AA. VV., La poesia salverà il mondo?

In una discussione con un interlocutore è emerso un vuoto di cultura, comprendente anche la poesia. L’interlocutore dava la colpa alla società globalizzata, a un unicum derivante dalla corsa al potere e alla ricchezza economica. Alla fine non desinò dal riconoscere nel linguaggio letterario odierno, che molto prende dal parlato e dai social, un modo espressivo difficilmente ribaltabile. Sei d’accordo? mi domandò. Quasi. Quel mio quasi celava molta perplessità perché io sono un po’ più selettivo nelle scelte dei linguaggi e dei piani di espressione che devono essere plurimi e contraddittori. Ma comunque, come giustamente affermava l’interlocutore, il tutto è riportato a come ti svegli la mattina o a ciò che gli occhi vedono, un po’ meno il cuore che ancora fa rima con amore. Alla fine, ti rendi conto che è tutto ipotetico relativo e ti sobbalza l’idea di abbandonare tutto. Nonostante tutto continui nel tuo fallimento. Ultima domanda dell’interlocutore: ma perché continui a scrivere e leggere poesie in un mondo che sta diventando sempre più una giungla di ingiustizie, razzismo, intolleranza ed egoismo? Perché mi piace continuare a credere nell’utopia che la poesia salverà il mondo. Ma è giusta un’utopia! E voi, perché continuate a scrivere poesie? Cosa rappresentano per voi? (g. m.)

* * *

Natasa Butinar ‒ Sempre di più, ora come allora, per me la poesia è stata una via di fuga dal mondo che non capivo. Non mi ci trovavo a mio agio tra la gente quando ero ragazzina, non mi ci trovo nemmeno adesso, a cinquant’anni. Penso che questo è dovuto al mio disagio psichico, questa mancanza della capacità di comunicare a voce ciò che si prova, per paura di non essere capiti e accettati dalla società. La poesia ti dà questa possibilità d’espressione del sentimento più profondo, ti eleva sopra le paure, ti inebria con i suoni delle parole e tu, finalmente, comunichi. Le mie poesie sono arcobaleni nei cupi giorni della depressione, sono frammenti del vissuto, piccoli quadri da ammirare o biasimare, a volte sono i sogni che attendono avverarsi. Sono punti fermi nel tempo, una sorta di “backup” dal quale riparte tutto in una nuova direzione, verso un giorno nuovo.

Oronzo Liuzzi ‒ Stiamo vivendo una realtà tecnologica rivoluzionaria fatta di nuovi oggetti, di nuovi linguaggi e di una nuova insurrezione mentale. Siamo migrati in un nuovo mondo, leggero, veloce, immateriale, virtuale: il digitale.

Si sta scrivendo un’altra storia degli umani. Ogni giorno lasciamo orme nella grammatica del presente, capaci di incrociare le lezioni del passato con gli strumenti del contemporaneo.

Il futuro è nelle nostre mani, anzi in un dito che preme il futuro. È il nuovo gioco del nostro tempo annidato nella normalità, nei gesti semplici, nella vita quotidiana, nella nostra gestione dei desideri e delle paure.

Ancora non conosciamo le conseguenze della metamorfosi sociale di questi strumenti che attualmente ci piacciono. Un uso continuo potrebbe danneggiare, forse, il nostro modo di stare al mondo, la nostra sfera mentale, perfino il concetto del bene e del male.

Il viaggio è piuttosto avvincente e cieco.

E la lancetta dell’orologio poetico si muove con un moto continuo, seguendo ogni micro istante del tempo!??! O si è persa per strada?!!? L’ingranaggio poetico della mutazione mentale ha ridisegnato un suo modo del fare adeguandosi a questo nuovo gioco? È capace di generare una nuova idea del linguaggio?

Parlare ancora di un’avanguardia letteraria in un’epoca dove la rivoluzione tecnologica sembra aver determinato e modificato il tempo degli umani molto velocemente mi sembra inopportuno e inadatto.

Sostanzialmente la sperimentazione deve venir fuori, costruendo strumenti che ci consentirebbero di mutare la mappa della scrittura, la formazione del linguaggio, un nuovo modello di poetica, un movimento essenziale che origina la vera sostanza dell’essere attuale.

