratica giornalistica e dalla volontà di comunicazione, che le tolgono tempo ma le offrono pubblico.

Così, la novità sta anche nel fatto che Matilde, sebbene crei relazione preferenziale con le lettrici, e sebbene adotti un taglio fortemente critico nei confronti delle violenze e delle prepotenze del Potere, non  si presenta come “donna che scrive per demistificare le mentalità e svelare  violenze”. Ma sta di fatto che, nei racconti, nei romanzi,  Matilde accomuna gli uomini, da qualsiasi classe provengano, in una febbrile ricerca di danaro, di successo, di avventure amorose, di passioni, ma con un, direi, passivo attraversamento della vita. Il cinismo o la vacuità, la freddezza o l’inconsistenza dei personaggi maschili, rappresentati senza nessuna animosità, anzi a volte con la tenerezza di una superiorità quasi materna, ha come controcanto la rappresentazione dei personaggi femminili che sempre, siano essi fragili, puri, superficiali, crudeli, sono centrali della scena.

Le donne di Matilde sono attrici, nel senso che agiscono: si accollano la soluzione dei problemi economici, osano dichiarazioni appassionate, sfidano la società e la morale corrente e, se vinte, si uccidono. Gli uomini, invece, sebbene spesso, travolti dagli eventi, minaccino gesti definitivi, non si uccidono mai.

In tutto il primo periodo (più o meno fino a Il paese di cuccagna) Matilde è soprattutto attenta, grazie alla lezione del naturalismo francese (specie Flaubert e Zola) e della grande tradizione napoletana, ma anche grazie alla tradizione femminile non solo napoletana e alla sua stessa inclinazione, alla rappresentazione della realtà circostante, alla “lettura” della esperienza vissuta prevalentemente in ambienti popolari e piccolo borghesi.

Prendono vita così e entrano nella tradizione letteraria inediti tagli di scenari, si consolidano miti e oggetti di attenzione, tutti elementi che fanno dimenticare la sovrabbondanza, gli errori, le pesantezze, le lungaggini. Ed è straordinaria la capacità di rappresentazione dei percorsi psicologici dei suoi protagonisti e la capacità di connotare, all’interno della folla che la scrittrice va rappresentando, le comparse, ciascuna di queste resa riconoscibile in poche righe grazie alla rappresentazione dei tic, del modo di vestire e di muoversi, della sua fisicità. L’attenzione alla fisicità di tutti i personaggi, e specie di quelli femminili, è certamente un tratto distintivo della prosa di Matilde, e, attraverso quella, la lettura dei caratteri.

Matilde racconta storie con sapienza di affabulatrice. Anche in lei funziona il ricordo del racconto orale, delle donne. Nello scrivere è letta dal testo, nello scrivere ascolta il suono della sua scrittura, delle parole, dei toni, perciò a volte ci sono ripetizioni, perché nell’oralità funzionano. Ma non è sciatteria, non sempre, è una tecnica precisa che include anticipazioni 3, piccoli richiami, giudizi, commenti, e così svela e tiene sospesi.

Le descrizioni  minuziose dei corpi, dei paesaggi, del cibo, a volte anche troppo lunghe, sono sempre funzionali a rappresentare un mondo, un modo di essere, a ricostruire i contesti nei quali si muovono i suoi personaggi, proprio al fine di sottolinearne la verità e la complessità. Ed è anche grazie a questa felicità di rappresentazione che Matilde diviene creatrice di un  immaginario riguardo le usanze, i comportamenti, il colore della cultura napoletana. Questo immaginario, che con lei fu pura invenzione poetica, lettura attenta di un mondo del quale Matilde cerca le peculiarità profonde, diverrà poi di repertorio, ingombro di metafore d’uso, e alimenterà successivamente, rinnovandosi, anche l’opera di importanti autori napoletani fino a Marotta, De Filippo, Troise.

