AA. VV., Letteratura di armonie incantevoli o di arditezze antagoniste?


A partire dal dramma che un poeta antagonista è costretto a vivere in un presente dove tutto si produce unicamente in funzione di un mercato, si tenta – appunto – di puntualizzare il suo dramma esistenziale nei confronti del presente apocalittico, perché di questo si tratta, visto la totale chiusura da parte dei mass-media, delle istituzioni, delle case editrici ufficiali e più in generale della cultura cosiddetta ufficiale globalizzata e consumistica a una letteratura di rottura, d’avanguardia, tutt’altro che pacifica, redditizia, consolatoria, e per questo etichettata, sommariamente, “letteratura di nicchia”.

Secondo noi la letteratura deve distinguersi dalla letteratura della resa, da armonie incantevoli, nel tentativo di “riconquistare la distanza” della complessità, una resistenza contro l’avanzare della società spettacolo, ipnotica, pacifica, volgare e rissosa del controllo e consumo commerciale scaduto in una connotazione d’intrattenimento effimero. L’imprevedibilità è la peculiarità di uno scrittore, di un poeta. A cosa serve e a chi essere prevedibili? Cosa aggiunge alla cultura letteraria la prevedibilità e/o la facile fruizione tanto sbandierata dal Cucchi Maurizio. Cito dalla pagina fb dell’amico Gualberto Alvino, a proposito degli sproloqui di Maurizio Cucchi: «Uno dei caratteri più evidenti tra i poeti delle ultime generazioni è la ritrovata, piena fiducia nella possibilità di un dire aperto e lineare, scorrevole e discorsivo. Diciamo che arditezze sperimentali […] non li tentano minimamente, salvo pochissime eccezioni».

Lo stesso – sempre lui – Cucchi Maurizio scrive in «Tuttolibri», anzi, precisa – lui è uno preciso, talmente preciso che si dimentica spesso degli altri: «Mi è capitato di notare, negli ultimi tempi, tra autori giovani e promettenti, e sicuramente bene attrezzati, un certo qualunquismo stilistico. Voglio dire che ho letto parecchi bei testi, anche libri di una certa qualità, ma piuttosto indifferenti all’idea di una ricerca innovativa sul piano del linguaggio e dello stile». Mi chiedo: senza ricerca e innovazione linguistico-stilistica può mai darsi un “bel testo di qualità”?

Cosa ne pensate? Come vi difendete, se ritenete che ci si debba difendere da questa pacificazione di linguaggi?  (g. moio)

 

* * *

 

Federico Federici – Il problema delle “mode di mercato” è cronica in tutte le arti, non solo da ora. Dire che un qualunquista è promettente mi pare, in sé, un’affermazione piuttosto originale. Detto questo, si tratta di un dibattito che ciclicamente si ripropone e dal quale, scientificamente, non si uscirà mai, perché è fatto per autoalimentarsi, creando fazioni, schieramenti, gruppi di sodali ecc. Come dici tu: senza ricerca, come fa un testo a essere “di qualità”?

Antonio Spagnuolo – Carissimo amico Giorgio Moio è ben difficile rispondere al quesito che accendi. L’illustrissimo Maurizio, beato lui, ha il potere della stampa del Nord e riesce a scrivere quello che vuole anche se qualche volta con poca attendibilità. Io vivo di poesia da oltre ottanta anni e nel mio curriculum ho attraversato varie fasi di scrittura, accostandomi (anni 50/70) alla sperimentazione con notevoli successi, per poi entrare in fasi meno aggressive ed infine riaccostandomi alla leggibilità. Ora vedo da più parti arrovellarsi di giovani poeti con scritture che hanno abbandonato il “metro” per realizzare testi che chiamerei “prose poetiche” e non più “poesie”. Ora in risposta posso solo dirti che i due miei ultimi volumi di poesia hanno riscosso il maggior riscontro di critica positiva proprio perché sono “leggibili”. Come concludere allora? La “Poesia” rimane e credo rimarrà sempre la poesia della musicalità, del ritmo, della partecipazione emotiva, del canto di sentimenti alti.

Giorgio Moio – Credo, amico Antonio Spagnuolo, leggibilità non vuol dire scorrevolezza e discorsiva – alla Cucchi & company – che non hanno nulla a che fare con la metrica, la musicalità e l’emotività di cui accenni. Né tantomeno coi sentimenti alti: un sentimento poetico alto non ricorre a mezzucci per farsi “capire” e/o “leggere”. Ma poi farsi capire e leggere da chi, da una critica ormai sorda ai cambiamenti e molto di parte? Vedi, caro Antonio Spagnuolo, tu giustamente rinneghi la “poesia in prosa” (io ne ho fatto una delle mie battaglie), e non credi che scorrevolezza e discorsività non possono realizzarsi al di fuori di una poesia in prosa, cioè discorsiva. Come la mettiamo, allora?

Ettore Le Donne – Credo che l’autore debba prima attentare a se stesso. Per dire altro. Mai orientando sul convenzionale. O… dire cose attraverso un linguaggio uniformato tendente al musicato lodevole del verso. Un po’ rimanere legato al testimone lasciatoci da Carmelo Bene ma esplicitato anche da Vittorio Gassman in più occasioni. Un linguaggio stridente che colpisca il fruitore nell’animo “pugnalandolo” sofferente!

Marilina Giaquinta – Io chiederei, in primis, cosa intende per “arditezze sperimentali”… e, poiché la scrittura non è altro che il modo in cui chi scrive interpreta il proprio tempo, se la poesia contemporanea ha “piena fiducia nella possibilità di un dire aperto e lineare, scorrevole e discorsivo“, vuol dire che vi è un bisogno da parte dei poeti di così dire il proprio tempo…

Rita Pacilio – Io pongo la questione sull’evidenza che non si può leggere tutto! Leggere libri di qualità nella propria cerchia di conoscenze vuol dire poter esprimere un parere valido e assoluto? Molti autori non riescono a proporsi o a farsi leggere e altri sono oscurati perché non appartenenti a confraternite. Poi mi soffermerei sul fatto che il nostro tempo è, sociologicamente, in rapida evoluzione. Anche il linguaggio ne risente, soprattutto. Leggo tante recensioni e pochissime si soffermano sullo studio della parola: interessa maggiormente il contenuto o la vita spericolata/audace dell’autore. Bisognerebbe essere più esigenti, più aperti, più responsabili: da un testo si dovrebbe pretendere/cercare/trovare il linguaggio più nobile, qualunque cosa dica. Siamo in un tempo in cui chi ha più cartucce spara. Il discorso è lungo: dove sono i portatori di pensiero? Dove c’è il potere? Questo è il primo errore. Saluto tutti con affetto.