Personalmente ho sempre sperimentato forme alternative di scrittura in modo tale da allinearmi ai movimenti sismici del sociale, alla velocità dell’accadere.

Bio, Plexi, Nuvole di gomma, Chat_Poesie, Pensieri in_transito, Poesia Povera, Via dei Barbari, Poesie invisibili e Condivido ed E mentre l’arte e Lettera dal mare ecc., sono raccolte poetiche contro l’apatia del pensiero, un continuo inoltrarmi nella conoscenza con una scrittura che attraversa la realtà per trasmettere aperture attive.

Una voce che grida nel deserto. Versi scritti sulla sabbia. Sono al mondo e nel mondo. Sono nella creazione letteraria per conoscere il reale.

Non è la poesia a non sapersi disporre verso la sperimentazione. È il gesto del poeta che rimane prigioniero nella e della propria forma mentale e creativa.

Il muscolo della parola poetica ha sempre bisogno di una fervida necessità di rinvigorirsi per una consapevole evoluzione di stimoli e presenze. Elaborare idee nuove è un continuo cammino in crescita. È una trasformazione impegnativa che richiede l’incontro con la difficoltà, «un dispiegarsi della verità» (Hegel).

Alberto Rizzi ‒ La poesia è una sorta di radar linguistico col quale si esplora l’esistente: dalla propria interiorità all’Universo in toto, dalla dimensione strettamente materiale, “3D”, a quelle sovramateriali. E la si comunica al lettore e all’ascoltatore attraverso un linguaggio non convenzionale (come accade del resto in tutte le Arti, che se così non fosse non sarebbero tali), che li stimoli oltre l’ovvio della ragione e della percezione sensoriale.

Esplorare, per me e per gli altri, è il motivo per cui “faccio Arte” in generale e Poesia in particolare.

Mi perdoni, ma “Salviamo il mondo con la poesia” fa tanto slogan elettorale: tipo “Salviamo – o cambiamo ‒ l’Italia”, per capirci.

L’Italia, ammesso che esista soprattutto come popolo, si cambia sulla base dei comportamenti individuali e così il mondo: «Se vuoi cambiare il tuo Paese, cambia la tua città. Se vuoi cambiare la tua città, cambia il tuo quartiere. Se vuoi cambiare il tuo quartiere, cambia la tua casa. Se vuoi cambiare la tua casa, cambia te stesso».

Vado a memoria da un detto indiano, ma il concetto è questo: si faccia pure la propria parte, per cambiare il mondo; ma senza farsi illusioni, perché l’agire di un singolo è di portata semplicemente non percettibile.

Può fare la differenza, però, e dunque è il caso di provarci sempre; se non altro per avere la coscienza a posto.

Si ricordi, però, che se la “ricevente” è spenta e non vuol saperne di accendersi, la “trasmittente” non può nulla, nemmeno usando i panzer.

Giorgio Moio ‒ Se la poesia non salverà il mondo ‒ che comunque resta un’utopia ‒, non sappiamo cosa possa salvarlo. Rilke diceva: «Nella mia idea di poesia l’uomo è visto anche come possibile salvatore del mondo se riesce a trasferire il verbo poetico nel proprio interiore. È proprio nella necessità di preservare la poesia da ogni minaccia esterna che si potrà salvare il mondo, nel più profondo intimo, dove la drammaticità dell’esistente viene sopita, come ogni angoscia». Ora, non è che dobbiamo per forza credere in quello che dice Rilke, ma rifletterci su ci sembra sensato.

Alberto Rizzi ‒ Ecco: la chiave di tutto è in quel «… se riesce a trasferire il verbo poetico nel proprio interiore». La poesia, quanto a cambiamenti, lavora sull’interiorità del singolo, per farli avvenire. In altre parole, il cambiamento sarà solo fatto da singoli, a patto di esser cambiati nella loro interiorità; dalla poesia, ma non è detto che uno debba passare per questa forma d’arte. All’esterno, la poesia non cambia nulla: semmai registra i cambiamenti, o ‒ al massimo e se si è in presenza di un genio ‒ li anticipa, li prevede. Forse non sarà la poesia a spingere per un cambiamento di una società più vivibile, ma esso non può che avvenire attraverso una forma d’arte, dopo il fallimento della politica, dell’economia e della scienza che continuano ad alimentare solo caos e indifferenza con la legge del più forte.