Matilde porta avanti anche operazioni di svelamento di grande interesse, grazie alla rappresentazione dei contrasti, alla capacità (propria del suo punto di vista femminile) di cogliere nei comportamenti, e dunque nel costume, le crepe dell’animo umano e le ragioni sociali che a loro volta sono alla radice degli stessi comportamenti e della stessa cultura. Per esempio la passione del gioco, le ragioni dell’affidamento al gioco da parte del popolo napoletano e le sue tragiche conseguenze, sono elementi centrali dello scenario che Matilde va rappresentando. Il lotto è, spiega ne Il ventre di Napoli,  il sogno del napoletano: tutta la settimana egli aspetta l’estrazione e si nutre dei progetti che fa, dopo l’estrazione e la conseguente delusione, riparte per un’altra settimana di speranza. Nel racconto, Il terno al lotto, la verità dell’opera supera la razionalizzazione del fenomeno che Matilde aveva operato nella scrittura giornalistica, e il sogno del lotto viene svelato come inganno. Ed è tutta nuova la tecnica (che userà ancora) per dare ritmo e movimento alla narrazione: pura tecnica teatrale. Il Terno è una sorta di testimone, di oggetto scambiato (i numeri che passano da una mano all’altra, dalle labbra alle orecchie di persone diverse) sotto il riflettore sul palcoscenico, è la finzione per rappresentare un insieme, un elemento dopo l’altro, uno sfilare di immagini, di figure, di storie. Il danaro, invece, è una sorta di testimone assente: è alla sua ricerca che si mobilitano personaggi di Il paese di cuccagna, o di Vita e morte di Riccardo Ioanna. E in quel caso la scrittura diventa vorticosa, martellante, cadenzata, e ci obbliga a seguire il giro affannoso per la città, alla ricerca di una cifra che man mano diviene sempre più piccola, perché le pretese, rifiuto dopo rifiuto,  si riducono sempre più all’indispensabile, giusto quel tanto che serva ad opporsi al disastro.

Sul Lotto, sul Gioco, Matilde tornerà più volte e in modo compiuto ne Il paese di cuccagna, bellissimo romanzo dove la descrizione minuta dei corpi, degli atteggiamenti, del modo di muoversi, di camminare, dei vestiti e dei dolci, dei gelati, del gusto del mangiare, mette in primo piano il corpo 4, la fisicità dei caratteri e occupa la pagina traboccandone, offrendo un esempio importante di dilatazione spaziale della scrittura. Matilde, è stato scritto, riprende la descrizione della povertà, del mondo sommerso e sconosciuto che era stato già rappresentato da Mastriani e dalla Mario, da Fucini e da Villari. Ma qui questo mondo del degrado è strettamente collegato a un mondo di operosità 5. Nella rappresentazione dei quartieri napoletani, c’è un brulicare di attività: guantai, calzolai, sarte, dolciari, lavoratori a tempo, artigiani, venditori, commercianti, tutto quel mondo artigiano, che sarà ucciso dall’industria e che qui è ucciso dal Lotto e dall’incuria dello Stato. In contrapposizione, la Napoli del gioco, della corruzione, della follia: il guappetto elegante mantenuto dalla fidanzata, che invece s’industria in mille attività, i cabalisti (che si riuniscono presso il Marchese a discutere con accanimento di Lotto, di giocate, di calcoli di probabilità e di magia), gli usurai, ricchi riveriti e ammirati, i camorristi, i professori universitari che vendono esami e imbrogliano alunni contadini, una folla di personaggi (sventati, vanitosi, avidi, deboli…) dei quali conosciamo gli affanni e dei quali seguiremo la dissoluzione.

