AA. VV.
Alchimia della parola / Alchimia dell’immagine
Antologia minima di poesia visiva

in ricordo di Carla Bertola

Opere e testi di: Paolo Albani, Bruno Cassaglia, Elena Cappai Bonanni, Floriana Coppola, Antonio De Marchi Gherini, Marcello Diotallevi, Fernanda Fedi, Davide Galipò, Gino Gini, Alfonso Lentini, Oronzo Liuzzi, Elena Marini, Gian Paolo Roffi, Claudio Romeo, Alberto Vitacchio.

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Che cos’è la poesia visiva o visuale? – Leggendo un passo da Il diritto e il rovescio della poesia visiva in Italia, di Adriano Accattino e Lorena Giuranna(1), «La denominazione Poesia visiva evidenzia la confusione, con una pluralità di nomi differenti, tutti insoddisfacenti. La definizione Poesia visiva, che pure abbiamo accolto come la meno peggio, si rivela ambigua. Come si fa ad accogliere qualsiasi esito si produca con la denominazione di poesia? Tutto ciò che si fa in Poesia visiva è aprioristicamente denominato poesia. È tutta poesia e solo poesia ciò che si fa in Poesia visiva? Credo di no e per questo motivo non va bene la denominazione di Poesia visiva».
Ora, al di là dell’aggettivo d’abbinare a “poesia” o la differenza esistente tra poesia visiva e poesia visuale (due facce della stessa medaglia, ma l’argomento avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento da rimandare in altra sede), qui i poeti invitati per questa piccola antologia, rifacendosi ad entrambe le denominazioni, sono chiamati anche a definire, in sede teorica, che cos’è la poesia visiva e/o visuale e il loro rapporto, in sede creativa, con esse.

Moio, Poema sonoro

In un primo momento la domanda proposta era Che cos’è la poesia verbovisuale? Domanda alquanto pertinente in una proposta di poesia visiva, visto che in Italia la poesia verbovisuale è conosciuta anche come poesia visiva, «Denominazione convenzionale, utilizzata soprattutto in Italia [per es. in Francia poésie visuelle; in Germania visuelle Poesie o visuelle Dichtung], di una forma espressiva poetico-visuale diffusa in tutto il mondo a partire dal 1960, altrove definita anche poesia visuale, totale, sintetica, performativa, tecnologica […], secondo gli interessi e le specificità dei vari autori, salvaguardandone però l’aspetto fondamentale e caratterizzante: la scrittura, che è importante non solo per il suo valore estetico e formale ma anche e soprattutto per quello semantico»(2).
Quindi, essendo la poesia verbovisuale argomento molto vasto ed eterogeneo, e avendo oggi un’adesione alquanto ristretta, ogni autore ha risposto come meglio credeva, optando per il visivo o per il visuale.
Ora, approfondendo di più l’argomento, esiste una differenza tra la poesia visiva e la poesia visuale o si viene a capo riconducendo entrambe alla poesia verbovisuale? Ovviamente questo assunto resta una nostra opinione che funge anche da provocazione e stimolo a proseguire comunque nella direzione del visivo/visuale, ma la differenza esistente tra la poesia visiva e la poesia visuale non sembra ascrivibile soltanto ad una questione di termini. La poesia visiva, benché proponga soprattutto la tecnica del collage in costruzione di testi impegnati politicamente e socialmente, denunciando aspetti ipnotici e corruzioni dell’establishment, è relegata in un contesto storico ben definito, ormai “vecchio” di oltre sessant’anni. Mentre, e in buona sostanza – pur mantenendo gli stessi canoni e gli stessi parametri –, la poesia visuale si pone in modo diverso davanti ad una pagina bianca, la quale viene invasa con diverse forme grafiche, sia segniche sia pittoriche, restando comunque nell’ambito della poesia visiva. Ma in essa, cioè nella poesia visuale, concorrono più elementi (la poesia lineare o stralci di essa, la grafica, la pittura, le immagini, la scrittura amanuense, il collage, etc.), una contaminazione a passo coi tempi, necessaria per affrancarla dall’oblio della storicizzazione nel tentativo di immettersi nel canale della ricerca di nuovi segnali per una nuova stagione.
Inoltre – ma senza avere nessuna paura della poesia visiva, diciamo classica, in risposta anche ad una precisa domanda del compianto Sarenco: chi ha paura della poesia visiva? – la poesia visuale presuppone un lavorio sulla parola e sulla lettera, più che sull’immagine, in modo che la parola e la lettera diventino esse stesse immagini iconografiche, all’interno di una pagina, anche di grosse dimensioni, che si fonde e si testimonia, anche al di fuori di essa, col significante dell’immagine. Infatti, la poesia visuale è anarchica, non ha legami politici né è politicizzata; è libera dalla sua stessa forma per giungere a quel processo creativo multiplo di elementi costituito dal significante, senza nessuna concessione al significato, fino ad essere in alcuni casi incomprensibile.

Moio, Non la tranquilla intuizione

Ma siamo comunque all’interno del pianeta della scrittura verbovisuale, onnicomprensiva di tutti gli altri termini finora conosciuti: poesia concreta, visiva, visuale, totale, singlossica, tecnologica, nuova scrittura, simbiotica, materica, intraverbale, etc., come altri meglio e prima di noi hanno sottolineato. Una forma libera dell’immagine, della parola-segno, non più connotata da una carica ideologica ma da una interazione tra esse, in piena libertà reciproca.
Un’altra differenza – non di poco conto – esistente tra i due termini è data dal fatto che il poeta visivo si presenta come artista (forse perché l’elemento iconografico di cui fa ampio uso, come i ritagli di parole o frasi tipografiche, non già l’uso delle forbici, lo avvicinano di più all’arte visiva), mentre il poeta visuale, semplicemente come poeta. Ed è chiaro a questo punto che l’aggettivo con cui definirla – la poesia – assume una valenza importante: perché allora non chiamarla scrittura visiva dacché la poesia esige la rappresentazione della parola in un sistema linguistico?
Però, in entrambe le proposte di segno linguistico e di segno visivo, l’assunto di base resta uno solo: fare in modo che la parola si veda e l’immagine si legga per nuove operazioni osmotiche. E nella crisi in cui versa oggi la poesia visiva, un tantino autoreferenziale e implosiva, domandarsi come decifrarla e definirla, partendo dall’aggettivo che le si voglia dare (visivo o visuale), non ci sembra irrilevante, specie se è stato argomento (una decina d’anni fa, 2012) di un convegno non di poco conto, Un secolo di scrittura visuale, con relativa mostra, La scrittura visuale in Italia dopo il 1973, al Museo della Carale Accattino per la poesia sperimentale visiva, di Ivrea (TO), di 48 poeti (oltre all’autore di questo scritto, Accattino, Apolloni, Bertola, Ferri, Martini, Miglietta, Pignotti, Sarenco, Xerra, etc.), a cura di Adriano Accattino e Lorena Giuranna. In una delle domande poste ai poeti e ai relatori intervenuti al convegno (inserite poi nel volume Crescita e crisi della poesia visiva in Italia) (3) si è posto anche il problema, dopo più di sessant’anni – appunto – dalla nascita della poesia visiva, di cercare una definizione appropriata: «Che cosa pensi caratterizzi la scrittura visuale oggi? Ti va bene la definizione scrittura visuale, oppure ritieni che circolino troppe denominazioni? Qual è la più corretta per la contemporaneità?». Ed è significativo. Comunque, Eugenio Miccini sosteneva che «Se vuoi essere poeta / trasforma ogni dato / in un predicato: / dal tuo gettarti / a capofitto nel mondo / al gettarsi del mondo / a capofitto in te».
Alla fine di questo breve discorso, per una maggiore definizione di quello che siamo andati dicendo, ricorriamo a quello che sostiene Alberto Vitacchio in questo contesto: «Dare una definizione di poesia verbovisuale o semplicemente visuale risulta quanto mai complesso data la grande mole di scritti e di posizioni critiche che si sono succedute nel campo artistico che dal Novecento giungono fino a noi. Basterebbe citare la lunga serie di scritti che si sono confrontati a lungo sulla definizione di visuale e visiva per dare un’idea di quanto si sia scritto e di come il confronto critico o di posizione degli artisti si sia ampliato spesso oltre misura, spesso nel tentativo di affermare e difendere linee precise nel campo di ricerca che ciascuno cercava di sviluppare e meglio definire.
Penso che sia più utile cercare semplicemente di delineare lo spazio nel quale la propria ricerca di espressione artistica si è espressa e si sta esprimendo in relazione a quella che, in quanto artista, amo semplicemente definire Poesia Visuale». Della serie: le etichette lasciano il tempo che trovano. Ma nella confusione che si è creata e che si sta creando nel mondo verbovisuale, arrivare ad una definizione che metta un po’ tutti d’accordo, è quanto meno auspicabile. Nel frattempo, magari con l’auspicio – dopo più di sessant’anni – di trovarle nuova linfa. (g. m.)