Rosanna Sabatini ‒ Se può valere l’opinione del Prof. Umberto Galimberti, espressa durante una trasmissione televisiva RAI, nelle aule scolastiche dovrebbero entrare meno PC e più letteratura, letteratura in genere e non soltanto poesia. Certo la poesia ingentilisce il mondo. Non sono d’accordo sul fatto che la poesia debba entrare in comunicazione con il lettore e l’ascoltatore solo mediante la sfera non razionale; ci sono tante tipologie di “poesia” così come tante tipologie di ciascuna forma d’arte che possono giungere ai vari fruitori in modo diverso.

Alberto Rizzi ‒ Rosanna Sabatini, La ringrazio, perché ‒ nella fretta ‒ avevo scritto un aggettivo errato, che ora ho immediatamente provveduto a correggere: non “attraverso un linguaggio non razionale”, ma “attraverso un linguaggio non convenzionale”.

Emir Sokolović ‒ La poesia è allo stesso tempo il sentiero e la  luce; un sentiero  per il poeta e una luce per il lettore. Questa simbiosi è vincolante esclusivamente per il poeta per il quale il lettore (quella luce) può e deve essere solo un’eco che si sente. Non è necessario che diventa testimonianza. Il piacere e l’obbligo del poeta, esclusivamente, dovrebbe essere un atto creativo (il sentiero). E la luce risplenderà sull’Opera creata spesso quando il poeta meno se l’aspetta…

Renzo Marrucci ‒ Può anche capitare di svegliarsi la mattina e scrivere poesie… Capita! Può capitare la sera, oppure quando senti l’impulso che stimola l’animo a scrivere e pensare e cioè di notte, sì di notte, come capita anche a me… ed è sempre qualche cosa che ti spinge dentro, da dentro, e non è mai banale. È sempre e comunque il tentativo più o meno riuscito di esprimere la nostra essenza… la parte migliore di noi che si sveglia e prende coscienza e come tale sempre la parte migliore di noi…

Maria Cristina Barbolini ‒ Direi che si continua a scrivere poesie per necessità, non potendone fare a meno, come si respira senza pensarci.

Fabricio Guerrini ‒ La poesia, anche quella spicciola, quella che scrivono la maggior parte dei poeti di internet, io compreso, è un po’ l’ultima spiaggia dell’espressione individuale, specie a fronte di un linguaggio che sempre più si semplifica e imbarbarisce, diventando incapace di esprimere le sottigliezze dei sentimenti e delle emozioni. Sarà l’ultima “arte” a morire.

Renzo Marrucci ‒ Non ci sono poeti di internet…ci sono poeti più o meno bravi, più o meno capaci di esprimere quello che sentono…

Fabricio Guerrini ‒ Renzo Marrucci certamente mi sono spiegato male, dovevo essere più preciso. Per poeti di internet intendo coloro che rendono pubblici loro buoni o cattivi testi solo tramite internet, non con pubblicazione editoriali, come faccio anche io. Chiedo scusa.

Flavio Almerighi ‒ Se lo domandarono in molti anche dopo Auschwitz, eppure la Poesia, ce n’è, basta saperla scovare e riconosce, non sta poi così male. Fintanto che troverà lettori disposti a cercare autori, non tutti solo alcuni. Questo mondo è un ossimoro, tutto sommato: una società estremamente individualista secondo il canone imposto, dove l’individuo in sostanza è negato. La poesia potrà salvare il mondo nella misura in cui smetterà di coesistere e inizierà a mettersi di traverso. Ricerca e lettura oltre la scrittura, avanti tutta!