Tutti a causa del gioco e dell’usura si perderanno, tranne Cesare, che scoprirà in Luisella, la moglie, una forza e un’energia non immaginata: sarà Luisella a prendere in pugno la situazione e a salvare il salvabile. Perché, come già sottolineavo prima, anche ne Il paese di cuccagna gli uomini sono o deboli come Cesare, o avidi come Don Gennaro, o pazzi come il Marchese. Lo stesso medico innamorato di Biancamaria è freddo, tutto scienza, non ha il coraggio di incidere sul reale, è l’incarnazione della scissione tra scienza e cuore: non ha mai amato, non sa amare. Le donne, Luisella, Carmela, Biancamaria, le altre, sono sì vittime del Potere pubblico (maschile) e privato (padre, marito, amante), ma, a conti fatti, esse agiscono, si prendono cura, operano, pensano, soffrono, fanno e qualche volta rimediano. Sono loro i soggetti e attorno, al fondo, di lato, ci sono i personaggi maschili.

Ed è così anche nella realtà della cultura meridionale, ed è Matilde a notarlo. Come è propria della cultura meridionale, ed è Matilde a coglierla per prima, quella specie di reificazione del divino, quell’atteggiamento alla pari che il popolo napoletano mantiene con la sfera del sopra naturale 6. La fortuna, la superstizione, il mistico, il demoniaco, l’ultraterreno sono strettamente collegati. E sono strettamente collegate la coscienza della drammaticità degli eventi che ha Matilde e la sua propensione a giocare anche, per esempio su coloro che discutono di numeri, di visioni, di illuminati, di ispirazioni…

A fare da tramite tra le sfere del soprannaturale e la realtà c’è l’assistito. L’assistito è chi (si spaccia per chi) vede gli spiriti, parla con loro e da loro riceve i numeri che lui stesso però non può giocare. Così vende, sempre con un fare misterioso e sfuggente, le indicazioni degli spiriti ai patiti del lotto. Di questa febbre del gioco, che ricorda Dostoevskij de Il giocatore (1866), e che sta a dimostrare il rapporto di Matilde con gli scrittori russi molto prima di quanto comunemente non si annoti, le ragioni sono da cercare, insiste Matilde, sì nella povertà, ma soprattutto nello sfruttamento dello Stato, lontano e disinteressato ai problemi e alla cultura di Napoli. Grazie al Lotto lo Stato guadagna (“prende ogni anno sedici milioni alla città di Napoli… e a tutta la patria italiana sessantacinque milioni”), il Lotto è il Paese di Cuccagna.

Il Lotto, lo Stato, sono i nemici di Cesare, di Luisella, di Biancamaria, e Matilde lo sottolinea quando racconta la ricerca del danaro da parte di Don Crescenzo, il tenutario del Lotto, che parrebbe in fondo persona innocente ma che alla fine comprende (e Matilde lo svela) che è giusto il suo castigo perché lui ha tenuto “bottega di quell’infamità”.

E c’è di più: la vicenda dell’usuraia che preferisce prestare cose, cioè stoffa per il vestito e non soldi per comprare la stoffa, mostra come, sulla base di bisogni o di desideri di gente comune (che però costituiscono anche i primi segni della “società dei consumi”),  prosperi l’usura e la camorra allarghi il giro degli affari, ponendosi entrambe come (illusorio e ingannevole) riferimento per quanti senza queste “istituzioni” non saprebbero a chi rivolgersi. Anche la cultura del  “campare alla giornata”, a leggere le pagine di Matilde, in qualche modo diviene più chiara. Non solo tutte queste persone vivono giorno per giorno alla ricerca del danaro, ma la vicenda dell’usuraia, che dà ogni giorno un piatto di pasta al mendicante di turno e non denaro, è illuminante: lei soddisfa la pietà che avverte nei confronti del disgraziato, ma non la confonde con il suo “lavoro”, così conferma in lui l’abitudine di affidarsi alla sorte giorno per giorno.