(1) In «Utsanga», rivista di analisi liminale, 25 giugno 2016.

(2) Francesco Poli, Tra parola e immagine. Tre aree di ricerca a confronto: poesia concreta, poesia, visiva, arte concettuale, in Aa. Vv., Verbovisuali. Ricerche di confine fra linguaggio verbale e arte visiva, Skira editore, 2003, pp. 16-17.

(3) Mimesis Edizioni, 2013, pp. 218.

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PAOLO ALBANI
Stato d’animo

Cos’è la poesia verbovisuale?

Se volessimo riassumere la storia della Poesia Verbovisuale, dalle origini fino a oggi, potremmo fare ricorso alla stessa modalità con cui Laurence Sterne, autore del Tristram Shandy (1760-1767), ha sintetizzato i primi quattro volumi del suo libro:

Ci aggiungerei anche un capitoletto finale in cui svilupperei alcune considerazioni sul futuro della Poesia Verbovisuale:

In estrema sintesi, definirei la Poesia Verbovisuale – una definizione fra le tante possibili – una sorta di ghirigoro, come quello fatto nell’aria con il bastone, sempre nel Tristram Shandy, dal caporale Trim per raffigurare la libertà dello scapolo:


Paolo Albani (1946). Scrittore, performer e poeta sonoro, dirige «Nuova Tèchne», rivista di bizzarrie letterarie e non. Membro dell’Oplepo (Opifico di Letteratura Potenziale), è autore di curiosi repertori enciclopedici per Zanichelli e Quodlibet e di racconti comico-surreali. Sue opere di poesia visiva sono nelle collezioni del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, del Mart di Rovereto e della GNAM di Roma. Collabora alla “Domenica de Il Sole 24 Ore”.

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ELENA CAPPAI BONANNI

(da Anomalie)

La critica del linguaggio come linguaggio della critica
Nota critica ad Anomalie

La serie Anomalie è un’operazione che agisce per mezzo di tagli, spostamenti, asportazioni e trapianti, che riconduce la parola alla sua realtà di materiale linguistico.
La poesia visiva non ha bisogno di “farsi corpo”, come sostengono alcuni: la poesia visiva è materia, come tutto il resto, e ha una sua funzione. Come ogni meccanismo più o meno complesso è interconnesso con altri componenti, agisce ed è agito in questo concatenamento, la poesia visiva non si può sottrarre alle interferenze, agli impulsi e alle ibridazioni, ai contatti e ai guasti dati nell’atto.
L’anomalia si insinua a livello molecolare, nel linguaggio estratto dal tuo contesto, per innescare insieme all’immagine – anch’essa campo in cui siamo immersi – un enunciato libero: in questo senso, l’interlingua diventa lo spazio principale in cui rivendicare una pluralità di forme, tra le intersezioni delle frontiere, così come tra le pieghe delle pagine. Come dicevano i situazionisti, il potere non inventa nulla, recupera. La liberazione delle parole passa attraverso il linguaggio, il senso delle parole vi partecipa.
La via che s’imbocca è quella contestataria: l’anomalia necessaria al cambio di segno, preliminare rispetto al cambio di senso. La compartecipazione del fruitore è fondamentale nella risoluzione di un rebus. Il mare nascosto, il fiume carsico che scorre sotto i significati dell’informazione cementificati e immobilizzati, è l’ondata operaia che attende di riemergere per poter tornare a proliferare in superficie.


Elena Cappai Bonanni è nata a Cuorgnè (TO) nel 1996, vive a Torino, dove si è laureata in Lingue e Letterature Moderne con una tesi sulla poesia e sul teatro di Buñuel e García Lorca; scrive poesie in lingua italiana e spagnola. Ha pubblicato, con Chance Edizioni, un’opera di carattere sperimentale: Askatasuna. Suoi testi sono comparsi su «Neutopia». Rivista del Possibile; «Inverso». Giornale di Poesia; «Split» (Pidgin Edizioni); «Agua». Revista de poesía líquida (Madrid); «Clean»; «Utsanga». Nel 2019 pubblica l’EP “Madrigale” con il gruppo spoken word Spellbinder. Nel 2020 con l’opera Opiorfina è in finale al Premio “Bologna in Lettere”, nella sezione di Poesia orale. Nel 2021 ha fatto parte della collettiva La poesia visiva e l’olfatto, a cura di Lamberto Pignotti presso la Fondazione Berardelli di Brescia. Nel 2022 è vincitrice del Premio Roberto Sanesi di poesia in musica con il progetto Karoshi. La sua prima raccolta di poesie, Gradienti, è in uscita presso Terra d’Ulivi Edizioni.

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BRUNO CASSAGLIA

La poesia visiva, è per me la liberazione della poesia, ma anche una via d’uscita dal disegno e dalla pittura.
Perché essa va oltre la poesia, ma va anche oltre il pittoricismo, diventa pittura concettuale… e una poesia davvero libera.


