ALFONSO AMENDOLA, Della feroce limpidezza in Bruno Di Pietro

È l’andare greco il primo procedere della poesia di Bruno Di Pietro (a partire dalla scelta eleatica della unicità). Poi, certo, compaiono nel suo orizzonte metrico il frastagliarsi del moderno, la polifonia del frammento, l’estendersi delle voci, il palinsesto della quotidianità, il segno del rimando, la cultura dell’impegno, il rifiuto degli “inizi”, le tracce degli affetti perduti e conquistati.

Ma è la densità di un mondo mitico ad assorbire la costruzione poetica dell’autore: la plasticità del verso (attento a tutte le combinazioni rimatorie e alla compostezza dell’endecasillabo) si lega alla statuaria ricerca di un senso, fino a realizzare fraseggi metrici e ritorni al classico decisamente densi come il recupero dei post-pitagorici Liside e soprattutto Ippaso di Metaponto (poeta, matematico e tragico svelatore di verità) per il quale “gli Dei possono niente” e proprio per ira divina condannato al naufragio («Colpa del mare / del pendolare dubbioso / tra il frutteto in rigoglio / e l’orgoglio della scienza. / Colpa della tua assenza / se il barlume di aprile / non lucida i capelli / di giallo di arancio / e costringe al bilancio / al conto del fare / e disfare il disegno. / Colpa dell’ingegno / che chiude le sere / fra poca luce / e un pugno di olive nere»).

Appartiene a Bruno Di Pietro la ferocia d’arcaica limpidezza di chi disegna visioni a partire dalle parole, di chi conosce la necessità del dire in forma di poesia, di chi si rivolge (per devozione e per logica) agli slittamenti possibili della scrittura. La coltre fragrante sulla quale si inserisce la poesia di Di Pietro è una riuscita mistura di luoghi d’incontro e sguardi al di là delle cose (o estremamente dentro il cuore delle cose), ironia senza facile sarcasmo e malessere privo di tormentato rimpianto, lucido disinganno e leggerezza mai elusiva, logica del tempo e attesa dell’altrove poetico («Bisogna sempre lasciare aperta una reverie dell’altrove» per dirla con Bachelard). Insomma la febbre e la ragione. E più l’autore spinge la propria prospettiva poetica verso questa dimensione di dualità e di apparente non scelta (prediligendo “rifugi” che “similano astri”) e più risulta convincente la sua tensione poetica, sempre atrocemente consapevole («cospirano le cose a un solo scopo / dirti che non sei aquila ma topo»). Dove l’ulteriore rimando sembra essere proprio l’opzione eleatica di una precarietà che pretende risposte, paradossi, rifiuti dell’apparenza, artifici d’arte dialettica.

Proprio per questo Colpa del mare può esser letto come un vasto raggio di ipotesi e potenzialità nelle quali ci si deve perdere e si può liberamente sconfinare, lasciandosi andare all’interno di una visione poetica in cui il senso delle cose (tante volte celebrato) senza indugi può essere cancellato immediatamente dal transito della bellezza («ti passa a volte accanto, ti sfiora / una ragazza col suo odore intenso / la brezza adolescente ti divora / brucia in un niente la ragione e il senso»).

Una poesia, lieve e sontuosa, che tende ad indicarci una dimensione di purezza intima (perciò ancor più vera e condivisibile). Ricca di musicalità (logicamente non solo in evidenza in Piccola suite) e sussurri, intrecci di citazioni e pregiate parole di mai dimenticati affetti («ti porteremo papà il pane e il sale / su una tovaglia infiorata di vino / lampade ubriache di stille d’olio / serti d’aglio e l’anice e l’elianto / (neppure in morte ti s’addice il pianto»).

Un discorso a parte esige la sezione Avari fiori attraversata quasi da un velo, o meglio da una tela – fitta e costante – brillante per articolati ricami in grado di tenere i momenti, gli improvvisi, le lucentezze ed i segmenti erranti “tra volere e non volere” dell’autore. Una tela sulla quale (nella continuità di una grande tradizione poetica) Di Pietro incide, in forma di poesia, le sue riuscite gallerie di ritratti ed affezioni («sfuma la luce Sergio troppo presto / così breve è l’estate novembrina: / accendi il fuoco con rami di pino / un velo di miele aggiungi nel vino / e chiodi di garofano e cannella») dome i nomisimbolo ‒ non solo Sergio, ma anche Violetta, Marianna … ‒ sono dialoghi di verità, incontri d’emozione personale non privi di quel lucido frastuono delle distanze che accompagna il nostro quotidiano («io che ti rivedo ai venti caldi / alle sabbie febbrili nell’abbaglio / ma quale arcano o sbaglio mi costringe / solo a sognarti quando il giorno è breve / (punge l’inverno, e accumula neve»).

Scrivere per Bruno Di Pietro è raccogliere essenze, amalgamare sensazioni, credere «speciale l’uguale / a se stesso sempre uguale», seguire impronte, incorpare sogni, tracciare segni critici, tentare di «spostare i margini del giorno», sottolineare visioni, stringere il «tempo della notte», narrare possibilità, indicarci la «deriva degli intenti», dipingere icone rubate al tempo… La sua poesia ha una primissima intensità nel suo essere primigenia, sorgiva, vertiginosa di ricordi ed assetata di vita e per questo caldamente sensoria e ferocemente limpida. Certo, alla fine resta unicamente la magnetica volontà dello scrivere, (ma questa la diamo per implicita necessità dell’essere nella scelta di chi ‒ usualmente ‒ si definisce poeta e di chi ‒ usualmente – si definisce lector).

Bruno Di Pietro
Colpa del mare 
Oèdipus, 2002

Biografia di Alfonso Amendola


 

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.