Ne La virtù di Checchina, Matilde, in apparenza limitandosi a raccontare un fatto, svela questa volta la natura reale della “virtù” piccolo e medio borghese, tanto decantata dalla pia letteratura e anche dalla letteratura reazionaria-educativa di quegli anni: la moglie devota, fedele e attenta a far quadrare i bilanci avaramente o sbadatamente amministrati dal marito, si rivela una povera disgraziata che rimane “virtuosa” perché non riesce a liberarsi dai miti legati all’apparenza, e rimane paralizzata nella contemplazione della propria “povertà” 7. Ma, sempre ne La virtù di Checchina, c’è un secondo svelamento egualmente importante. Matilde sottolinea che, se le donne non compiono uno scatto d’orgoglio, un atto forte di fiducia in se stesse, l’alternativa a codesta scialba “virtù” può solo consistere nella egualmente scialba e banale relazione con il mediocre aristocratico di turno.

Diversa la produzione del 900: in essa, a parte la vena più o meno consistente di misticismo in opere che vanno da  Nel paese di Gesù (1898), La Madonna e i Santi (1902), S. Gennaro nella leggenda e nella vita (1909), i critici hanno sottolineato l’influenza dei grandi narratori russi e dell’amato Bourget.

A mio avviso, in Dopo il perdono, Addio amore, Castigo, le qualità segnalate precedentemente si sono perse. Questi romanzi borghesi e sentimentali mi appaiono noiosi, prolissi, lenti. Le donne e gli uomini, prevalentemente dell’alta borghesia, vengono presentati nei loro stereotipi più diffusi (la protagonista di Dopo il perdono è  “solitaria”, “orgogliosa”, “bellissima”; Cesare, protagonista di Addio amore e di Castigo ha 40 anni, è cinico, pallido, elegante 8), certe descrizioni che dovrebbero essere drammatiche, finiscono per esser patetiche o ridicole. La scrittura è spesso gonfia, sciatta, e non c’è invenzione di trama, sebbene si cerchi una originalità, pescando in suggestioni che apparterranno anche alla moderna telenovela. Le protagoniste di questi romanzi,  bellissime, orgogliose e solitarie,  ripropongono l’edificazione di questo mito della donna sublime, appassionata, che si dà tutta, e recuperano le metafore del pallore, della malinconia, della malattia d’amore, della TBC, così frequenti nella narrativa (maschile) del tempo, a cominciare dalla produzione dannunziana, stereotipi già attaccati da altre scrittrici  e derisi nella vita da Matilde 9.

Da questi romanzi si distacca Evviva la vita ! per l’impianto ambizioso, debitore anche esso, si dice, nei confronti della letteratura russa. Eppure anche questo romanzo, storia delle aridità di donne e di uomini, è noioso, con bellissime e lunghissime descrizioni, troppo autocompiaciute, con un titolo troppo simbolico. A mio avviso, Matilde con questi romanzi “borghesi” fa parte della schiera di narratori d’amore di stampo dannunziano.

Eppure alcuni segni mi inducono ad una maliziosa lettura del rapporto letterario tra Matilde, D’Annunzio e dannunziani: Matilde conosce bene la fortuna di D’Annunzio, chiamato come collaboratore a Napoli da lei e da Scarfoglio, conosce bene la sua prosa, le sue descrizioni di ambienti e di personaggi, delle donne che si perdono per passione, degli uomini che affondano nel cinismo, nella freddezza, nel  pallore. Ma attenzione: a Napoli in quei primi anni del 900, ci si divertiva a prendere in giro (come accade ancora oggi) personaggi famosi.

Agli amatori di curiosità del passato è nota la dissacrante canzoncina che prendeva di mira il buon Gabriele 10, ed è nota la querela che ebbe Scarpetta, nel 1904, per aver scritto e rappresentato Il figlio di Iorio, dissacrante “risposta” al poeta pescarese: il dramma diveniva commedia, farsa, e le situazioni, completamente capovolte, da drammatiche si rendevano ridicole. Allora, ritornando a questi romanzi che riprendono atmosfere dannunziane, quella sorta di decadentismo di maniera, quella esasperazione della morbosità grottesca della passione che sfiora (e a volte affonda nel) ridicolo,  viene da chiedersi se Matilde non partecipi anche in questo alla propria cultura, e se dunque essi non siano, se non una presa in giro dei personaggi e degli ambienti dannunziani, una sorta di svelamento attraverso l’esasperazione di miti, atteggiamenti, ambienti, caratteri, resi popolari da D’Annunzio e dannunziani 11.