Bruno Cassaglia è nato a Vado Ligure nel 1949, vive e lavora a Quiliano (Sv). Autore di racconti e testi poetici, per la sua ricerca poetico-visiva, passa dalle carte alla fotografia, dalle tavolette alle grandi tele e dai micro-interventi land-art alle performances, unendo tutta la sua ricerca poetica: disegni, scrittura, pittura, fotografia digitale. Noto anche per la mail art di cui è autore con numerosi progetti che coinvolgono anche la net-art. è attivo dal 1978 ed ha partecipato a centinaia di esposizioni in Italia e all’estero. Nel 2005 fonda e conduce con l’artista Renato Cerisola e l’Assessore alla Cultura Alberto Ferrando il “S.A.C.S.” Spazio Sperimentale del Comune di Quiliano.

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FLORIANA COPPOLA

Nel mio acquario di segni e forme

Arte e poesia si possono intrecciare e danno esiti incredibilmente efficaci. La ricerca verbo-visuale
interpreta e sintetizza con un’effervescenza creativa dirompente lo sguardo dell’artista sul mondo.
Unisce prassi e teoria miscelando la simbologia della cultura di massa. Forma nuovi ideogrammi che prendono ispirazione dalla civiltà dell’immagine. Supera il concetto di messaggio, elaborando un segno culturale e semiologico di grande fascinazione. La parola diventa un oggetto materico.
Il segno visivo nella nuova composizione è soggetto di un’operazione osmotica, che ingloba il significato della parola per partorire un altro senso, inaspettato e divergente. Il collage verbo-visuale decostruisce il linguaggio e destruttura la versificazione poetica tradizionale, per dare vita a qualcosa di diverso, di unico. È una nuova esperienza artistica, azione di frontiera metalinguistica. La poesia visuale apre ad un’altra concezione del linguaggio, che viene rinnovato in un continuo processo di capovolgimento destrutturante. L’universo massmediale viene frammentato in sintagmi allontanati dal consumo commerciale dell’oggetto. Immagini pubblicitarie, giornali e altra materia viene scomposta e ricomposta per seguire una visione altra, divergente e originale, libera dalla logica del mercato. Caratteri, punteggiatura, spazi e colori sono usati fuori dal loro contesto usuale. Il significato diventa significante, ogni simbolo si contamina con altri paradigmi culturali. Si attua un cortocircuito espressivo e destabilizzante. La poesia visuale contrasta la massificazione della comunicazione e dell’informazione prodotta dalla società industriale capitalista. Libera ogni soggetto e ogni corpo dall’uso commerciale a cui viene piegato. Il corpo della donna soprattutto nei miei collages di poesia è liberato dalla cornice pubblicitaria da cui lo strappo. L’arte del collage mi permette di creare uno spazio diverso, alternativo, per leggere il corpo della donna fuori dalla logica del consumo e dell’oggettivazione. Metto in atto un allargamento lessicale e visionario del verso, la parola viene dipinta e spinta verso confini impensabili. Sicuramente in quest’arte contemporanea c’è la rielaborazione e il recupero di tecniche già sperimentate agli inizi del Novecento dalle avanguardie artistiche europee e nordamericane. Ricordo i ready-made di Duchamp, i poèmes-objet di André Breton, i fotomontaggi dadaisti, i collage pittorici dei futuristi e dei cubisti, i fotomontage e i papier collé di Hannah Hoch. Assemblare, adattare fotografie e ritagli di riviste illustrate, manipolare negativi fotografici e carte di ogni spessore, tagliare e strappare, incollare e cucire, usare quindi materiale di scarto, propriamente inutile e riciclabile per inventare “visioni poetiche” che sconcertano chi guarda. Quelle generazioni avevano consapevolezza estrema della forza scandalistica della loro arte, usavano la ricerca artistica come arma di protesta e di rivendicazione pacifista e anticapitalista contro il messaggio bellicista e nazionalista di quell’epoca.
Adesso la nostra pratica di visualizzazione del materiale verbale che scegliamo intensifica il verso poetico ma non può avere la stessa carica rivoluzionaria del passato, sarebbe illusorio. Il pubblico borghese non si scandalizza più, è abituato a digerire ogni espressione dissacrante e provocatoria, ogni comportamento trasgressivo e controcorrente. Il mercato ha da tempo utilizzato l’ingegnosa macchina dadaista e futurista per disegnare le sue pubblicità. Il consumatore massmediale contemporaneo accetta tutto e il contrario di tutto in una soporifera ricezione domestica. Le rivolte on the road delle comunità artistiche dei primi del novecento sono state addomesticate dalla fruizione televisiva che fa da rullo compressore contro ogni effettiva rivoluzione del canone. Rimane come segno distintivo per me lo sfruttamento intensivo del corpo grafico, la cui incidenza semantica trasforma, riduce o annulla il significato, seguendo l’ispirazione e la costruzione del collage. I segni si dilatano, vengono forzati nella loro normale definizione, allargano il loro campo semantico in un gioco di contrasti, analogie e similitudini. Nascono così delle allegorie esistenziali postmoderne, dove la ricerca estetica sposa una carica distopica eccezionale, linguaggio che registra il forte spaesamento contemporaneo della società neocapitalista. Nessuna percezione rivoluzionaria ma la coscienza drammatica di uno scollamento irrimediabile tra l’uomo e la natura, tra gli umani e la terra, tra le metropoli e la civiltà del passato. Il caos prende il sopravvento e ogni immagine è icona tragica di questo cammino di frontiera.


Scrittrice, poeta e collagista napoletana, docente di Lettere, counselor professionista in Analisi Transazionale e in Psicologia Esistenziale, perfezionata in Didattica e Cultura di genere e in Scrittura autobiografica. I suoi testi sono presenti in numerose antologie poetiche. Di poesia, ha pubblicato: Il trono dei mirti (2005); Donna creola e gli angeli nel cortile (2009; 2014) Sono nata donna (2010); Mancina nello sguardo (2012); Cambio di stagione e altre mutazioni poetiche (2017); La vertigine del taglio (2021). Di narrativa: Vico ultimo della sorgente (2012); Femminile Singolare (2016); Aula voliera (2019); La bambina, il carro e la stella (2022).