Giorgio Moio – Cara Rita, secondo quelli come Cucchi la poesia e i portatori di pensiero deve arridere al potere culturale, alle grandi lobby letterarie, altrimenti come pensare di garantirsi un “posto al sole”? Certamente non con una poesia di ricerca – secondo loro –, di studio sulla parola e sui sentimenti alti, che sperimenti prima se stessa e poi il mondo che la circonda. Il poeta non è più votato al sacrificio ma sacrificabile in nome di un profitto.

Rita Pacilio – Giorgio, preferisco essere “il cane sciolto” che sono! Preferisco essere una piccola studiosa fuori dal coro, anziché un fenomeno/personaggio/prodotto economico! Mi dispiace per coloro che non riescono a venire a contatto con la realtà: questa ci evidenzia il bisogno di scrivere da parte di moltissimi, anzi, di tutti. È un dato di fatto! Cosa vuol dire? Secondo me, ciò sta a evidenziare la necessità dell’essere umano di esprimersi, oggi più che mai. Naturalmente è una rilevazione sociologica molto spicciola, il discorso è molto complesso e complicato. Comunque, in questo marasma di libri ci sono tante cose “buone” che vengono offuscate, in alcuni casi, da opportunismo, pubblicità, interesse, da parte di Editori considerati “grandi” (su questo argomento dovremmo stilare un trattato) che di poesia ne sanno ben poco e che sono orientati, esclusivamente, al guadagno economico: l’autore/libro è un affare per loro. Anche se avessero consapevolezza della presenza di autori validi, si preoccupano del profitto personale a scapito degli stessi che vengono strumentalizzati da questo sistema e del lavoro poetico alto, di qualità. Infatti, ci sono giovani autori che vengono considerati innovativi e da incoraggiare/spingere in alto per varie motivazioni: l’argomento trattato, l’amicizia privilegiata con “chi conta” in poesia o per la storia personale; questi autori non sono studiosi, non hanno esperienza di linguaggio poetico, ma diaristico, se va bene. Sono pedine che possono fruttare soldi, ma non movimenti culturali. Non si può far passare alla storia questa evidenza, bisogna fare qualcosa se si vuole fare cultura responsabile! C’è bisogno di coraggio e stroncature che, purtroppo, non arrivano. C’è bisogno di confronto e verità. C’è bisogno di documentarsi, scovare il libro che veramente vale, andare controcorrente. Non sono indignata contro Editori o autori coinvolti in questa rete (secondo me è una trappola!) ma contro la critica (chi sono i critici? dove sono gli illuminati? dove sono gli intellettuali? Anche loro vittime/carnefici del sistema? e contro i lettori (giornalisti, studiosi, poeti). Osservo con dispiacere ciò che sta accadendo alla poesia che, per me, resterà il linguaggio più nobile, nonostante il potere che la governa!

Fabrizio Bregoli – Concordo con Rita: è un bene che molte persone scrivano, naturale che molti lavori, nella moltitudine che ne deriva, possano essere mediocri o peggio. Le grandi case perseguono le proprie finalità principalmente economiche o di sostegno a certe linee editoriali dominanti. Ciò detto è la critica letteraria che è quasi assente; spesso si riduce a recensire superficialmente, non entrare nel merito di quanto si pubblica e scrive; dovrebbe essere la critica a definire uno spartiacque, decifrare le tendenze, discernere il valore estetico dal qualunquismo stilistico.

Giorgio Moio – E già! Con la mancanza di una critica dal valore estetico imparziale e senza compromessi nascono poetucoli o chi continua a fare il bello e cattivo tempo a suo piacere, centrando il suo discorso sul qualunquismo stilistico. È risaputo: senza contrasto, senza contrapposizione, senza un’analisi profonda di un testo, chiunque scriva qualche verso si può “auto-incoronare” poeta. È un po’ quello che accade sul web, sui social, dove tutti possono scrivere di tutto. Chi si prende la responsabilità di contraddire ciò che è costretto a leggere? Costretto forse è un termine improprio: basti chiudere la pagina e passare oltre. Ma non conviene a nessuno mettersi contro un potenziale lettore: alla fine il gioco gira sempre attorno alla stessa solfa: la visibilità a tutti i costi!

Michele Nigro – E se l’imprevedibilità fosse ben celata in uno stile prevedibile e accessibile? Mentre, al contrario, certe arditezze sperimentali altro non nascondono se non banalità travestite da complessità. Cos’è che spinge il poeta a un’innovazione linguistico-stilistica? Sarei tentato di rispondere facilmente che l’appiattimento nella ricerca (o “pacificazione di linguaggi” come riportato nell’interessante provocazione di Giorgio Moio) è direttamente proporzionale alla semplificazione mentale e culturale dettata dai tempi, ma sarei ingiusto, “parruccone” e incompleto, e contraddirei la mia idea-domanda con cui ho esordito. Anche senza una “ricerca spinta” la qualità è data dalla risultante delle caratteristiche tipiche della poesia (ricordando agli amanti del bel canto che le tipicità non sono delle sabbie mobili in cui morire affogati e che anche con la disritmia si può fare musica!). Se queste caratteristiche, seppur “predigerite”, funzionano – con buona pace di Cucchi – allora quella letta diventa automaticamente poesia dei miei (nostri?) tempi. E, volendo colpire l’estremo opposto, c’è ancora chi farnetica di “metriche”; a questi consiglio: “Impiccatevi!”, poeticamente parlando, con una corda fatta di ABBA o ABAB! E figuriamoci se la “qualità” (di ciò che leggo o addirittura scrivo) me la faccio determinare dai dubbi di un poeta di successo (qualunque sia il significato che vogliamo dare al termine “successo” in ambito poetico). D’altra parte sia maledetto chi si rende appetibile per il mercato! Se lo è per sua “natura”, allora amen. E siano maledetti anche quelli che si sforzano di sperimentare: i loro versi sono falsi e hanno il sapore di un fumante prodotto industriale appena uscito dalla filiera di una finta rivoluzione.

Ettore Le Donne – Guai al poeta che sa come fermarsi.

Dario Ulkrum Zumk – Nonostante Maurizio Cucchi non lo preferisco come scrittore e nonostante sia legato a certe situazioni di potere editoriale filo-settentrionale, sono pienamente (e per la prima volta) d’accordo riguardo le sue dichiarazioni. Nessuno o molto pochi fanno più ricerca sul linguaggio e sullo stile. Nessuno ha tentato di creare un ponte tra il XX e il XXI sec. Le post-avanguardie sono diventate retroguardie perché hanno smesso di crederci ritornando alla poesia tradizionale. Oggi il poeta deve osare l’assurdo. Io nella mia umiltà ho sempre cercato di farlo e ancora oggi.