Le donne di questi romanzi appaiono, in tal caso, proiezioni della visione maschile, e servono a svelare altro 12. Perché, se questa è la chiave, comprendiamo meglio come in questi romanzi Matilde edifichi, sì, il mito romantico-decadente della passione convulsa, quasi tetra, alla quale non ci si può opporre, passione travolgente, unica nella vita, che non coincide mai con l’amore matrimoniale che, quando c’è, è altra cosa, ma leggiamo con chiarezza anche che il matrimonio è un patto senza amore dovuto a convenienza, una convenzione sociale 13, che la gelosia e l’egoismo sono caratteri distintivi dell’uomo, e che la passione, che pure è una “capacità” femminile 14, precipita le donne nella disperazione quando esse non la vivano come forza, come autonomia sentimentale ma come ricatto affettivo che finisce per essere autodistruttivo. Leggiamo che l’uomo non sposa colei per la quale nutre passione perché l’uomo non sposa colei che non può controllare, che la responsabilità del tradimento delle donne è del marito, che le donne che si separano e vanno via con l’amante (come fa anche Matilde) sono le più oneste perché non sopportano l’ipocrisia 15.  E perfino la distinzione, in apparenza sostenuta da  Matilde (ma, francamente in modo per lo meno risibile) tra persone comuni e quelle eccezionali, alle quali tutto è permesso, diviene, grazie a questa chiave di lettura, un ulteriore svelamento 16.

Credo che Matilde, oltre che nella sua produzione sopra segnalata,  la si debba cercare anche in libri o racconti poco conosciuti dal grande pubblico oggi 17. Per esempio in alcuni racconti compresi nella raccolta Gli amanti. Dedicata a Eugenio Torelli Violler “con inconsolabile rimpianto”, la raccolta è, nella prima parte,  una piccola galleria di amanti: uomini imperfetti, tutti tristi e passivi, o troppo perfetti ma sempre parziali nel senso di “non interi”. Le storie, una sorta di confessione solitaria o ad una amica, che vengono raccontate in prima persona  dalla protagonista, diversa ogni volta ma sempre bella, giovane, piena di vita, legittimano tutte, in qualche modo, la libertà sessuale pari per uomini e donne, rivendicano la nozione di amore come unità tra passione e sentimento, sottolineano la limitazione maschile che invece sdoppia le cose 18. Dal quarto racconto si chiude la rassegna della tipologia degli amanti ma qualche altro racconto va segnalato: Nella via. Vicenzella,  quadretto di vita napoletana; il tenerissimo La veste di seta. Madame la marquise 19;  Un suicidio. Julian Sorel, esemplare di quanto si diceva all’inizio del fatto che gli uomini, per quanto disperati non si uccidono mai;  L’ineluttabile. Miss Geraldine, storia di una ragazza grassissima.

Questi racconti, misurati e ben scritti, ironici in modo sottile e allusivo, con una scrittura lontana da quella di certi  suoi romanzi troppo sovrabbondanti, ci aiutano a capire l’ironia di Matilde e mi sembrano un’ulteriore conferma alle ipotesi fatte prima, a proposito di una sorta di svelamento per le rappresentazioni stereotipate di certa narrativa alla moda.

In quanto alla sua professione di giornalista 20, una rapida occhiata ai suoi interventi ci aiuta a capire la funzione intellettuale e politica che svolse Matilde Serao, grazie ad una acutezza di sguardo e, direi, ad una sincerità propria della sensibilità e della passionalità femminile. Matilde gioca a volte sul sentimentalismo, ma senza mai cadere nel patetico, riuscendo così a cogliere delle verità di grande attualità.