Renzo Marrucci ‒ La poesia c’è sempre e sempre ci sarà e viene quando deve venire se viene… dobbiamo solo essere preparati a riconoscerla… e saperla amare…

Alfonsina Caterino ‒ Davvero un’arricchente discussione, ha intavolato l’interlocutore il quale da nome comune di persona, si è tramutato in un lampionaio di fiammelle accese su un vuoto culturale, epocale e visibile ad occhio nudo. E risulta il dialogo, fra il passante e l’interlocutore, non solo sorprendente, ma di straordinaria avvedutezza, in quanto fa risaltare alcuni dei motivi che nell’epoca post-contemporanea stanno relegando il ruolo della cultura, in ambiti sempre più ristretti. Pure essa, non solo per gli addetti ai lavori, per i ricercatori, studiosi, sperimentatori e avanguardisti, ma anche per gli amanti del sapere e tantissimi altri, rimane una sorta di testata d’angolo della storia degli uomini, dai primordi, la quale finanche nei corsi di transizione e decadenza, come l’attuale, non può essere liquidata al pari delle cose che esaurito il ciclo vitale, si rottamano. La cultura nella vita dell’uomo ha la stessa funzione della linfa per le piante! Vale a dire che senza porsi domande e fornire risposte, l’esistenza si ridurrebbe a passaggio inanimato degli uomini sul pianeta terra, al pari degli utensili fabbricati come ausili della manutenzione terrestre.

La vita degli uomini, invece contiene infinite e complesse cause, effetti e mutamenti il cui studio, senza la cultura dell’essere e del divenire, è qualcosa di inimmaginabile ed anche di “sconsiderato!”… L’interlocutore ad un certo punto chiede al passante, il perché questi continui a scrivere e leggere poesie, in un mondo egli dice, che sta diventando una vera giungla, dove sovrane regnano, ingiustizie, razzismi, intolleranze ed egoismi… Il passante risponde che continua a scrivere Poesia perché resta convinto che essa è la chiave per aprire nuove strade, possibilità e luoghi… Egli pensa che la sua fede non è deposta invano, in quanto l’utopia di cambiare completamente faccia al mondo, diverrà realtà e ciò, confidando proprio nel bisogno degli uomini di rendere scienza il sogno che attraverso la mente ed il suo infinito potenziale, potrà un giorno traghettare l’umanità fuori dalle mura, verso realtà spazio-temporali esistenti, al di là…

A tale auspicio, solo un canto alto può abbattere sul foglio, i margini e renderlo proiezione tridimensionale del pensiero. E… noialtri, ci chiede il passante, perché continuiamo a scrivere poesie, cosa rappresentano per noi?… Altra domanda questa, difficile e preziosa nella sua provocazione insinuante che sarebbe ora di smetterla, nella società globalizzata, indifferente ai moti dell’animo, e forse indifferente a tanti altri moti dell’essere, di verseggiare la vita che scorre, come succedeva nei secoli passati… E lasciare, quindi, annegare lo scontento cosmico, nel dettato dei poteri occulti e sovranisti, che obbligano ad acquistare qualsiasi cosa, metta l’umanità in contatto con le lontananze, ma la separa completamente dal prossimo? Vale a dire che il vivere attuale, è vivere il paradosso senza via d’uscita! O si? E se fosse la via d’uscita dalla schiavitù dell’ubbidienza di fare ciò che occultamente è comandato, proprio la Poesia…? Io non ho la risposta a questa domanda, ma sento che scrivere versi, distorcere la realtà opponendola, contrastandola, abbattendola per rivestirla del sogno infinito, misterico ed immenso, trasforma la mia mancanza di libertà, in attimi liberatori… disumani nella loro connotazione imprendibile da qualsiasi parte si voglia incastrarmi!