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ANTONIO DE MARCHI GHERINI

La poesia visiva è mutata dall’origine ad oggi. La sua esistenza la possiamo ricondurre ai graffiti colorati nelle grotte dell’era preistorica per arrivare ai poeti greci arcaici che scrivevano poesia in forma di vaso, anfora, lampada ecc. Vicino a loro vi furono altre culture che si espressero allo stesso modo nel loro linguaggio specifico. Per arrivare a noi possiamo partire da Apollinaire inizi del ’900 e il GRUPPO 70 negli anni ’60 cominciarono consapevoli, questi ultimi a produrre poesia visiva utilizzando lettere di carattere diverso, frantumandole, tagliandole a strisce: Zeroglifici di Adriano Spatola. Io ebbi la fortuna di esporre con loro nel 1987 alla galleria Avida Dollars di Ugo Carrega. Poi la poesia venne sempre più intesa come collage a volte privo di lettere, parole e frasi. Anna Grazia D’Oria bontà sua, negli anni ha messo in copertina dell’Immaginazione ben quattordici mie opere; ebbene erano tutte poesie visive anche se in alcune opere compariva una sola lettera, per me la lettera A è emblematica e la utilizzo spesso celata o manifesta nelle mie opere. Poi arriviamo ai cancellatori come Isgrò, ma già negli anni 30 un pittore tedesco fece un’operazione del genere. Pignotti che è il maestro indiscusso della poesia visiva fa dei collage con i rotocalchi ed espone con Schifano e altri pittori dell’area romana considera la poesia un’opera d’arte tout court. L’ultimo numero dell’Immaginazione riporta un’opera di Lamberto Pignotti dove si vede una località ucraina rasa al suolo è uno strappo di giornale, senza nessuna parola perché ovviamente l’immagine è talmente esplicita da non richiedere commenti o aggiunte.
Tutte queste argomentazioni per dire che la poesia visiva è libertà espressiva anche se oggi vi sono contaminazioni di campo da parte della mail-art o dell’arte, che si appropriano di una cosa che dovrebbe rimanere autonoma.
Oggi però è tutto una contaminazione: con l’uso dei social, di internet, nella fattispecie il sovraccarico di segni significanti è estremo, pesiamo agli emoticon o alle griffe degli stilisti. Questi segni vengono utilizzati come componenti extra verbali alla comunicazione scritta.
Oggi con la rete si sentono tutti potenziali scrittori, poeti, pittori, performer ecc. così nessuno più guarda o legge siamo sempre operatori di nicchia consapevoli di lavorare in questo ambito ristretto incurante di ciò io continuo a tagliare, incollare, dipingere finché dalle mie mani esce una poesia visiva che mi soddisfi per l’intreccio di ideamessaggio, scrittura e colori.


Antonio De Marchi Gherini è nato a Gravedona ed Uniti nel 1954. Vive a Gera Lario (CO). Ha pubblicato le raccolte di versi: La passeggiata di Carmen (1985); La guerra ascellare (1987); Le gaie stanze (1991); L’Arcivescovo di Rouen (1992); Le stagioni del silenzio (1997); Quadro d’autunno e altri versi (2000 – plaquettes); I colori della notte (2001); Il volo, probabilmente (2001 – plaquettes). È presente in numerose antologie, riviste, siti web e pubblicazioni monografiche. È stato membro della direzione delle riviste «Tracce», «Post-scriptum» e «Terra del Fuoco». Ha curato le antologie Canti dell’ombra e della luce (Edizioni Pinizzotto, 1999); Gli abbracci feriti (i poeti e la famiglia), con V. Guarracino (Edizione Zanetto, 2000); Racconta il tuo dio – il dio dei poeti (Pinizzotto, 2001). È attivo anche come poeta visivo e sonoro. Ha curato diverse copertine della rivista «L’Immaginazione» e di diversi libri per l’editore Manni. Ha prodotto libri d’arte in copia unica e dal 1980 un numero considerevole di opere visive e grafiche, con tecniche varie, sparse in gallerie alternative e archivi di tutto il mondo. È presente in mostre di poesia visuale e mail-Art dal 1980, in Italia e all’estero. Numerosi i premi vinti. Nel 2000 il Teatro “La centena” di Rimini ha messo in scena Girovaghi per la regia di Vincenzo Davide Schinaia, opera tuttora facente parte del repertorio della compagnia e costruito interamente con testi tratti dalle opere sino allora pubblicate. Nel 2001 ha preso parte alla 49a Biennale di Venezia in “Bunker Poetico” di Marco Nereo Rotelli, e nel 2011-2012 ha partecipato al progetto “INviso: progetto di Mail Art” presentato alla 54a Biennale di Venezia-Padiglione Tibet, presso il Palazzo delle Esposizioni, a cura di Ruggero Maggi.

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MARCELLO DIOTALLEVI
Poema astratto 2

La poesia verbo-visuale – Visual Poetry –, conosciuta in Italia anche come Poesia Visiva, è una tendenza dell’arte del Novecento diffusa in tutto il mondo a partire dai primi anni Sessanta, preceduta da circa un decennio dalla Poesia Concreta.
“Le esperienze di Poesia Visiva nascono generalmente sotto forma di poemi-collage, spesso connotate da una carica ideologica, e poi si evolvono nelle direzioni più varie secondo gli interessi dei vari autori, salvaguardando l’aspetto fondamentale e caratterizzante: la scrittura vi si qualifica sempre non solo per il suo valore estetico e formale ma anche e soprattutto semantico.”
I miei “Doppi poemi astratti” sono un ciclo di opere caratterizzato da una simbiosi verticale di astrazione sia pittorica sia testuale (sic et simpliciter).


Marcello Diotallevi è nata a Bologna e vive a Castel S. Pietro Terme (BO). Poeta visuale, è attiva anche come mailartista anche in qualità di organizzatrice di mostre. Incentra la sua ricerca sul rapporto parola-immagine, espone dal 1974 ed ha al suo attivo oltre quaranta personali e numerose mostre collettive in Italia e all’estero: Triennale di Bologna; Biennale del Libro d’Artista di Cassino; 50ª Biennale di Venezia; London Biennale; Contemporary Art Center Pyramida di Haifa (Israele); etc. Nel mese di novembre 2016, nelle sette sale della Pinacoteca della Rocca Sforzesca di Dozza (BO), ha allestito la sua retrospettiva di cinquant’anni di attività “ANNA BOSCHI – 1967-2017”, con monografia a cura di Mauro Carrera. Sempre nel 2016 le è stato conferito il riconoscimento alla carriera nel corso della XVI Rassegna Arte in Arti e Mestieri di Suzzara-MN. Il suo lavoro è documentato in cataloghi, riviste e antologie, tra cui; A point of view -Visual Poetry-The 90s (Kaliningrad, Russia); Libri d’artista in Italia 1960-1998 (Regione Piemonte); Generazione Anni Quaranta della Storia dell’Arte Italiana del ‘900”, a cura di Giorgio Di Genova (Kunsthistorisches Institut, Firenze); Archivio Storico del Museo delle Arti Palazzo Bandera (Busto Arsizio-VA); CID/Arti Visive (Centro per l’Arte Contemporanea “Luigi Pecci”, Prato).

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FERNANDA FEDI
Calligramma dionisiaco

Poesia VERBOVISUALE

Cos’è? Bella domanda.
Come tutti sappiamo la Visual poetry ha una lunga storia.
Desidero prendere in considerazione il mio vissuto da quando cioè ho abbandonato una ricerca strutturale/spaziale per addentrarmi nella Visual Poetry.
Verso il 1981/82 mi sono appropriata del segno/scrittura, segni scritture ossessive accompagnate sovente in forma evocativa da un frammento poetico o musicale.
«Perché tutto possa essere, è necessario il niente» (Marina Cvetaeva). Partendo da questo concetto assoluto, quasi uno svuotamento interiore e fisico attraverso la trasposizione di segni ossessivi, sono approdata alla MATERIALIZZAZIONE della scrittura. Con l’approfondimento e conseguente riappropriazione dei segni-simboli del passato, siano essi arcaici, etruschi, egizi, minoici o micenei o semplicemente alfabeti non ancora compresi, sono giunta alla conclusione che la scrittura non ancora decodificata, nel suo mistero, possa non solo testimoniare bensì trasmettere idee/concetti attraverso nuovi segni e che la non traducibilità sia la vera fenomenologia della comunicazione.
Con questi viaggi ipertestuali da un’epoca all’altra, dalla pittura alla scrittura, ho voluto sottolineare un’archeologia in atto, un salto nell’intemporale.
Da non dimenticare che la scrittura MATERICA si è sempre avvalsa di alcune teorie dell’antichità (al tempo di Demostene era denominata autografa, vale a dire disegnare, scrivere, pitturare).
Verso gli anni 2000 il mio lavoro si riappropria nuovamente di segni ossessivi, accompagnati sempre, come filo conduttore, da frammenti di musica e di Poesia, nella consapevolezza che noi esseri umani, artisti o poeti o quant’altro, siamo nihil – un nulla e che solo nella frammen-tarietà possiamo ritrovare un tutto.
Per concludere queste brevissime considerazioni direi che l’attuale POESIA VERBOVISUALE nelle sue infinite sfaccettature e risvolti può comprendere, tra gli altri, LA SCRITTURA MATERICA / ECRITURE PLASTIQUE e IL FRAMMENTO, Poesia visuale frammentata.