Si pensi al Ventre di Napoli. Nel 1884 c’è stato un terremoto che in pochi giorni ha provocato più di 6.000 morti. Depretis decide di “sventrare Napoli” e Matilde attira l’attenzione su che cosa effettivamente significhi quella espressione, su cosa sia effettivamente quel “ventre” di Napoli. Più tardi, sul “Giorno”, attaccando sindaco e assessori,  denuncerà che sullo “sventramento” si è speculato perché le case costruite per il popolo, il cosiddetto Risanamento, sono andate a tutti tranne che al povera gente. Sventrare Napoli ha in realtà gettato tantissime persone nella strada, obbligandole a dormire in tuguri, in baracche, nelle grotte, così immensa è rimasta la “miseria del lavoratore” 21.

Sul giornalismo,  Matilde scrive pagine importanti ne I capelli di Sansone,  storia di Riccardo Joanna, figlio del mediocre giornalista Paolo 22. Interessa poco qui verificare se il romanzo racconti un pezzo della sua storia (in qualche occasione Matilde ha negato che ci fossero rapporti, sebbene molti riscontri siano possibili: il padre mediocre e onesto giornalista, l’inizio della professione, le difficoltà, la passione, l’ambizione, vicende e sentimenti che appartengono a Matilde e che qui vengono narrate al maschile). Ciò che interessa è che, accanto alla sublimazione di eventi, di personaggi, di stati d’animo (l’atmosfera del giornale, l’odore della tipografia, le difficoltà economiche, la ricerca per recuperare soldi e far sopravvivere il giornale…), accanto alla glorificazione di quel mondo e di quel mestiere, c’è lo svelamento di quanto un giornale dipenda non da fatti ideali, ma da questioni economiche e politiche. Ricordo in particolare la rappresentazione articolata del cinismo imprenditoriale, delle miserie della politica, della grande funzione massmediatica del mezzo di comunicazione che inventa politici e mode 23.

La forte unità tra la giornalista e la scrittrice (predilezione di certe tematiche, veemenza della parola, amore per la denuncia, carica ironica, passionalità) crea unità anche con la Matilde imprenditrice, fondatrice e direttrice di giornali. Matilde è la prima donna in Italia a riuscire a portare avanti un progetto di visibilità e di attenzione a sé e alla propria opera. Anche in questo è anticipatrice: osa entrare in un mondo che non appartiene alle donne, osa usare gli strumenti  e i percorsi reputati maschili, comprende a pieno il valore (anzi: l’assoluta dominanza) dei mezzi di comunicazione di massa e riesce a creare una immagine di sé come risultato di un rapporto felicissimo tra il personaggio pubblico e la verità quotidiana, tra i suoi sentimenti e ciò che scrive. In breve: Matilde osa vincere.

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1  Anzi, a mio avviso,  la sua stessa fortuna ha alimentato una lettura di tipo “neutro” e allo stesso tempo il taglio “neutro”  delle letture (sebbene sempre sia stata sottolineata l’attenzione di Matilde, ma ritenuta ambigua, al femminile) ha permesso la sua fortuna. Così come è accaduto, sia pure con diverse modalità, ad autrici come Grazia Deledda o Ada Negri: la prima ottenne il Nobel nel 1926 e la seconda fu nominata Accademica d’Italia nel 1940.

2  Anche Riccardo Joanna, il giornalista protagonista di I capelli di Sansone, quando scrive, butta di getto nell’articolo il suo cuore, i suoi sentimenti, le sue passioni e non si ferma a correggere.

3  Ad esempio, il moto di paura che ha Luisella Fragalà quando nota quel poveraccio (e mascalzone) dell’assistito alla sua festa è già l’anticipazione di quello che accadrà. Anche chi legge annota la presenza inquietante perché Matilde, appunto con tecnica di anticipazione, crea nei suoi riguardi una suggestione che sarà poi confermata dai fatti.