Fabrizio Bregoli – Credo che esistano ancora autori sperimentali credibili, che non siano solo epigoni della neoavanguardia o di certo lirismo orfico o profetico. Credo di averne letti negli ultimi anni, o almeno, senza ambire a competenza critica che non mi è propria, tali mi sono apparsi, con la loro sensibilità.

Lucia Triolo – Credo che ogni epoca viva questa dolorosa alternativa tra una letteratura di nicchia, sperimentale, d’avanguardia e una letteratura cosiddetta ufficiale. Oggi certamente la tensione tende a farsi più acuta, pungente per l’irrompere incontrollato del mercato globalizzato per cui, come in tanti altri campi, l’arte deve farsi merce per incontrare il proprio bacino d’utenza e deve piegarsi, inchinarsi, genuflettersi alla propria spendibilità in termini economici. Questa contingenza lascia il segno, e profondo anche, perché il poeta non è disincarnato e vive le tensioni e le debolezze dell’aria che respira. Ma nonostante questo orizzonte rispetto al quale ancora una volta verrebbe da chiedersi a quali condizioni sia possibile la poesia (in dialogo con un “tu”), il problema mi sembra vero solo a metà: se si dà poesia, si dà e si darà sempre anche un linguaggio “di qualità” perché capace di emozionare, di far provare qualcosa dentro, di aprire interstizi che non si pensa nemmeno di avere, di trovare mezzi espressivi adeguati alla sua intensità e all’avventura di cui vuol far partecipi gli altri. In altre parole mezzi espressivi adeguati a quell’“accorgersi” di cui il poeta è protagonista.
Questa poesia, io credo, sarà necessariamente sperimentale perché non camperà mai di rendita e dovrà di volta in volta inventarsi.

C’è una responsabilità culturale di cui deve farsi carico oggi più che mai il poeta ed è proprio quella di evitare l’appiattimento sulla globalizzazione (materiale e spirituale) di mostrare agli altri con mezzi espressivi sempre nuovi la capacità di vivere cose come “perdono” e “umiltà”, di entrare nel proprio disagio interiore e non restare soffocato.

In breve può un poeta non farsi compagno delle contraddizioni del proprio tempo?

Ettore Le Donne – Oggi la poesia è l’unico “strumento” che ci permette di dire l’angoscia, il supplizio sull’epoca buia che stiamo vivendo.

Enrico Barbieri – Nessuna pacificazione, guerra.

Annawrite Annamaria Major – Scrivere vuol dire cercare, cercarsi, siamo universi diversi non tutto può essere catalogato, è un discorso complesso.

Per me esiste un gusto stilistico diverso che appartiene ad ognuno di noi qualcosa che arriva o non arriva…

Fabrizio Bregoli – La poesia nasce da un’esigenza interiore dell’autore e prende la forma di un’espressione artistica in cui la parola viene restituita al suo essere più autentico e originario; questo comporta spesso, visto il coinvolgimento dell’inconscio e di altre sollecitazioni interiori spesso difficilmente decifrabili ed identificabili, la creazione di un’opera che non appare immediatamente decodificabile secondo il criterio della comunicazione abituale. Parlare di poesia “facile” mi pare di per sé una contraddizione in termini: anche quando il linguaggio è più esplicito, se la poesia è vera e riuscita, restano delle componenti di mistero e insoluto profonde che sono la caratteristica principe che fanno di un testo letterario una poesia. Il lettore deve poter ambire al ruolo di compartecipazione alla scrittura poetica dando il proprio contributo alla generazione di un testo condiviso che è frutto dell’esperienza congiunta fra autore e lettore: questo implica, come è facile intuire, che il lettore stesso non debba essere assecondato nelle sue aspettative, ossia che non legga quanto già si aspetta o conosce, ma sia invitato a confrontarsi con una sfida aperta, un linguaggio non convenzionale (per forma o contenuto o entrambi) che lo faccia parte del gioco.

Leopoldo Attolico – La rivisitazione in chiave moderna della Tradizione potrebbe essere la via più praticabile, in uno con l’invenzione verbale sulla scrittura, sempre rispettando chi legge e l’oggetto del ricordo. E qui sta il difficile, perché i canti di sirena del linguaggio “lirico” continuano a produrre la loro micidiale suggestione, basta vedere i consensi che continuano a raccogliere nei concorsi letterari. (Basta leggere i bandi in cui si chiedono “liriche” ‒ !! ‒ edite o inedite).

Fabrizio Bregoli – Così accade, caro Leopoldo.

Davide Morelli – Mi chiedo se non sia troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca e poesia lirica. Non ho niente contro gli eredi della neoavanguardia, però non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio ed al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni. Non è detto inoltre che questa distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc etc). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e lirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell’ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell’ultimo Cesare Viviani? Non sarebbe forse originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a “pensare contro se stessi” per dirla alla Cioran (mi riferisco alla sua opera La tentazione di esistere)? Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i lirici rischiano anche essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti. A mio avviso comunque la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/ rendere tutta la complessità del reale(il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale). Queste a mio avviso dovrebbero essere le due scuole di pensiero (ma forse sarebbe meglio dire due atteggiamenti esistenziali) di una poesia, che allora potrebbe essere veramente ricerca di senso. Ma forse è solo una utopia. È pura illusione.

Michele Nigro – E cosa ne pensi della cosiddetta “poesia impersonale”? (Ne parlammo altrove se ricordi). Libera l’autore dall’ipertrofia dell’io e quindi diventa poesia di ricerca pura e di descrizione oggettiva oppure, come giustamente sottolinei, è un tipo di poesia che allontana dalla realtà, perché no, anche soggettiva? Una soggettività, da molti, a volte esageratamente vituperata…

Davide Morelli – Anche questo genere di poesia potrebbe essere molto interessante. Attenzione comunque perché l’oggettività talvolta diventa solo oggettualità. Però la distinzione basilare per me è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l’essenziale. Questi a mio modesto avviso sono i due modi di porsi in estrema sintesi. Poi a prescindere dal tipo di atteggiamento chiunque può essere o meno innovativo.

Michele Nigro – Davide perdonami ma “soglia del dicibile” e “sostanza delle cose” non conducono a uno stesso punto? Se scelgo una soglia altissima non ottengo già l’essenziale? Se ho male interpretato cancello il commento…

Davide Morelli – Per cercare l’essenziale intendo l’estrema sintesi del reale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L’essenziale lo raggiungi con il levare. È la caratteristica tipica della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la raggiungi con il battere, con l’accumulo: significa cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

Michele Nigro – Perfetto, ora sì!