Per me la poesia è lo stato dell’eldorado vivibile in mente, in cucina, nel giardino di casa…. La realtà panica, filtrata dal pianeta della poesia, diviene infinità di realtà ed ogni parola, assunto scientifico che controverte sistemi e teoremi umani trasformandoli in astri neanche sospettati fino al momento che assumono forma sotto la spinta compulsiva del pensiero poetico! Essa è per me, lo stesso modo di vivere, di respirare, di pensare perché tutto questo insieme rende il mio corpo mistero che chiede incessantemente di abbeverarsi di un’acqua dissetante come il luogo che anela raggiungere per partecipare la rivelazione apocalittica sul significato dell’esistenza, del perché esiste l’uomo sottomesso al destino misero e mortale il cui senso è fievole al pari di una nuvola che posta avanti al sole, oscura definitivamente il giorno…

Certo, questo all’ umanità che corre, produce soldi e qualsiasi cosa, non interessa affatto… I neologismi new age, new-economy ecc., la classificano umanità vincente, funzionale al sistema, concreta, efficiente; insomma la rivestono di termini identificativi della gente che conta, che sa il fatto suo e non perde tempo a cercar farfalle, lucciole e lanterne come fanno i poeti… Nient’affatto! Credo che un giorno o l’altro, si smetterà di pensare ai poeti come a persone fragili o fallite che riversano le proprie afflizioni e malcontenti “nei versi”…

Intanto è risaputo che, per ogni “verso” scritto, bisogna aver letto almeno mille libri, poetici e della grande narrazione, a dire di Eugenio Montale, sede del semenzaio in cui abbeverare nuove specie di alberi e fiori… Poesia quindi, come innesti bio-etici-estetici e scientifici sullo stato delle cose, per stravolgere gli assetti e illuminare la realtà con la ricerca e densità interiori. Vale tale visione a dire che secondo me, la poesia, non avrà mai fine in quanto il suo è mandato che le viene consegnato per intercessione misterica e divina, come avviene per la nascita di una creatura invisibile il giorno prima e… nel successivo, neo-nata nel mondo!…

Maria Cristina Barbolini

Direi che si continua a scrivere poesie per necessita’, non potendone fare a meno, come si respira senza pensarci

Carmen De Stasio(Il saper ascoltare nel comportamento di Poesia) Poesia – Il trattarne convoca alla mente meditazioni che si affastellano per affermarsi e, talora, sovrastare di verità presunte rispetto alle altre.

Tra molteplicità questionabili, poesia rimanda senza dubbio alcuno a creazione che figura nell’occhio della mente scenari illuminati e, simultaneamente (o anche in un attimo successivo) passaggi che si diramano – talora imperturbabili – in una babele di oscurità, all’interno della quale il mistero dell’inconcepito recupera eventuali corrispondenze tra salvezza, rispettabilità e libera espressione di saggezza.

Giungo così a una fase che interrompe la spirale, pressando a valutare quali condizioni possano portare a coincidenza poesia con opportunità di soluzione. In quest’ambito viepiù intrigante è l’assetto: nello scongiurare l’incauto incantamento di pensieri che sovvengono mutilati, poesia esiste, innanzitutto, in un’organazione che avviene per elaborazioni mentali, prima che essere scenica; conquista che miete l’esserci permanente nell’atto di scongiurare tutto quanto sia funesta non-ricerca ed esclusiva attrazione, là dove insiste l’ovvietà della replica. In tal senso, il richiamo va a un vivere all’interno di una vicenda che, pur nella sua individualità, non ripone a margine l’esserci dell’attorno, giacché è nell’attorno che l’individualità, quanto la pluriformità del vissuto-vivente che poesia rappresenta, esiste in una forma impossibile da decifrare se deviata nei termini di un’irriducibile replica dell’ovvio. Replica che, per altro, vediamo manifestarsi nella sottrazione confortevole, nel dileguarsi in conformità artificiale, al punto da concimare illusione e un’incomprensibile interruzione che soltanto attinge a una semantica ristagnante e per ciò stesso fatua. Su un versante opposto – dal clima tutt’altro che generalistico – la parola (nella quale assimilo l’identità pluriforme di poesia) ricompone ed elabora il rinnovamento della struttura, andando a ridurre l’inadempiente ordinarietà in favore di una contigua grammatica che sostenga l’esplorazione-espansione di itinerari e ne sottragga la compressione. Quale l’evidenza, se non la sintesi di recisioni e recessioni guidata da una logica talora trasgressiva e che riesce a liberare dalla convenzionalità – assunta per logorato uso – le cadenze sintattiche, affidando ad esse una ricorrenza non già quale mezzo di congiunzione, quanto rituale fatto nel costruire una tessitura, piuttosto che restringersi in sulfuree coreografiche congiunzioni.