4  Molte altre scrittrici dell’epoca si impegnarono in questa operazione di visibilizzazione del corpo. Si pensi, per esempio, a Fanny Salazar.

5  Che aveva colpito anche Grazia Mancini, come ci racconta nel suo Diario, cit.

6  Non bisogna aspettare Edoardo per avere personaggi come il vecchio Marchese di Formosa che con una statua di Cristo si rapporta come con una persona con la quale scambiare dispetti e prove di forza : fa spegnere l’olio avanti al quadro perché non gli ha fatto la grazia (cioè quella di vincere al Lotto) o addirittura lo annega in un pozzo. E ricordiamo anche il padre del protagonista di Ricomincio da tre di  Massimo Troisi.

7  A fermare Checchina è la paura di come al portiere potrà apparire, è la paura che il suo “essere” dipenda, sia fatto,  dallo sguardo di un altro. Il  peso dello sguardo dell’altro sul comportamento femminile, sulla sua coscienza, sulla sua autonomia, è svelato da tutte le scrittrici che operarono in Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi del ’900. Si pensi alla  Marchesa Colombi e alla sua nitidissima analisi, in Un matrimonio in provincia (Cfr. A. Santoro, Il fatto è che ingrasso, cit.). Penso anche a Fanny Salazar e a tante altre, che hanno  ammonito le donne a non guardarsi con lo sguardo dell’altro. Allo stesso modo,  lo svelamento del peso paralizzante dei valori tradizionali viene portato avanti anche da altre scrittrici dell’800. Penso a Rosalia Piatti, Luisa Saredo, Maria Savy Lopez, Elda Gianelli, eccetera.

8  Anche Riccardo Joanna ama dare di sé l’immagine di bell’intellettuale, immerso nei propri pensieri, pallido, altero eccetera.

9  Anna si consuma d’amore per Cesare e pensa che la morte sia la cosa migliore. E dice : «Non vi è propriamente una malattia letale che si chiami passione: i medici non l’hanno mai trovata facendo l’autopsia del cadavere. Ma la passione è così sottile ingannatrice, che ella è in fondo di tutte le malattie mortali.  Essa è nella tisi che fa agonizzare per anni coloro che amarono troppo, che non furono abbastanza amati; essa è nei mali del cuore, in quel cuore che dilata sotto l’onda dell’emozione passionale, che si serra nella disperazione; essa è nelle lunghe anemie… nelle nevrosi… (in Addio amore, cit., p.125). Lo spleen era stato duramente attaccato da Fanny. Sono interessanti le notazioni, a questo proposito, di Susan Sontag,  in  Malattia come metafora (Einaudi, Torino, 1989).

10  Il Superuomo era una canzoncina  portata al successo dal cantante Nicola Maldacea: «Signori, io non son uomo, né sono gentiluomo / né sono galantuomo, io sono un superuomo ! / Perché nel protoplasma del padre mio che fu / del tipo antropologico v’era qualcosa in più».

11  Si ricordi che Fanny Salazar, amica di Matilde, aveva avuto espressioni forti contro una certa tipologia di letteratura, deformatrice della mentalità e dei comportamenti delle ragazze.

12  Un elemento comune in tutte queste storie è la presenza della “noia”: viene rappresentato uno scenario dove le donne (ma anche gli uomini) si annoiano quasi sempre, e noi dobbiamo riflettere sul fatto che Matilde, sempre presa dal lavoro, certo non si annoiava. Dalle sue lettere inoltre sappiamo che disprezzava un poco quel bel mondo con il quale comunque aveva relazione per la sua professione. Mi pare dunque sia lecito pensare a uno  svelamento della vacuità del mondo borghese-aristocratico radicalizzata dalla letteratura nell’immaginario comune.

13  Lo svelamento della ipocrisia riguardo al matrimonio, già presente in Matilde ne La virtù di Checchina, è un tema dominante in tanta letteratura femminile dell’800. Cfr. A. Santoro, Narratrici…, cit.