Carmen Moscariello – “Pacificazione dei linguaggi…”. A questa pacificazione è dovuta la lenta morte dello scrivere e del leggere: il linguaggio è un eterno divenire, là dove si è pacificato non ha più nulla da dire!

Marco Zuccaro – Ho un’opinione ben precisa, che sicuramente farà storcere il naso a (quasi tutti) quelli che la leggeranno. In sintesi: il discorso relativo alla sperimentazione, alla ricerca, alla c. d. innovazione linguistica, a mio parere, è ampiamente sopravvalutato, nel senso che, sempre a mio modo di vedere, la poesia migliore, la poesia dei classici, è un’arte che va sempre in direzione dell’immediatezza. Il problema non è (tanto) la miopia del linguaggio, o lo stile qualunquistico, o il carattere consolatorio (che c’è di male nella consolazione?). Il problema è avere qualcosa da dire, e dirlo veramente, senza retorica. Ma forse io ragiono in termini troppo semplicistici.

Ennio Abate – Cambierei il punto di partenza del dibattito. Comincerei dalla “realtà” del mondo (quel tanto o poco che ne sappiamo) e arriverei poi ai discorsi ‒ buoni, mediocri, pessimi ‒ correnti tra chi oggi s’occupa ancora di poesia. Solo accorgendoci di quale bufera sta investendo il mondo, troveremmo forse le parole giuste per fronteggiarla. O onestamente ci azzittiremmo evitando di partecipare alla chiacchiera. Ristabiliamo intanto le proporzioni. Tanto per capirci: cos’è il «dramma» di «un poeta antagonista» alle prese con la « totale chiusura da parte dei mass-media, delle istituzioni, delle case editrici ufficiali» di fronte a quello di una umanità che vive nella fame o fugge da guerre e miseria e si trova di fronte dei demagoghi, che la presentano come una massa barbarica di “invasori” e pretendono di “proteggerci” con il ritorno ai nazionalismi e alle “piccole patrie”? Non vi pare che il primo dramma, che a volte ricalca la veccia scherma tra le corporazione e i *refusees* o, peggio, beghe provincialistiche e personalistiche, scolori? O, se vuole farsi prendere sul serio, debba chiarire *innanzitutto* che ruolo ha ( o potrebbe avere) la poesia in questo contesto storico?

La resa della maggior parte dei poeti e letterati ( ma non solo di loro) al mercato, alla cultura globalizzata e consumistica o la rassegnazione alla “nicchia” è la conseguenza di una rinuncia a sentire, pensare o affannarsi a capire ‒ ripeto ‒ dove sta andando oggi il mondo. Quasi tutti i poeti hanno accettato di praticare una poesia che non scava più a fondo nelle cose. (Nelle attuali guerre “democratiche” e “umanitarie” poi!). Al massimo le costeggia e invariabilmente il “vissuto personale” di umani, comunque benestanti e acculturati all’occidentale, prevarica. In più da molti decenni, crollata la critica marxista alla poesia, è venuta meno anche la consapevolezza dell’ambivalenza stessa della forma-poesia, che è tornata per molti addirittura valore “assoluto”, “supremo”.
Nel lontano 2004 scrissi: «I poeti in tempo di guerra non tremano abbastanza». E aggiunsi anni dopo in una discussione: e «non pensano abbastanza». Da eremita della poesia lo ripeto ancora. Solo se si riuscirà di nuovo a colmare i troppi vuoti di riflessione sul mondo, si capirà se le nostre cassette d’attrezzi poetici, di cui ancora disponiamo, sia o no adeguata; e se gli stili ereditati o adottati o preferiti ‒ «aperto e lineare, scorrevole e discorsivo» oppure ricco di«arditezze sperimentali» o altro ‒ mordono davvero la realtà o la occultano, affrontano il caos, l’apocalisse o si contentano di battagliette in un bicchier d’acqua.

Fabrizio Bregoli – Importante questo richiamo perché si ritorni a relazionarci più autenticamente al mondo; proprio per questo la poesia serve, può recuperare un barlume di senso.

Stefano Donno – Oggi nella deriva più totale in cui si trova il nostro Paese, non solo in ambiti macro/sistemici come economia, finanza e società parlare di editoria di nicchia o editoria ufficiale o peggio ancora istituzionale mi sembra davvero eccessivo non tanto per ragioni di carattere etimologico quanto per una povertà e debolezza di margini e contorni semantici che potrebbero definire idee, testi e contesti appartenenti a quei significanti e significati. Cerco di essere più preciso. Il poeta antagonista non è più solo, ma lo è sempre stato perché per certi versi e taluni aspetti, autorefernziale (ovvero predica bene e razzola male nella ricerca del confronto, dello scambio e del dialogo). Il poeta antagonista ora non solo non è più solo o meglio… il poeta antagonista è ancora più solo perché scompare (in via d’estinzione) e diventa sempre più evanescente l’interlocutore e fruitore del suo essere per versi e del suo poiein. E scomparendo gli interlocutori scompaiono visioni, visionarietà e luoghi dell’agire poetico in un indistinto magma di ritualità conviviali che hanno a che fare più con lo spettacolo che con la poesia. Certo in questo modo desiderare nella prevedibilità della routine poetica l’imprevedibile appare arduo, soprattutto se si pensa che il rilassante prolasso della lingua italiana infarcita da tanta pseudo prosa poetica di infima qualità e uno slang sempre più slabbrato applicato a molta performance talvolta svuotata di senso, genera sempre gli stessi stereotipi. Come è superficiale parlare di giovane poesia italiana, e di come le ultime generazioni poetiche intendano la lingua della poesia e la sua fenomenologia, e la pratichino con effetti mediocri. Lasciamo stare Maurizio Cucchi che ha la sua età e credo non goda da tempo di buona vista, e ci si concentri maggiormente su cosa manchi alla poesia oggi. Lo stupore? Bene o male quello lo si trova. La creatività? Sembra in Italia godere di ottima salute. Le case editrici? Di quelle ve ne sono fin troppe. E allora cosa manca, quale è la necessità della Poesia oggi. A mio avviso rientra tutto in una parola: Comunità. Ovvero tentare di fare il salto di paradigma cominciando a sentirsi, scriversi, pubblicarsi, farsi sentire creando una comunità letteraria che oramai da fin troppo tempo manca all’appello. Forse dai tempi di Pasolini. Comunità letteraria che ha cuore la costruzione delle nuove leve in ambito letterario, ma che ha cura dell’oggi in un desiderio di incontro fatto di crocevia di vissuti e di prospettive che possano influire sul sociale concretamente rendendo viva la cultura poetica e quella letteraria come fenomenologia della liberazione umana.

