ANGELA CAPORASO, The Relationships

The Relationships è una raccolta di poesia visiva di Angela Caporaso pubblicata da Timglaset, editore svedese con sede a Malmö, che opera soprattutto nell’ambito della poesia visiva e concreta.

Il volume contiene 27 poemi digitali che l’artista casertana ha realizzato tra il 2020 e 2021, durante i giorni della pandemia di SARS-CoV-2 allorquando gli italiani sono stati costretti ad una lunga e rigida quarantena.

Privata dei rapporti con gli altri l’artista è stata costretta a riflettere sul concetto di spazio, convenendo con Liebniz quando afferma che «Lo spazio è quello che risulta da luoghi presi insieme».

Ella ha quindi sostituito lo spazio relazionale con lo spazio dei programmi di grafica trovando in tal modo rifugio in se stessa e nella sua fantasia.

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(Una definizione di poesia verbo visuale di Angela Caporaso, da Sul fondo del bianco. Cinque poete verbo visuali, a cura di Giorgio Moio, Bertoni editore, 2021)

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Definire che cos’è la poesia verbovisuale in realtà per me coincide col chiedermi da dove scaturisca il mio interesse per questa particolare forma di ricerca espressiva. Ebbene penso che esso tragga origini dalle suggestioni di cui mi sono nutrita durante l’adolescenza. Un’adolescenza che è coincisa con i cosiddetti “anni della contestazione” durante i quali non era difficile imbattersi in riviste che parlavano palesemente di “controcultura” e “contropotere”. Uno degli autori più tradotti e pubblicati allora su questo genere di riviste era senz’altro Michel Foucault che definiva il discorso un insieme di sequenze di segni. In altra direzione – ma non molto dissimile – si muoveva la ricerca di Pierre Bourdieu nell’ambito della cosiddetta  “violenza simbolica”. 

è stato quello – senza alcuna ombra di dubbio – un periodo molto particolare che è coinciso con la mia crescita umana, sociale e culturale, con il definirsi dei miei interessi: la poesia, da Apollinaire a Baudelaire, l’arte figurativa da Dada ai Surrealisti, la musica che ascoltavo, da Ravel a Debussy.

Contemporaneamente Claudio Lolli, il mio cantautore preferito, cantava in Analfabetizzazione «… Perché la semantica è violenza oppure è un’opinione».  

Pertanto è stato proprio questo humus culturale di cui mi sono nutrita  in giovanissima età a farmi comprendere che quando parliamo di “parole” non ci troviamo dinanzi a dei neutri strumenti di comunicazione bensì a dei pericolosi mezzi di controllo sociale.

Non a caso il Prologo del Vangelo di Giovanni recita “In principio era il verbo, il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio…”. Quindi Dio, ovvero la massima autorità, andava a coincidere con la parola…

E tale mia consapevolezza si rafforzò allorquando, qualche anno più tardi, lessi 1984  di George Orwell. In questo romanzo non a caso Orwell parla di una neolingua creata artificialmente per costruire una sorta di pensiero unico in modo da omologare totalmente la popolazione a cui è destinata. Una neolingua ovviamente sempre più povera di parole, fatta perlopiù di monosillabi, completamente inadatta alla formulazione di un pensiero complesso e quindi critico.

La mia indagine artistica, quindi, non poteva in alcun modo prescindere da un mio

intimo bisogno di indagare il verbo, ossia la parola… forzarla e dilatarla.

Se le parole avevano un significato, potevo io arbitrariamente – così come suggeriva Claudio Lolli – dargliene un altro?

Intanto, oltre a collaborare alla pagina culturale di alcuni giornali, scrivere fiabe e racconti, avevo incominciato a disegnare, e quindi per me fu naturale accostare alle parole le immagini.

Quando nel lontano 1993 realizzai la mia mostra di collage dedicata allo scrittore Pier Vittorio Tondelli, ospitata prima a Caserta e poi a Napoli e a Firenze, vi fu chi, volendomi criticare, osservò che io in quei collage non avevo illustrato i romanzi di Tondelli.

Ebbene costui inconsapevolmente mi aveva in realtà fatto un complimento perché io, pur unendo alcuni scritti di Tondelli a delle immagini, non avevo intenzione di illustrare alcunché, bensì volevo semplicemente “ricreare” un nuovo linguaggio fatto di parole e immagini laddove però l’immagine dilatasse la parola anziché illustrarla. Ovviamente da quel lontano 1993 la mia ricerca circa la poesia verbovisuale è mutata. Col passare degli anni nei miei lavori ho smesso di “esporre” frasi di scrittori o poeti a me particolarmente cari sostituendole invece con delle mie brevi poesie, filastrocche o giochi di parole. Fino a che tali “parole” hanno completamente dismesso il loro ruolo simbolico per legarsi indissolubilmente alle immagini a cui le accostavo, immagini che col passare degli anni si sono via via fatte sempre più astratte.

Intanto cresceva dentro di me un’attenzione particolare, quasi ossessiva direi, per le lettere dell’alfabeto e soprattutto per le vocali. E qui l’influenza della poesia di Arthur Rimbaud – Voyelles, diventa palese. È una poesia che ho letto e riletto fino ad averla completamente memorizzata. Dunque… è possibile, così come scrive Rimbaud accedere al significato più intrinseco e nascosto di ogni vocale? Svelarne i più misteriosi enigmi? Rivelarne improbabili sensazioni mutandole in astratti segni? Non so… la mia ricerca però si muove in questa direzione.

Ed oggi, a proposito di ricerca, proprio quando le nostre parole, grazie ai social, diminuiscono, continuamente sostituite da pericolosi quanto impersonali Emoticon,

stupide faccine che rimandano sempre più pericolosamente ai monosillabi della neolingua orwelliana, credo che l’odierna sperimentazione verbovisuale debba essere più che mai determinata da un continuo tentativo di accrescere la nostra capacità d’interrogarci circa l’uso delle parole stesse.

Copertina

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