Maggio 2021

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Fernanda Fedi vive a Milano. Ha compiuto studi artistici a Milano e a Bologna DAMS con specializzazioni in Museologia, Museografia e in Arte Terapia. Mostre Personali e rassegne internazionali a partire dal 1968. Antologiche al Museo arte moderna/contemporanea di Gallarate 1990, al CFM Luxembourg 1991 e alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano 2014. Presente alla Quadriennale di Roma 1975 e Biennali Venezia 1976-2007-2011. Ha scritto il saggio Collettivi e Gruppi artistici a Milano. Ideologie e Percorsi 1968-1985 (Ed. Endas Lombardia) ed ha organizzato convegni e dibattiti su: “Donna Arte Società”; “Donna Arte”; “Creatività e Terapia”. Dopo un periodo di ricerca concettuale passa all’idea di scrittura segno, quale gesto della memoria. Numerose presenze a livello internazionale nell’ambito della Visual Poetry. Ha fondato con Gino Gini l’Archivio Libri d’artista di Milano nel 1983. Invitata a partire dal 2004 a tutte le Biennali del Libro d’artista tenutesi alla Bibliotheca Alexandrina Egitto. Nel 2010 è stata nominata (con Gini) curatrice internazionale della V edizione.

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DAVIDE GALIPO’
Un percorso a ostacoli*

Il plagio è necessario, il progresso lo implica*

La poesia visiva è una forma di latenza poetica che utilizza l’immagine, la grafica, il layout e la tipografia per trasmettere un significato, attraverso l’uso sapiente del segno. In sostanza, è una forma di poesia che combina elementi visivi e testuali per creare un’esperienza poetica unica. La poesia visiva può essere creata utilizzando software di grafica o attraverso tecniche di taglio e incollaggio di parole e immagini. Dalle avanguardie storiche come Dadaismo e Costruttivismo, ha una stretta parentela con il collage. Quel che distingue il collage dalla poesia visiva, però, è proprio la sua essenza: quando Guillame Apollinaire inventò il calligramma, fu il primo, insieme a Stephane Mallarmé, a comprendere le potenzialità immaginifiche della poesia, con un processo combinatorio che nasce dal caso.
La poesia è sempre stata il mezzo meno retorico per esprimere un punto di vista. Ma ci sono parole che sono talmente zeppe di retorica che sembra impossibile prenderle sul serio. Laddove si annida la propaganda, il poeta visivo comincia a togliere, sottrarre terreno sotto ai piedi dell’ovvio, delle sedimentate certezze ferree del nostro sistema di valori, per costruire un’impalcatura critica. A volte si serve del sarcasmo, altre volte urla in faccia allo spettatore il suo primo vagito, come fosse quello del primo bambino della prima donna di Neandertal, per provocare una reazione. Inutile dire che questo strepitio non piaccia affatto a chi vuole dormire.
Ogni giorno accadono tanti fatti da riuscire a riempire un intero quotidiano o – come lo avrebbe chiamato Marcel Duchamp – il ready made di ogni giorno. C’è una sorta di semantico sberleffo, nel vedere un articolo di giornale ritagliato e riadattato in tempo poetico: quando Tristan Tzara scrisse, nel suo prontuario Pour fair un poéme dadaïste, che per essere un poeta originale e all’avanguardia bastasse prendere un foglio di giornale, tagliarne le parole, metterle in un cappello e trascrivere la poesia nell’ordine casuale in cui vengono estratte a sorte, stava distruggendo l’idea stantia dell’ispirazione di derivazione romantica. La letteratura smetteva così di essere un’espressione del genio umano, per entrare a far parte della modernità.
Da qui ai cronogrammi di Nanni Balestrini e ai cut-up di William Burroughs e Bryon Gysin il passo è breve. Cambiano i nomi, ma le lettere tornano ad essere segni. Il poeta visivo riafferma l’importanza della parola e dell’immagine in un tempo in cui non sembrano possederne più alcuna. In un momento storico in cui le macchine stanno progressivamente sostituendo il lavoro umano, quello manuale così come quello cognitivo, i lavori di Sarenco, Luc Fierens, Elena Marini sembrano avere anticipato profeticamente questo sabotaggio della macchina letteraria per farsi macchina scrivente non creativa.
La stessa cosa avviene oggi con le pagine web: la nuova generazione di poeti visivi, come Elena Cappai Bonanni, sembrano aver fatto propria l’opera di Kenneth Goldsmith, quando affermava che «con l’ascesa del web, la letteratura ha trovato la sua fotografia».
Personalmente, posso dire che si tratta di un processo che procede per osmosi. Dopo aver cambiato il mio approccio alla letteratura come materiale, era come se le mani si muovessero da sole. In breve tempo, mi ritrovai a montare immagini e parole stampate per scopi diversissimi tra loro. Ecco che un testo diventava un’immagine e un’immagine diventava un testo, pronto per essere manipolato.
Come scrisse Asper Jorn, «solo colui che è in grado di operare una variante su valori preesistenti può fondarne di nuovi.» Ecco, nella cultura dei meme credo ci sia più di un collegamento con lo stesso tipo di mancanza, dato che le parole in sé non hanno più alcun senso e una foto del Papa con indosso un piumino riesce a fare più scalpore di uno spot arguto, per quanto provocatorio.
Il web diventa in questo modo il grande parco giochi di una semantica sovversiva. La giostra della poesia visiva è pronta ad accogliere quanti vogliano salirci sopra.
Oggi come cento anni fa, il plagio è necessario a toglierci di dosso la polvere della storia e a progredire.

* Da Isidore Ducasse, Conte di Lautréamont, ripreso poi da Guy Debord ne La società dello spettacolo, 1967.