Antonino Contiliano – Un poeta antagonista non perde la sua funzione d’essere “imbarcato” solo perché i sacerdoti del potere dominante chiacchierano e, standosene preti quieti e allineati, rilasciano certificati di morte per le avanguardie poetiche e le loro lingue minori. D’altronde un sistema stabilizzante non può non servirsi di questi funzionari d’ordine; se si vuole che la propria chiusura non si ribalti sotto i colpi della “funzione avanguardia” come attività e azione viva del qui e ora difforme, occorre pubblicizzare esorcismi. Scongiurare il risveglio della ragione poetica critica e della sua semiosi produttiva è fra i loro doversi professionali sacri. Ai vitali “rumori” di fondo della ricerca, come quelli che circolano fra i processi con-tingenti-creativi della materia-energia caosmica, quanto deviazione non codificabile, la società della comunicazione-informazione controllata non può riconoscere né il diritto né l’esistenza di forze creative “neghentropiche” sovversive indipendenti.

Alle rielaborazioni in chiave di poesia dissidente ed esplosiva, semmai – recitato i cucchi cocchi – conviene solo una certificazione di inconsistenza e di voce funeraria.

Le collisioni nucleari e subnucleari delle parole e dei segni poetici del dire altrimenti, mina vagante per gli assiomi dei dispositivi produttivi e seriali del regime editoriale ufficiale, sono tuttavia vivi e sparsi (necessitano solamente di organizzazione collettiva plurale e dinamica).

La funeralità, come mostrano le continue misure di de-territorializzazione e ri-territorializzazione anti-disarmonie e anti-ricerca, è propria, invece, agli equilibri del sistema e dei sottoinsiemi linguistico-politico-cocchieri che sventolano la carta d’identità, produttiva ed editoriale, della “piena fiducia nella possibilità di un dire aperto e lineare, scorrevole e discorsivo…” (è però prassi politica nota dei governi delle maggioranze in crisi di consenso chiedere la fiducia…!).

Che i vari “Cucchi”, in una con i poteri mediali sovraordinati che li nutrono e li coltivano in funzione di linee d’ordine usum delphini, non vedano altro che la linearità stabilizzata e l’affossamento delle molteplici singolari sperimentazioni artistico-poetiche di rottura, però è cosa che non decide della realtà stessa degli antagonismi. La funzione-avanguardia con le sue sperimentazioni fuori riga e filiazioni differenziali non vive, in ogni modo, del loro beneplacito (anzi, come ha detto un certo “impiegato”, diciamo “preferirei di no!”).

Diversamente, sarebbe come dire che le singolarità all’orizzonte degli eventi, in grazia delle radiazioni luminose dell’energia dei “buchi neri” in continua attività, non ci sono solo perché l’occhio di qualcuno è diventato cieco.

La ricerca semiotico-linguistica in campo poetico e stilistico, invece, secondo chi scrive, nella critica dell’economia politica della poesia, e in atto, continua ad esser-ci: si esercita come “lingua minore” e “macchina da guerra” in fibrillazione “wu wei”, azione senza azione.

Se sotto il cielo regna il caos e la poesia non è azione di pace ma di conflitto, allora i mandarini come i M. Cucchi non possono fermare i processi e gli eventi schizo-rivoluzionari in mezzo ai sommovimenti del mondo.

Non dimenticando il libretto rosso del “grande timoniere” Mao, sebbene i poeti come gli scienziati in quanto tali non sono e non fanno rivoluzioni, la rivoluzione, la loro rivoluzione, è però in cammino; egualmente, altresì, non è una serata di gala! Il loro “qui e ora” è però, crediamo, forza collettiva in movimento d’azione erosiva e futuro eretico inarrestabile.

Domenico Pisana – A proposito del post dell’amico poeta Giorgio Moio, che ringrazio perché sempre attento a suscitare confronti e riflessioni, penso che esso ponga sostanzialmente tre questioni.

  1. Il rapporto tra sitz im leben e letteratura di rottura.

Qual è il contesto situazionale nel quale oggi vive chi fa poesia e letteratura? È un contesto, dice Moio, dove tutto è mercato, consumo, spettacolo, rissa , intrattenimento effimero. Condivido. Rispetto a questo può ritenersi idonea una poesia come genere letterario astruso, intimista, solipsistico ed autoconsolatorio che serve per esprimere buoni sentimenti e dare sfogo alle proprie immaginazioni creative, o bisogna imboccare una direzione diversa? Moio sembra esprimere il suo disappunto verso un poetare ripetitivo che riduce il verso ad una sorta di giuoco di parole, e avanza il bisogno di una «letteratura di rottura, d’avanguardia, tutt’altro che pacifica, redditizia, consolatoria, e per questo etichettata, sommariamente, “letteratura di nicchia”».

A mio giudizio l’etichettatura della poesia come “genere di nicchia”, per cui il grande mondo editoriale la emargina, non è data semplicemente dall’imporsi del consumismo e di una società spettacolo, ma principalmente dalla nuova Weltanschauung che ha imposto il mondo globale, secondo la quale a far progredire le società sarebbe la scienza, la tecnica, l’economia, non certamente l’umanesimo, la letteratura, la poesia, che hanno detto tutto in passato e che oggi non hanno più nulla da dire. Insomma ad un progresso della società in termini scientifici, tecnici, economici, telematici, corrisponderebbe un arretramento della poesia e della letteratura in genere, ritenuti strumenti non necessari per conoscere la realtà e il mondo, e confinati pertanto nello spazio di pochi eletti rimasti chiusi in una concettualizzazione linguistica non più necessaria alla storia del nostro tempo.

Da qui, secondo Giorgio Moio, l’urgenza di una “poesia e letteratura” di resistenza, che vada oltre quel poetare divenuto il pastiche-passatempo di anime belle, cioè lo sfogo di emozioni che coinvolgono il sentimento, la denuncia o il lamento di cose che non vanno, con versi che in tutto o in parte rielaborano brani tratti da opere preesistenti, per lo più con intento imitativo.
A questo punto, se vogliamo aprire un dibattito, sarebbe il caso di specificare meglio questo nuovo concetto di “letteratura di rottura, d’avanguardia”, perché se si dovesse trattare di una riesumazione ideologica, riveduta e corretta, dell’avanguardia e della neoavanguardia secondo i parametri già noti e fragorosamente amplificati dal Gruppo 63, io me ne starei fuori.

  1. L’imprevedibilità come peculiarità di uno scrittore.

Su questa seconda questione, non appare per nulla chiaro il rapporto di circolarità ermeneutica tra “imprevedibilità e peculiarità”. Sarebbe bene una specificazione più argomentata.