È un fatto che, per una natura indecifrabile, poesia apra, a questo punto, ad anditi nascosti di parole al fine di concepirne le immagini ermeneutiche in una simbolica e progressiva palingenesi. Qui si avverte il bisogno di distacco, di scuotimento, se possibile, dalla claustrofobica adattabilità che, nel vanificare la profusione – pure sovente sintomo di penuria di forza immaginale – coltiva inganno e discromia in una contrazione-distrazione ingrigita da replicazioni claudicanti. È questa la sintesi di un’emancipazione alla quale si deve il clima di un meta-linguaggio, nel quale si delinea l’esigenza di conservare le molteplicità di un territorio intento a forgiare costantemente quello che declino come auto-disciplinamento all’ascolto; un auto-disciplinamento che si avvale dell’organazione semantico-strutturale delle abilità speculative, prima che accennarne la forgia su fogli sparsi o su schermi interroganti. Complice di rivelazioni giammai assolute – se non nell’impianto avvezzo all’immediatezza – poesia è, pertanto e innanzitutto, rimando a situazioni motivanti all’innesto simultaneo e graduale; un montaggio all’interno del quale non arduo è avvedersi dell’azione poetica attraverso il suo rapporto con il mondo, attraverso il suo posizionarsi al centro di rumori interpretati e amalgamati a dar vita a una sinfonia di lettura autonoma; lettura che non già avviene senza dolore, che sollecita in libertà lo spostamento necessario rispetto alla seduzione.

Questo induce l’insistente presenza di poesia: fuorviando dalla giungla di nullificazione, il paesaggio poetico condivide il fatto da un fronte d’indagine continuata e innovativa; studio e tecnica giammai marginali al saper ascoltare. Su questo versante deflagra il pericolo incombente di una perdita – perdita dell’autonomia che è fondamento delle abilità speculative. Tuttavia, non è auspicabile richiedere se poesia abbia una finalità: nell’intraprendenza, essa è finalità gestita in un’autonomia testimoniale per sovvertire il tempo della comunicazione-frammentarietà; in un disporsi come declinazione di connessioni, di addensamenti, di condensazioni. In più, contraendosi e astraendosi a più riprese, poesia richiama un quesito che è stringente al punto da procurare disorientamento e disillusione: nel tempo della perdita della parola-speculazione complessa, sovente adagiata alla facile distrazione, l’autenticità poetica deve la sua strutturazione al permanere della ricerca mediante una meta-parola che elevi l’equilibrio intenzionale della scrittura; che sia comportamento e conceda valore all’inappagante riflessione esistenziale. Un gravitante impegno che rivela – se possibile – nell’inappagamento l’energia di una persistenza, sia quando poesia è dominata dalle vicende del proprio tempo, sia quando poesia è dominata dalle mediazioni del proprio tempo.

Quale, infine, la motivazione auspicabile, se non nel fatto che, nell’elezione di scambi figurali di auscultazione e declinazione a un personalissimo contegno, poesia rivolga il suo rifiuto agli iperbolici attraenti volteggi di un’identità narcisistica alterata in equivoca finzione, e si affidi a un’articolazione elaborativa che sia da schermo al soffocante silenzio di una memoria sovente miope e contrastiva.

Ciro Ilario De Novellis ‒ Sì. Sono d’accordo con quell’interlocutore. Credo che valga la pena cercare almeno di esplorarlo quel pensiero, ma non con l’intento di salvare il mondo e nemmeno di ipotizza che ciò sia possibile. Almeno non in questo momento storico.

Si era aperta una finestra in un tempo che chiamammo illuminismo ma, purtroppo, è durato poco e non ha dato nessun esito favorevole. Quei pochi tentativi di ripristinare quel vero di vichiana memoria, sono stati di lì a poco maledetti e oscurati. La poesia è un virus virale a modo suo, e fu inventato proprio per distruggerlo il mondo, per damnare la memoriae della sua perfezione. Ecco che allora, quando tutto stava per risanarsi, furono costruiti in laboratorio sperimentale virus molto più virali e devastanti dei primi, che seppero uccidere ogni difesa immunitaria, ogni tentativo di resistenza, di resilienza, lasciando solo anticorpi fragili e inebetiti o autistici che non chiedono altro che morire.