Davide Galipò è nato a Torino nel 1991 e cresciuto in Sicilia. Si laurea a Bologna nel 2015 con una tesi sulla poesia dadaista nella neoavanguardia italiana. È autore di: ViCoL0 (2015, poesie visive); Istruzioni alla rivolta (2020, poesie lineari – vincitore del concorso di scrittura sociale “Luci a Sud Est”). È anche autore degli EP Volontà di vivere (2016 – finalista Premio Alberto Dubito di poesia con musica, con il progetto di spoken music LeParole), Madrigale (2020) e La Terra La Guerra e Noi (2022). Nel 2018 un suo saggio su Patrizia Vicinelli è stato inserito nell’annuario Confini (Istos Edizioni). Nel 2019 suoi testi critici sono stati inclusi nel catalogo della mostra Punti di vista e di partenza, a cura di Margot Modonesi (Fondazione Berardelli, Brescia). Fondatore e direttore editoriale di «Neutopia», ha pubblicato racconti e poesie su «Argo», «Menelique», «Utsanga», «L’Eco del Nulla», «Vitamine» e collabora con «Poesia del nostro tempo». Ha fatto parte della collettiva La poesia visiva e l’olfatto, a cura di Lamberto Pignotti, presso la Fondazione Berardelli.

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GINO GINI
Lettera P

Sei Riflessioni intorno alla Poesia Verbovisuale

La Poesia – La P.V. non ha nulla da spartire con la linea tradizionale della poesia. Non è poesia lineare, rima baciata, terzine o quartine, è Poesia del Visibile.
La P.V. traccia una precisa linea di confine tra sé e la tradizione.
La P.V. cerca una relazione verbo-visuale che generi un sistema nuovo dove immagine, parola e scrittura interagiscono tra loro in un processo creativo che non determini prevaricazioni dell’uno sull’altro.
La P.V. si configura come arte totale in un sistema libero da schemi prestabiliti.

La Scrittura – La P.V. pone la scrittura come elemento fondamentale e si definisce nei suoi molteplici aspetti significanti.
La Scrittura diventa immagine sia visiva che verbale e si presenta nella sua veste autosignificante.
Il segno della scrittura e il gesto della mano si disegnano sulla superficie esprimendo la loro energia. La scrittura come apparato pittografico, come chiosa, narrazione, citazione, slogan si accompagna all’immagine diventando un unicum.
La P.V. si riappropria della scrittura, dei suoi valori formali e verbali .


La Forma – La P.V. non si pone il problema della forma. I suoi percorsi sono liberi e non finalizzati all’estetica ribaltando il limite storico dell’arte.
La P.V. supera questo dato per stabilire un rapporto di complicità con l’opera che esiste nella sua totalità.
La P.V. propone una riflessione sulla “pratica dell’arte”.
La P.V. denuncia i limiti di un’opera “esteticamente bella”.
La P.V. è “estetica della non-estetica”.

La tecnica – La P.V. non ha problemi di tecniche. Confluiscono nel suo sistema creativo tutte le possibilità espressive funzionali all’opera. Collage, scritture, riviste e giornali, prove di stampa, parole, fotografie, immagini e apparati del quotidiano entrano in rapporto tra loro in un percorso dove non si esercita nessuna preclusione.
La P.V. è opera aperta, disponibile a letture plurime. Significato e significante interagiscono. Tutto si fonde in una sola unità frutto del patrimonio alchemico e creativo dell’artista.

La Pittura – La P.V. non è Pittura, non è colore; la sua attenzione è rivolta al “dato poetico” dell’opera.
Nelle sue accezioni il colore si appropria di quei territori che risultano funzionali al lavoro.
In questa direzione il colore si esercita intorno a sé stesso esaltando le proprie possibilità espressive e cromatiche, ben lontano dal problema del “far pittura”.
La P.V. è pittura nella misura in cui si avverte “il respiro della pittura”.

La Pratica – La P.V. non è interessata alla tela tradizionale del pittore.


La P.V. ama le carte, il cartone, i materiali anomali e di scarto e li nobilita con il suo gesto creativo.
La P.V. è l’unica disciplina artistica che si autopromuove. Non ama la critica d’arte e ne dichiara la propria indipendenza.
La P.V. opera sul piano utopico; gli attori sono artisti, teorici e attivi propulsori della diffusione di questa poetica.
La P.V. rifiuta il sistema finanziario del mercato dell’arte.
La P.V. è pratica che diventa teoria e teoria che diventa pratica
La P.V. è territorio di confine ai bordi del sistema ufficiale dell’arte
La P.V. ama Fluxus ma non è Fluxus
La P.V. guarda al passato, vive il presente, progetta il futuro.

Maggio 2021


Gino Gini (Milano, 1939). Liceo artistico e AA.BB.Brera di Milano. Dal 1975 contribuisce al rinnovamento della Poesia VerboVisuale con una complessa serie di cicli che indagano il rapporto tra parola/immagine/scrittura. Viaggio nell’arte; Viaggio in Italia; Viaggio nel cielo precedono l’attuale ricerca del ciclo del Viaggio nel quotidiano. Oltre 60 mostre personali e innumerevoli partecipazioni a rassegne di tendenza verbo/visiva. Presente alla Biennale di Venezia nel 1976-2007-2011. Significative mostre antologiche nell’anno 2000 al Museo d’arte Moderna Contemporanea di Gallarate e Villa Letizia di Treviso. È stato uno dei principali protagonisti italiani della Mail Art negli anni Settanta/Ottanta. Il libro d’artista è uno dei suoi percorsi privilegiati con cui ha tenuto un’antologica Mappe di Viaggio alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano nel 2014.

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ALFONSO LENTINI
Pagina 133

Il morso delle cose

«Ogni artista è un mondo, e in quello di Alfonso Lentini io
entro volentieri, affascinato da un linguaggio prensile
e vivo che non conosce banalità.»

EMILIO ISGRÓ

Il titolo di una mia mostra personale di qualche anno fa, “Il morso delle cose”, esprime emblematicamente il percorso di ricerca che vado sviluppando sia come artista sia come scrittore: indagare come le parole e gli oggetti possano intrecciarsi in un groviglio più complesso di quanto non sembri a prima vista. Le cose “mordono” le parole, incalzano dietro la scrittura e siamo noi umani che le percepiamo attribuendo ad esse una sostanza alfabetica. Ma senza questa sostanza alfabetica, che è essa stessa una cosa, noi umani forse non saremmo neppure in grado di “pensare” le cose.
In particolare per quanto riguarda la mia ricerca artistica, lavoro con l’intento di dar “corpo fisico” alla parola, esplorandone la natura materica, gestuale, oggettuale, facendo cioè emergere la forza del “significante” (la forma della parola) a volte anche a scapito del “significato” (l’oggetto che la parola rappresenta), nella convinzione che la parola nelle sue mille potenziali aperture semantiche sia ante-rem, venga cioè prima della cosa a cui si riferisce. Le mie sperimentazioni tendono allo sbilanciamento, ricercano un diverso equilibrio fra la parola e i corpi e intendono rappresentare la parola come oggetto fra gli oggetti.
Le opere che ho prodotto fin dagli anni Novanta e che ho chiamato “poesie oggettuali” si riallacciano a un’idea di scrittura che somiglia al solco tracciato nei campi dai contadini nell’azione materiale dell’aratura (per questo alcune personali che ho allestito in quegli anni si intitolavano “Alba pratalia”, con evidente allusione ai “prati bianchi” della pagina di cui si parla nel celebre “indovinello veronese” del XII secolo). Ma questo insistere sulla scrittura come azione fisica, anche se sposta l’attenzione dal significato al significante, non ha mai voluto essere, nel mio caso, una pura esaltazione della forma o della crosta esteriore della parola. Al contrario, ho voluto avviare una riflessione sulla “forza”, ma anche sulla “debolezza” della parola, senza mai perderne di vista la centralità.
Attraverso la parola gli esseri umani riescono a manifestare la complessità del loro pensiero, ma nello stesso tempo scoprono i limiti della loro natura, in quanto le parole non sono in grado di dare forma verbale a certi territori dell’esistenza, ai lati oscuri, alle pulsioni inconsce, agli azzardi concettuali verso i quali pure l’istinto umano ci conduce. In questo senso la parola è l’elemento rivelatore della condizione umana in tutta la sua drammaticità perché attraverso i limiti della parola prendiamo coscienza dei limiti della nostra natura. Se persino nelle forme più alte di poesia ci si scontra prima o poi con qualcosa che, come dice Dante, “significar per verba / non si poria”, se esiste una barriera semantica oltre la quale la natura umana non è in grado di spingersi, se la lingua può essere falsificata e resa “inoffensiva” dal suo uso seriale, se il linguaggio massificato o mediatizzato asseconda il linguaggio del potere, allora bisogna giungere alla conclusione che la comunicazione e di conseguenza la scrittura sono armi a doppio taglio, elementi problematici. Il gesto dello scrivere, che avvenga carezzando con le dita la tastiera di un tablet o intingendo una penna d’oca nel calamaio, è comunque un rischio, un’azione perigliosa, una sfida.