Mi domando se “la prevedibilità e/o la facile fruizione” di cui parla Maurizio Cucchi, nonché il “dire aperto e lineare, scorrevole e discorsivo” debbano ritenersi un’arresa rispetto all’invocata letteratura di “resistenza”.

  1. Il rapporto tra “qualità” della poesia e innovazione linguistico- stilistica?

Io ritengo che in poesia tra qualità e innovazione linguistico-stilistica debba esserci un rapporto di interazione per poter parlare di “bel testo”.

Scrive Berardinelli in un suo articolo (https://www.pressreader.com/): «Sento anche dire, però, che una cosa in Italia splende, fiorisce e trionfa: è la poesia. Pare che ci siano tre milioni di poeti…». Non può che essere così, perché anche se non sono tre milioni ma solo trecentomila o trentamila o mille, è difficile credere che siano tutti poeti e non ci siano tra loro parecchi illusi più o meno candidi, convinti che nessuno si accorgerà che quello che scrivono non è né questo né quello né altro”.
Francamente a me non interessa più di tanto quanti siano i poeti! Se la poesia fiorisce a me fa piacere e dico che è un bene che fa sperare. Dico spesso ai giovani: a quelli che vanno incendiando cassonetti o utilizzano spranghe per abbattere vetrate o cedere alla violenza o cadere nella droga o in qualcos’altro, preferisco quei giovani che si dedicano alla poesia anche per esternare i loro sentimenti di rabbia , di protesta e di denuncia; saranno poesie o pseudo poesie, poco importa. Certo è che la poesia è uno strumento che sicuramente nobilita e innalza l’animo umano.
Mi si potrà dire che questo discorso alimenta ancor più confusione, frammentazione e disorientamento, impedendo ‒ come scrive Berardinelli ‒ di poter «scegliere i venti o trenta o quaranta (già troppi!) “veri” poeti». E, però, mi domando: come si fa a individuare un “vero poeta di qualità?”. Questo è il problema! Un poeta è di qualità per il contenuto dei suoi versi? Per il suo linguaggio innovativo? Per l’uso che fa della parola? Per la forma e lo stile che utilizza? Per la sua originalità? Perché propone una poetica, un progetto, un manifesto? Per la sua appartenenza ad una corrente letteraria? Per il suo radicamento nella tradizione classica? Per tutte queste cose insieme o per cosa altro?

Qui si chiama in causa il compito della critica letteraria e il problema dei “giudizi di valore”. Montalianamente parlando, i “giudizi di valore” sono un azzardo, perché in effetti, come insegnava anche Benedetto Croce, ogni poeta, come anche il musicista, il pittore, nel momento in cui porta una cosa dal non essere all’essere, accade che già l’oggetto del suo parto, cioè l’opera d’arte, è perfetta nel suo cuore e, pertanto, la sua pratica esternalizzazione, sicuramente utile e necessaria, non può aggiungerle nulla.

Io ci vado sempre piano quando si tratta di esprimere “giudizi di valore” affermando qui c’è poesia di qualità, qui no, questo è poetico e questo non è poetico ( non vedo cosa possa avere di poetico un uovo, una moneta, un calzolaio, una lettera dell’alfabeto, eppure anche grandi poeti vi hanno dedicato dei versi: Giudici, Raboni, Montale, ad esempio), perché non si potrà mai entrare pienamente nella dimensione intuitiva e ispirativa di un’opera di poesia, ma si può esplicitare la natura del testo sul piano della sua efficacia contenutistica, semantica e stilistico- formale rispetto al tempo in cui l’opera si situa.

Lascio a parte il fatto inquietante che secondo certi Direttori della grande editoria il discorso della qualità è legato al nome della persona, al suo ruolo, e risulta spesso fagocitato da ideologie, amicizie, simpatie, gusti e tendenze, mode e chiacchiere.

Purtroppo, bisogna onestamente ammetterlo, esistono oggi critici di estrazione formalista, altri di impronta idealistica, altri ancora dal piglio psicologista, altri di impronta storicistica, ma io credo che nessuno possa affermare di avere la verità in mano. “In disparte metterei – ed è Montale che parla e il suo pensiero è ancora valido – gli ingaggiati, gli intruppati, gli antiautonomisti dell’arte. Per essi l’arte deve servire a qualcosa, e fin qui nulla di male anche se l’asserzione è contestabile; il guaio è che questo servaggio è il prezzo che l’artista deve pagare a determinate ideologie politiche”.
Io credo che la qualità di un testo debba estrarsi anzitutto dalla parola poetica, poiché un’opera letteraria, poetica o narrativa, è sostanzialmente fatta di parole e con le parole si costruiscono immagini, si attivano metafore, si fanno tropi, si generano simboli, segni e perfino combinazioni fonico-ritmiche, si intrecciano forme, stili, figure retoriche che quando innovano danno alla parola poetica un orizzonte di originalità.

Una poesia, per essere tale, non può fare a meno di queste regole elementari. La qualità, secondo il mio modesto parere, dovrebbe rintracciarsi anche nelle coordinate portanti e complessive di un’opera poetica, cercando di individuare la sua struttura teleologica in ordine ad una dichiarazione di congruenza ad un insieme, ad una prospettiva cognitiva, filosofica, antropologica, etica ed estetica che, legittimamente, il critico può identificare e di cui il poeta può totalmente ignorarne l’esistenza. L’innovazione linguistico-stilistica a me piace e dà sicuramente forza ad un testo, ma se costituisce solo la “scatola” dentro la quale si collocano contenuti insignificanti, ovvi, scontati e ripetitivi e dal timbro ideologico e di rottura per la rottura, tutto ciò non mi appassiona. Io credo che essendo la vita l’unica protagonista della poesia, quando la vita trova corpo all’interno di una innovazione linguistico-stilistica , nelle sue luci e nelle sue ombre, allora si alza il livello qualitativo di un testo e la parola del poeta non rimarrà la distrazione di un momento né un tranquillante di rassegnazione, né una illusione intellettuale e sentimentale, ma diverrà la “voce necessaria di un dissidente” di una società già falsata dall’alienazione economica e da altre alienazioni. La poesia potrà essere più o meno bella, ma quando inquieta la realtà storica delle persone sia nella loro singolarità che socialità, sia nella loro spiritualità che relazionalità, allora non rimarrà un atto di autoconsolazione senza senso e senza prospettiva, ma uno “spazio di domanda” spazio aperto, dove il lettore, come in un’agorà, può entrare e uscire, lasciarsi contaminare o rimanere indifferente . Io credo nel poeta essere pensante e comunicante in una data terra e in un dato contesto sociale e la cui parola è efficace non semplicemente perché suscita emozioni, ma perché si situa nel contesto in cui si esprime come “dabar”, parola ebraica che indica una “creazione”, un disegno che si deve realizzare, indica non una ripetizione, una “imitazione”, ma una “nuova esistenza”. Quindi qualità.