Si meraviglieranno i poeti di questa anamnesi remota e della prognosi infausta dell’interlocutore, ma il virus è una macchina del fare così preso dalla sua meta poiesi. Tanto esaltato dalla sua sinestesia che costruisce mondi che sembrano ipallagi di iperbati e paradossi che nulla possono parabolare con quell’interlocutore che oramai ha capito che il computer si può solo formattare.

Salvatore Violante ‒ Dio come hai ragione! ma non riesci a non essere poeta…

Ciro Ilario De Novellis ‒ Non mi sono mai definito poeta, il poieo è un verbo di azione. Un suo ramo magari si potrebbe pure prendere in considerazione: è il podium, se proprio vogliamo identificarlo quale referente. Ecco forse andrebbe proprio bene per me l’azione genitiva del podio che è il piede che cammina, nel senso che io scrivo coi piedi.

Raffaele Ragone ‒ Sostituire “storia” e altri termini pertinenti con “poesia” e altri termini pertinenti. «La storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta. / In ogni caso / molti anelli non tengono. / La storia non contiene / il prima e il dopo, / nulla che in lei borbotti / a lento fuoco. / La storia non è prodotta / da chi la pensa e neppure / da chi l’ignora. La storia / non si fa strada, si ostina, / detesta il poco a poco, non procede / né recede, si sposta di binario / e la sua direzione / non è nell’orario. / La storia non giustifica / e non deplora, / la storia non è intrinseca / perché è fuori. / La storia non somministra carezze o colpi di frusta. / La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta. / La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive. / La storia è anche benevola: distrugge / quanto più può: se esagerasse, certo / sarebbe meglio, ma la storia è a corto / di notizie, non compie tutte le sue vendette. / La storia gratta il fondo / come una rete a strascico / con qualche strappo e più di un pesce sfugge. / Qualche volta s’incontra l’ectoplasma / d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. / Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. / Gli altri, nel sacco, si credono / più liberi di lui».

Marco Melillo ‒ Non so chi sia stato a scrivere ma mi pare avvincente il quesito. Non ho letto le risposte precedenti. Tuttavia dopo tanta autocensura ‒ perpetrata nei riguardi di un amore folle ed incondizionato ‒ credo semplicemente che scrivere versi sia un modo di vivere che completa, perciò, la poesia: atto che non inizia quando si inizia a scrivere e non finisce quando si sia soddisfatti, eventualmente, di un qualunque “risultato”. Qualche malevolo critico potrebbe forse obiettare a ciò che invece la “professione” ‒ intesa come continuo labor limae ‒ di attitudine alla versificazione sia il ragionevole ritratto di uno scrivere che, però, guarderebbe troppo agli esiti e poco all’essenza delle cose. Ma suvvia, c’è fin troppo labor limae nell’esistenza per credere di volerla disgiungere da un’esistenza poetica. Anche per questo credo, ma qui mi permetto di allargare un po’ il discorso, che la poesia per continuare a vivere non possa in alcun modo venire da un ambito accademico inteso appunto come impostazione, annichilendo ciò che invece è “vocazione”. E probabilmente anche qui sarei destinato a raccogliere pochi consensi, ma non importa. Certo, nei momenti più alti (o bassi!) ed intensi, non si comanda a fondo lo spirito, ma ci si lascia guidare. Grazie.

Elena Deserventi ‒ Marco Melillo, sono d’accordo con te. Il labor limae non può essere fine a se stesso, ma servire a rendere meglio espresso ciò che si scrive. Perché scrivo? Perché è una mia esigenza personale, in cui le mode o il lassismo espressivo e etico dei nostri tempi non incidono.

E se scrivo, cerco la parola fino a quando non trovo quella più affine al mio sentire. Niente, nel mio poetare, è fine a se stesso Può essere inviso a chi legge o no. A me interessa avvicinare il più possibile il mio scrivere alle mie intenzioni, emozioni o pensieri che siano.

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