Alfonso Lentini è nato a Favara, nel 1951. Laureato in filosofia, si è formato nel clima delle neoavanguardie del secondo Novecento. Dalla fine degli anni Settanta vive a Belluno dove ha insegnato letteratura italiana e storia. La sua attività spazia dalle arti visive alla scrittura, spingendosi talvolta nei territori della poesia. La sua prima personale risale al 1976. Nelle sue numerose mostre e installazioni tenute in Italia e all’estero propone “poesie oggettuali”, poesie visive, libri oggetto, libri d’artista e in generale opere basate sulla valorizzazione della parola nella sua dimensione materiale e gestuale. Ha realizzato, insieme ad Aurelio Fort, il progetto artistico internazionale “Resistere per Ri/esistere” culminato il 25 aprile 2013 con una grande installazione urbana per le vie e le piazze di Belluno. Sue opere fanno parte di Archivi e Collezioni fra cui Imago Mundi (Luciano Benetton Collection), Fondazione Bonotto (Molvena, VI), Museum (Bagheria, PA), Collezione Permanente di Libri d’Artista dell’Accademia di Belle Arti (Palermo), Collezione Carlo Palli (Prato), Museo Candiani (Mestre), Museo della Carale (Ivrea), Galleria “Il Gabbiano” (La Spezia), Galleria “Gennai” (Pisa). Ha pubblicato una dozzina di libri, dei quali il primo è L’arrivo dello spirito (con Carola Susani, Perap, 1991). Suoi lavori visivi, racconti o poesie sono usciti a tiratura limitata con piccoli editori di qualità come Pulcinoelefante, Fuocofuochino, Babbomorto, Lettere S.Com. Poste o in edizione autoprodotta in forma di libri d’artista.

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ORONZO LIUZZI
Movi

Il mondo contemporaneo è soffocato dalle illusioni. Generando visioni distorte il potere economico, con autorità, offre all’intera umanità un paradiso d’inferno. Annulla la luce del vivere, l’ebbrezza dei sogni, le innumerevoli forme creative. Le atrocità degli inganni abbondano. Sopprimono la libertà. Celano il vero, il non detto e l’effimero, il falso e gli intrugli ci portano alla “selva oscura” del vuoto. Il classico potere del serpente manipola anche l’arte e la trascina nel suo dominio.
La rivoluzione siamo noi, diceva Joseph Beuys e a noi, consapevoli del vivere i mali insopportabili, le tragedie e le tensioni estenuanti della nevrosi e del consumo selvaggio e il generale inganno del nostro tempo, occorrerebbe una manovra di danza combattiva e alternativa per sconfiggere le massicce manovre del potere occulto e salvare l’umanità. Risorgere per non morire. Risvegliare l’essere.
L’arte potrebbe restituirci il sorriso nascosto nei luoghi delle tenebre. La ricerca e la sperimentazione di altre possibili lingue creative, forze intense aperte emancipate, ci permetterebbero di viaggiare nel presente per un futuro diverso, con lo sguardo alle esperienze storiografiche, con il desiderio di mettere a fuoco un orizzonte chiaro, di mettere con le spalle al muro le false illusioni, la paura e la rabbia, le macchinazioni del feticcio, le menzogne e l’assenza dell’armonia nascosta.
L’impulso dell’ispirare e del respirare il ritmo vibrante del pensiero dell’essere ci porterebbe ovunque, “in un aperto indefinito” come scrive Novalis “tanto che l’orizzonte è sempre lì a portata di mano, ma mai raggiungibile.”
Le idee genuine scalpitano di continuo nella mente creativa dell’artista. Sono stelle che brillano in un cielo oscuro.
La scrittura verbovisuale, un significativo laboratorio di sperimentazione artistica e letteraria nata nell’ambito della neo-avanguardia, rivela e mostra il mutevole respiro del mondo, restaura la disgregazione dell’epoca, ristabilisce quella totalità che il tempo ha lacerato. È una nuova svolta del comunicare per riflettere. Il sapere si fonda sulla conoscenza. L’opera d’arte si slancia, supera il fossato, non più formale, traccia l’unità del vivere il reale liberamente. La creatività annuncia il vero non più inconcepibile.
La tecnologia sviluppa un’onda lunga in continuo movimento che investe la società, l’arte e l’intero sistema sociale con uno sguardo che va oltre lo sguardo. I poeti visuali non escludono il nuovo fenomeno del mondo, anzi considerano e animano con la loro immaginazione produttiva riflessioni e ricerche originali, esplorano il rinnovato spirito umano non convenzionale.
Gli artisti della scrittura verbovisuale sono poco attenti alla situazione della critica ufficiale e alle difficoltà dello spietato mercato dell’arte. In generale, sono legati piuttosto alla bella natura del fare arte e del vivere l’arte con passione, individuando le sensazioni dell’animo e del corpo, e l’idea pura dell’intelletto.
“L’occhio è offuscato da una nebbia interna” ha scritto Ugo Carrega e il poeta visuale dovrà lottare con fermezza, entusiasmo, responsabilità e con tutte le sue energie positive cosciente di liberare finalmente l’occhio annebbiato dal vuoto della confusione, dall’identità passiva e mancanza di unità. È necessario credere e riconoscere la virtù che sgorga dalla libertà e la bellezza immortale per un progresso infinito.
Assorbiti costantemente da un flusso distorto di contenuti e la perdita della vera identità, gli stereotipi raffreddano un nuovo futuro immaginato, lo splendore dello sguardo, l’ingenua primavera, la svolta interamente nuova.
La realtà è crudele e il cammino è lungo e faticoso. Lo spirito della scrittura verbovisuale non attende, prova a rigenerare e re-immaginare una pluralità di nuovi linguaggi per un mondo innovativo, mondo attuale impassibile e incatenato. L’agire mediante una ricerca costruttiva e decisa, non debole e formale, ci porterebbe oltre i confini del preconfezionato, la vuotezza dei contenuti e l’annientamento del soggetto. Non più lungo strade sporche. Promuoverebbe la coesistenza e il coinvolgimento del vivere la trasformazione, la crescita e lo sviluppo dell’umano intelletto sociale.