Raffaele Urraro – Difficilezza e oscurità di un testo poetico. Si dice ordinariamente che oggi si legge poca poesia perché i testi sono “difficili”, oppure che sono “oscuri”. Nell’uno e nell’altro caso si afferma il concetto di difficoltà di comprensione di un testo poetico. Insomma si incolpa sempre il poeta mentre il lettore si scarica la coscienza da ogni responsabilità.

Ma non si vuole, qui, discutere se si legga poca poesia e di chi sia la colpa o la responsabilità. Si vuole solo richiamare l’attenzione su qualche concetto che riteniamo utile a chi voglia avvicinarsi alla poesia o a chi non voglia allontanarsene.

Un testo può essere “difficile”, nel senso che la sua interpretazione presenta molte difficoltà di comprensione, e la sua “difficilezza” – brutta parola, ma l’unica che può dare veramente il senso di poesia difficile ad essere decodificata –, che può essere di grado più o meno elevato, può certamente costringere il lettore a darsi per vinto e dichiarare così la sua “incompetenza” come fruitore di un testo poetico. In questo caso, però, il lettore non dovrebbe darsi subito per vinto, ma mettere in campo tutte le sue capacità decodificatorie, tutta la sua pazienza, tutte le sue armi per cercare di arrivare a comprendere il senso e il valore di un testo. La fatica che egli compie per decodificare un testo sarà direttamente proporzionale al valore del risultato che egli raggiungerà, e cioè la comprensione di pensieri profondi e di una struttura del testo particolarmente elaborata. Vogliamo dire che in questo caso ciò che si guadagna in termini di crescita della personalità è certamente determinato dalla profondità dei pensieri espressi dal poeta e dalla complessità del testo che, essendo un testo “poetico”, presenta di per sé una struttura particolarissima, originale, fondata su figure retoriche, linguaggio accurato e selezionato, armonia nella versificazione, grande e profondo lavorio sul significante per portarlo a determinati significati. Insomma si tratta di una vera e propria “ricompensa”, come afferma Giorgio Manacorda nel suo La poesia italiana oggi.

Passiamo ora all’”oscurità”.

Un testo poetico può certamente risultare “oscuro”, astruso, tanto da apparire addirittura equivoco e da ingenerare un senso di rigetto nel lettore. Ma vi sono due tipologie di “oscurità”.

Primo caso. Un verso, o un canto intero, della Divina Commedia di Dante può risultare “oscuro”. Esso impegnerà giustamente il lettore in una ricerca accurata e impegnata. Tutti conoscono il senso di grande soddisfazione, non diciamo di euforia, che invade il lettore quando scopre che quel verso o quel canto ha rivelato, sotto il velo della sua apparente oscurità, una profondità concettuale e una struttura poetica eccezionale. In questo caso, diciamo pure che “oscurità” può essere considerato un sinonimo di “difficilezza”.

Secondo caso. E qui c’è da discutere e riflettere. Vi sono testi che, nonostante l’impegno più paziente di un lettore ben armato di tutti gli strumenti decodificatori, non “parlano”, non “dicono”, non “trasmettono”: sono muti, astratti, confusi. Probabilmente lo stesso autore troverebbe difficoltà ad esplicitare il senso, semantico e artistico, di un componimento di tal fatta. Questo fenomeno oggi appare davvero macroscopico. Afferma giustamente Giorgio Manacorda: «Il problema è la dilagante tendenza all’oscurità inutile… un’opacità che viene presa per ardua complessità… l’oscurità è diventata un pretesto per fingere la poesia. Nel piccolo mondo della poesia italiana contemporanea è ormai un fenomeno largamente diffuso, ma nessuno lo dice, e se nessuno dice che una poesia è oscura senza necessità, i lettori finiranno con associare poesia contemporanea a insensata oscurità. Anche perché non esiste più quell’attività che dovrebbe servire a illuminare la complessità del testo poetico: è sparita la critica militante. E non per buon cuore, ma perché è facile sbagliare, e sbagliare non piace a nessuno. L’attuale babele dei codici, dei punti di vista, delle idee e delle ideologie induce anch’essa a non emettere giudizi – che non verrebbero capiti… Oggi un giudizio non positivo è vissuto come un’offesa sanguinosa, come un attacco personale ingiustificato» (La poesia italiana oggi, pagg. 9-10).

Dunque siamo di fronte a due tipologie di “oscurità”: quella che deriva, naturalmente, dalla complessità strutturale di un testo, e quella che Manacorda chiama “inutile”, che è fuorviante, un po’ truffaldina, che nasconde la pretesa di esser poeta attraverso una strada che non si augura a nessuno di percorrere.

Io so soltanto che, se nel rapporto tra la parola e la cosa non vi è una qualche verità, un concetto, un’idea, un “messaggio” (come si diceva una volta) che costringa il lettore ad una riflessione, ad un’emozione della mente e del cuore ‒ ripeto: della mente e del cuore ‒, allora la poesia è semplicemente inutile.

Questa mia riflessione non vuole essere intesa come elogio della poesia cosiddetta “facile”, ma come rifiuto, chiaro ed esplicito, della poesia che, sotto l’apparenza di poesia difficile, nasconde soltanto gratuita oscurità. Ed è questa tipologia del fare poetico a provocare rifiuto, rigetto, fuga dalla poesia.

Michele Nigro – Sono incondizionatamente d’accordo con questa onesta riflessione…

Ennio Abate – Gentile Urraro, due domande un po’ provocatorie:

  1. cosa aggiunge di più il termine “difficilezza” al posto del termine “difficoltà” o dell’espressione “poesia difficile”?
  2. chi garantisce ad un lettore volenteroso (non pigro o ostile) che «la fatica che egli compie per decodificare un testo sarà direttamente proporzionale al valore del risultato che egli raggiungerà», se tutti sappiamo che l’oscurità di un testo può essere la porta di accesso sia ad un tesoro vero («una profondità concettuale e una struttura poetica eccezionale») sia ad un tesoro falso (una finta poesia o « gratuita oscurità»)?

