ANNA MARIA VANALESTI, “Liceo classico” di Francesca Farina

Francesca Farina ci ha abituato ad una scrittura fluviale, in cui la storia prescelta si dilata ad onde concentriche, mantenendo però uno stile impeccabile ed elegante, che trascina il lettore per infiniti meandri, in cui luoghi, personaggi ed eventi si intersecano e vanno a comporre un complesso e grande edificio. Così è accaduto nel suo primo romanzo Casa di morti e così accade in questo suo secondo, apparentemente focalizzato sul tipo di scuola indicato nel titolo ma in realtà giocato su vari piani narrativi e su diverse tematiche.

Il racconto sembra concentrarsi intorno alla figura della protagonista senza nome, chiamata Ragazzina, sulla sua difficile adolescenza, sul trauma subito nel momento in cui non solo lascia l’isola dove è nata e ha sempre vissuto, per trasferirsi con la famiglia nella campagna periferica di una città toscana (chiamata dall’autrice “città turrita” e che tutto lascia pensare che si tratti di Siena), ma viene messa in un collegio e iscritta al liceo classico cittadino. L’impatto con l’ambiente collegiale, assai rigoroso e severo, con le nuove compagne e soprattutto con la nuova scuola, sarà molto doloroso e porterà la Ragazzina ad un cambiamento totale della sua esistenza, nonché ad affrontare difficoltà enormi che non aveva mai incontrato. La sua isola lontana diviene quasi un paradiso da sognare e l’autostima crolla di fronte alle sue prove scolastiche sempre negative. Lo studio intenso e gravoso, gli insuccessi continui nelle verifiche da parte dei professori, l’ostilità, o per lo meno l’indifferenza, delle altre collegiali, tutte appartenenti ad una classe sociale elevata, che guardano con sufficienza la Ragazzina povera, di ceto popolare, mettono a dura prova la sua volontà di andare avanti e superare gli ostacoli e sconcertano i suoi sentimenti fanciulleschi, trasformandoli da teneri e infantili trasporti verso gli altri, in impulsi spesso di rivendicazione e affermazione di sé.

Il liceo classico diventa mano a mano una metafora di quel periodo dell’esistenza in cui l’adolescente lascia la stagione dell’infanzia e si incammina verso l’età adulta, mutando nel fisico e nell’animo, provando i primi turbamenti sentimentali e amorosi, sempre insoddisfatta di sé e del proprio aspetto, sempre convinta di essere la più brutta e la più incapace.

La narrazione, dunque, dopo aver percorso la via quasi dickensiana delle umiliazioni, delle angherie e prepotenze quotidiane, che la protagonista subisce all’interno del collegio e della scuola, piega decisamente verso l’educazione sentimentale, quando compare un Ragazzo, anonimo come la Ragazzina, destinato ad essere il referente dell’ansia d’amore di lei, anche lui, alle prese con i suoi problemi adolescenziali, che lo rendono spesso un personaggio irrisolto. Attorno ruotano numerose figure funzionali alla storia: la burbera direttrice del collegio, la terribile docente di matematica, o quella ancor più severa di latino e greco, il professore d’italiano beffardo nei confronti della protagonista, alcune amiche che sembrano più sincere, specie una che diviene la più fidata. A far da scenario vi sono le mura rosse della città turrita, le sue piazze, i suoi sentieri, i suoi miti, a cominciare da quello di Santa Caterina, il tutto descritto dettagliatamente, con sovrabbondanza di particolari e con un tono ammirato e malinconico che tradisce una certa nostalgia. C’è comunque il tentativo riuscito di esplorare a fondo le ragioni del malessere degli adolescenti ed è naturale che si intraveda una responsabilità primaria nella famiglia d’origine, nel padre scontroso e autoritario, nella madre anaffettiva, nei fratelli disamorati nei reciproci confronti. Anche l’ambiente di provenienza, isolano e contadino, ha contribuito a creare solitudine e inquietudine nella Ragazzina, che resta assetata d’affetto e continua ad amare la sua terra, mantenendo un legame persino con due zie rigide e antiquate, che tuttavia la supportano con qualche piccolo aiuto finanziario.

La fine del romanzo lascia volutamente irrisolte alcune vicende, compresa quella della Ragazzina e bene ha fatto l’autrice a non cercare di essere il deus ex machina che tutto risolve, o l’onnisciente che sa come ogni cosa si conclude, perché in tal modo ha reso più verisimile la vita rappresentata, con i suoi difetti e le sue contraddizioni. C’è però molto in questo libro che rimanda direttamente a Francesca Farina e non voglio parlare di autobiografismo, anche se in ogni opera narrativa sono presenti elementi autobiografici, ed è la frequente citazione della cultura classica che l’ha formata, degli autori che ha letto ed amato, persino delle canzoni che hanno accompagnato la sua giovinezza e infine dei luoghi (la Sardegna, la Toscana, Roma) in cui ha vissuto, amandoli e soffrendo, che hanno lasciato in lei una memoria perenne e la voglia di trasmetterla ai lettori.

Emerge inoltre da ogni suo romanzo, per esempio da La scuola dei somari, la centralità della scuola, che l’autrice intende sempre come luogo prioritario non solo di educazione e formazione ma di esperienze umane e sociali. Ma veniamo alla qualità della scrittura e al sostrato psicologico di essa. Al primo contatto può sembrare che questa scrittura sia sostenuta da un rigore e un distacco assai severo, nei confronti della società e dell’ambiente, che vengono rappresentati. La Ragazzina appare fredda, a volte persino scostante, restia a facili abbandoni sentimentali, poco incline ad accogliere un amore qualsiasi. È evidente però che dietro c’è una sorta di tradimento degli affetti, avvenuto nell’infanzia, una disabitudine contratta in famiglia, a cercare confortevoli abbracci, ripari dal dolore, rifugi nel porto sicuro genitoriale. Tutto ciò le farà da schermo fino alla maturità, fino alla sua avvenuta crescita interiore, che la porterà a scelte responsabili e precise e le farà riconoscere i valori autentici da custodire. Non è un caso il fatto che ella scopra la bellezza di Siena, quando sta per lasciare la città, che invece lei aveva sempre visto come turrita e oppressiva, con i suoi palazzi, i suoi monumenti e le sue chiese. Qui l’abilità della scrittrice di saper variare la luce descrittiva dei panorami, mantenendola in sintonia e simmetria con gli stati d’animo della protagonista. Il romanzo a mio parere ha realizzato due intendimenti larvatamente presenti nell’autrice: il recupero autobiografico di un’esperienza di vita fondamentale e la realizzazione di un paradigma dell’esistenza adolescenziale riferibile a tutti i ragazzi di ogni tempo. Tutto ciò avviene attraverso uno stile massimamente sorvegliato e plasmato sui grandi archetipi culturali che la Farina porta dentro di sé.

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Francesca Farina
Liceo classico
Bertoni Editore, 2021, pp. 310

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Biografia di Anna Maria Vanalesti

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