14  In Dopo il perdono (cit.) Marco abbandona l’amante, convinto che la passione per entrambi sia spenta. Ma, aggiunge, nel caso lei lo amasse, lui si ucciderebbe per la propria “inferiorità morale”. Anche lui ritiene che solo le anime sensibili e morali possano amare. Sull’amore come “capacità femminile” (cfr. A. Santoro, Il fatto è che ingrasso, cit.).

15  Certo Marco, protagonista di Dopo il perdono,  è ineffabile, come lo erano i personaggi maschili di Carola Prosperi e di altre (cfr. A. Santoro, Il Novecento, cit.). Marco, infatti, parlando di Vittoria, la moglie tradita, e lamentandosi del fatto che lei è sempre triste e non si accontenta del bene che lui le vuole (ma non l’ama), a sua madre che gli chiede cosa Vittoria dovrebbe fare, risponde: «Amarmi per me, madre, non per sé: tutto dare e nulla chiedere: esser felice che un uomo… trovasse in lei la pace di un affetto tranquillo: essere la serenità istessa: essere, infine, la moglie cristiana…» (p. 240).

16  Maria e Marco, in Dopo il perdono e Castigo,  hanno “rotto le regole”  che pretendono però siano osservate dagli altri, e questo perché essi sarebbero “speciali”.

17  P. Pancrazi fu forse il primo a segnalare la compiutezza dei racconti di Matilde, paragonandola a Checov o alla Mansfield (cfr. P. Pancrazi, Introduzione a M. Serao, Milano, 1944-46, p. 673).

18  Elemento curioso di questi racconti (ma anche altrove, in Matilde e in qualche altra scrittrice) è la frequente descrizione di uomini che piangono molto. È un topos letterario? Nato come e perché? Era una realtà che gli uomini piangessero tanto o è  Matilde a badarvi e a trovare giusto scriverne? Era maggiore sensibilità delle donne di ieri a svelare l’altra faccia della maschilità o esse stesse avevano ancora un immagine dell’uomo non del tutto segnata da quella maschera di machismo a cui contribuì molto la società moderna e specie il fascismo che radicalizzò ancora di più i ruoli? Insomma piangevano gli uomini più di ora senza vergognarsene o le donne erano più attente e pensavano fosse giusto raccontarlo? Nella tradizione meridionale, molte canzoni a soggetto maschile rappresentano lacrime d’amore.

19  Abbiamo segnalato che Matilde usa spesso vocaboli logori e a volte addirittura sgrammatica, ma è capace anche di una scrittura che anticipa certe suggestioni alla Ortese, quando scrive: «la sua bellezzina bionda e pallidetta».

20  Matilde è «la prima vera giornalista italiana», sottolinea la De Giorgio (in Le italiane…, cit., p. 490), e certamente quella meglio pagata, quella cioè che, con il suo lavoro, guadagna la rispettabile cifra di 700 lire al mese nel 1882 (cfr., ivi, p. 393).

21  Si badi a questa espressione, perché, lo abbiamo già notato nei romanzi, Matilde rappresenta sempre i poveri di Napoli come lavoratori.

22  Col nome di Paolo Joanna, a volte Matilde firma sui giornali.

23  C’è anche la smitizzazione dei duelli, dei quali Matilde elenca i costi: se si è feriti, se si ferisce, se la ferita è grave.


 

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2 Risposte a “ANNA SANTORO, Matilde Serao”

  1. Acuto completo questo saggio che getta luce sulla feconda attività intellettuale di Matilde Serao, grande protagonista della cultura di fine ‘800. Bello e suggestivo anche il diario che la scrittrice redasse nel 1889: “Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina”. L’ho letto soltanto un anno fa, ma ne conservo un fascinoso ricordo.
    Grazie, Anna Santoro!
    Un saluto a Giorgio Moio,
    Rosaria Di Donato

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