Raffaele Urraro – Ho usato la parola “difficilezza” per esprimere un concetto che “difficoltà della poesia” o “poesia difficile” non possono assolutamente significare: “difficilezza” indica una qualità propria della poesia, insita nella poesia stessa. Che significherebbe “difficoltà della poesia”? Difficoltà a fare che cosa? ad essere capita? Ma io ho voluto usare una parola ‒ una parola ‒ che dicesse da sola e chiaramente il “concetto” di oscurità o complessità del testo. Allo stesso modo: parlare di “difficilezza” è la stessa cosa che parlare di “poesia difficile”? No. Ripeto: la “difficilezza” è il concetto che io ho voluto esprimere mentre per esprimerlo diversamente ci sarebbe bisogno di una perifrasi. Per quanto riguarda il secondo punto dell’intervento di Abbate, io ho voluto soltanto evidenziare che una poesia piuttosto oscura, che presenta difficoltà interpretative, richiede al lettore una disponibilità adeguata alla “difficilezza” del testo. Magari ci sarà da discutere sulla “proporzionalità” del risarcimento, sicuro o non, ma è certo che tale lettore ne uscirà diverso (in che senso? e chi lo può dire?). Con Abbate sono perfettamente d’accordo su tutti i problemi trattati nell’altro suo intervento che segue qui a ruota.

Ennio Abate – Nel secondo dei tre importanti articoli intitolati «Scrivere chiaro» del 1974 Fortini diceva: «[Chi scrive (e chi parla)] suppone un destinatario capace di decifrare il suo messaggio. Dice «pane» e quasi tutti (sul territorio della Repubblica) lo capiscono. Dice «nella misura in cui»: lo capiscono solo quelli che hanno frequentato una sezione del Pci….».

Lo stesso vale per “difficilezza”, credo.

P.s. Abate non Abbate.

Raffaele Urraro – Scusami, Abate. Per la “difficilezza”, pensavo di essere stato chiaro. Vuol dire che me ne faccio una ragione. Per la chiarezza e per la comprensione di un testo, sappi che vi tendo con tutte le mie forze, sia quando scrivo poesie che quando scrivo di saggistica. Anzi: gli amici che mi conoscono sanno che ne faccio motivo di discussione ogni volta che se ne presenta l’occasione.

Bruno Di Pietro – Intervengo per dire innanzitutto che sono in buona parte d’accordo con quanto detto da Ennio Abate. Vorrei alle sue riflessioni aggiungere qualcosa. 1. Il dato essenziale della poesia è la sua necessità di comunicazione. Lo scopo di chi scrive è trasmettere e, se possibile, essere ricordato. 2. Perché sia possibile tale comunicazione occorre raggiungere un equilibrio fra “es-tensione” e “in-tensione” come dice il mio amato Roberto Sanesi da cui cito a piene mani (cfr. Paragrafi sulla poesia [II] in Poesie, Milano, 2010, pag. 327 e segg.). Per raggiungere il massimo di comunicazione possibile (“es-tensione”) dovrò usare un linguaggio in cui non vi siano possibili errori interpretativi. Volendo invece raggiungere la massima “in-tensione” dovrei “rifuggire da qualsiasi termine legato a valori stabiliti”. 3. È questa seconda via “di apparente rinnovamento” che viene comunemente seguita . 4. «L’errore ‒ dice Sanesi ‒ deriva dal considerare lingua e linguaggio come un’unica cosa». 5. In conclusione, per lui (come per me) non occorre una lingua nuova . «Il linguaggio letterario potrà essere rinnovato solo ponendo in una nuova relazione i termini a disposizione» anche se consunti dal tempo. 6. Credo inoltre che chi scriva abbia il dovere di porsi il problema dell’oggetto che intende trasmettere e, quindi, di rendere efficace tale trasmissione. In poesia c’è un “quid pluris” poiché tende ad essere “ricordata” (Derrida diceva che la poesia è “mandare a memoria” “par coeur” ) e tende a emozionare. “Ascolto” e “turbamento” sono tratti essenziali. E qui copio-incollo Ennio Abate quando dice che «l’oscurità di un testo può essere la porta di accesso sia ad un tesoro vero (“una profondità concettuale e una struttura poetica eccezionale”) sia ad un tesoro falso (una finta poesia o “gratuita oscurità”)» per dire che “prestare ascolto”, “commuoversi” dinanzi a un testo non dipende dall’oscurità dello stesso. 7. Quanto al rapporto con ciò che ci circonda, la casa, la città, il paesello, il mondo sono talmente in sintonia da averci provato (il risultato non posso saperlo) scrivendo Impero (edito nel 2017) che forse qualcuno degli intervenuti avrà sentito nominare. Su queste pagine, in occasione della pubblicazione di alcuni miei inediti, nella cd. “dichiarazione di intenti” ho scritto: «Assegno alla mia scrittura quasi una funzione civile, di lettura attenta dello stato delle cose e di ostinato perseverante richiamo alla responsabilità degli intellettuali nell’epoca del minacciato naufragio del pensiero occidentale siccome pensiero del tramonto». E qui lo ripeto.

Giovanni Matteo Allone – Con riluttanza e spesso controvoglia ma per necessità ho chiamato artisti sperimentali coloro che nelle attività culturali, poesia, pittura, scultura, ma soprattutto nel genere della poesia verbo-visuale hanno apertamente contestato la classicità, intesa come tradizione, sconvolgendo la grammatica e la sintassi, eliminando la punteggiatura e non solo, facendo leva sull’aspetto visivo, fonetico, dimostrando, insomma, un eclettismo di non facile presa su eventuali fruitori. A sperimentare sono gli scienziati, gli artisti creano scavando nel proprio animo, rifiutando il gretto conformismo, svincolati da regole effimere, spesso risultando indigesti perché ritenuti incomprensibili, e se talvolta così appaiono non sempre è per colpa loro, ma di coloro che vorrebbero evitare di pensare, di riflettere, perché amano trovare tutto apparecchiato su una tavola su cui sedersi e sbafare. Il problema per gli autori di avanguardia non è tanto quello di difendersi da certa società e neanche quello di farsi accettare, quanto quello di poter continuare per la propria strada senza essere ostacolati e talora vilipesi, liberi da costrizioni e condizionamenti vari.

Quanto al successo non lo chiedono perché non pensano e non vogliono onorificenze e premi. D’altronde anche in passato i Grandi sono stati sempre degli innovatori dei rivoluzionari e hanno faticato non poco a farsi strada. Di recente la studiosa siciliana Roberta Sinatra, in uno studio pubblicato sulla rivista «Scienze», ha rilevato che il successo nel mondo dell’arte non è in stretta correlazione col talento, varie sono le dinamiche che lo determinano, fortuna, possibilità di esporre in gallerie affermate, network, sponsor, recensori compiacenti ecc.

E allora? Il mio consiglio è di non farsi tentare dalla prevedibilità, dall’effimero, da una letteratura di facile consumo e di intrattenimento anche perché le signorine di gozzaniana memoria a cui rivolgersi non esistono da tempo.


 

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