Oronzo Liuzzi (Fasano, BR, 1949) vive a Corato (BA). Laureato in Filosofia Estetica all’Università di Bari, è artista poliedrico, poeta e performer. Ha pubblicato trenta libri tra poesia e narrativa. Ha esposto in numerosi musei e gallerie nazionali e internazionali e in varie edizioni della Biennale di Venezia. Alcune sue ultime mostre: Dimensione fragile, a cura di Paola Paesano e Jasmine Pignatelli (Biblioteca Vallicelliana, Roma, 2018); Poetic Boom Boom, a cura di Mattia Solari (Gallerie delle Prigioni, Treviso, 2018); Anatomia del linguaggio. Uno sguardo sulla Poesia Visiva in Italia, a cura di Antonello Tolve (Galleria dell’Accademia di Belle Arti, Macerata , 2019); Mediterraneus (Museo del Mar Castillo Fortaleza, Santa Pola Alicante – Spagna). Alcune sue opere fanno parte delle collezioni: “Visual Poetry in Europe”, di Luciano Benetton; “Archivio di Nuova Scrittura” al MART di Trento e Rovereto; “Museion” di Bolzano; “Biblioteca Alexandrina” di Alessandria d’Egitto; “Museo della Carale Accattino” di Ivrea (TO); “Museo Arte Contemporanea” di Matino (LE).

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ELENA MARINI
SPOT N. 371

La poesia visiva nasce all’interno della letteratura “sperimentale” sotto forma di trasgressione nei riguardi di un modo di procedere che non rispondeva più, con le sue rigidità formali del testo scritto, ai reali bisogni di alcuni poeti che sentivano la necessità di confrontarsi a viso aperto con il mondo, attaccando anche il linguaggio, scorticandolo, per così dire, e sovvertendone i codici, avendo la lucida consapevolezza di essere testimoni delle contraddizioni e degli imbavagliamenti del loro tempo. 
La loro poesia è stata fin da subito un sistema di produzione che racchiudeva in sé due tipi di linguaggio, uno letterario e uno iconografico e il cui rapporto si basava su un incontro o, direi piuttosto, uno scontro fra parole e immagini che generava qualcosa di nuovo, complicando, di fatto, la vita al fruitore, che si trovava per la prima volta a confrontarsi e a tentare di districarsi in una lettura simultanea dei due piani saldati insieme, quello letterario e quello iconografico. La poesia visiva deve, per sua natura e identità, confrontarsi con i diktat del mondo e sovvertirne il linguaggio, “opporre opposizione”, come direbbe Sarenco, alla banalizzazione e a tutto quello che di reazionario e moralistico ammorba la vita. Per questo si presentò fin dai suoi esordi come una pratica “anarchica e rivoluzionaria, ironica e bastarda, trasgressiva e infedele”. La portata di tutto ciò comportò e comporta necessariamente un certo gusto per la provocazione intellettuale, per l’ironia, per una certa tendenza iconosclasta e ideoclasta. 
La poesia visiva quindi si distingue fortemente da tutte le avanguardie verbo-visive precedenti (Futurismo, Surrealismo, Dadaismo, Lettrismo e Poesia Concreta) per la sua innata vocazione smaccatamente ideologica, intesa come “una battaglia di idee”, come espresse in maniera chiara Miccini, e proprio in questo sta la sua forza destabilizzante. Immersi, oggi più di ieri, in una società che omologa attraverso immagini patinate e stereotipate, esposti a una continua riduzione del linguaggio a banali messaggi solubili di ordine pratico, bombardati dal politicamente corretto e dalla barbarizzazione in corso atta a scardinare e a impedire ogni pensiero critico, la poesia visiva è necessaria perché pone in essere un argine alla dilagante perdita di senso e significato riguardo alla nostra esistenza, intesa come  individualità, unicità e identità, perché, fa notare Pignotti, «ironizza, contesta, critica e tende a capovolgere gli aspetti più negativi propri della civiltà tecnologica e della civiltà dell’immagine» e la sua peculiarità è senza dubbio quella  di essere «proprio la migliore ritorsione contro l’abuso delle immagini […] nel rispetto della legge del contrappasso: quel che fatto è reso». 
In questo senso la poesia visiva è davvero un “poiein”, un fare, un’azione contropubblicitaria e può rappresentare “una merce rispedita al mittente”. Furono proprio Miccini e Pignotti a coniare il nome “poesia visiva” e fu proprio grazie alla tenacia di Sarenco che questo nome circolò e fu adottato nel mondo, attraverso una fitta rete di connessioni internazionali.  Miccini, nel 1997, ebbe modo di scrivere che “non si possono confinare quelle esperienze in quel preciso momento storico. Siamo convinti che la nostra tensione ideologica, il nostro riscatto siano ancora legittimi nei confronti di una civiltà che non è affatto mutata e che anzi ci sembra ancor più imbarbarita”. 
In questo senso, ritengo che i tempi siano maturi per assaltare quello che Sarenco chiamava “il Palazzo d’Inverno”, ovvero superare l’isolamento istituzionale ed essere presenti nel mercato e credo sia assolutamente indispensabile non permettere facili semplificazioni che possano alterare la portata assolutamente unica della poesia visiva all’interno della storia dell’arte, in modo da non permettere che venga degradata da esperienza internazionale a provinciale, attraverso l’utilizzo di tristi circonlocuzioni anemiche come i tentativi bislacchi e fuorvianti di cambiarne il nome, e quindi la sua identità, o quella di utilizzare termini troppo generici come “ricerche verbo-visive”.
Illuminanti le parole di Jan De Vree e di Maria Elena Minuto a tal proposito: «Poesia visiva… “Visiva” is clearly reminiscent of “vision” and immediately points at its socially committed nature. Apart from this, the poesia visiva is also characterized by the use of e.g. photographic material from the world of advertising and journalism. Also, the visual character is reflected in its name. Poesia visiva is a continuation of concrete-visual poetry in which an attempt is made to extend the concept of poetry beyond its conventional means of expression and limitations, as well as expressing a social criticism.» (Jan De Vree and Maria Elena Minuto, 2021 (https://orbi.uliege.be/bitstream/2268/267346/1/Protest_Poetry_JDV_MEM.pdf)
Il motivo per cui sono così tranchante riguardo al termine “poesia visiva” si ricollega alla mia biografia. Vorrei chiudere il mio testo con una domanda, rimasta e che, molto probabilmente, rimarrà senza risposta, che Sarenco scrisse nel 2016, pochi mesi prima di morire: chi ha paura della poesia visiva?


Elena Marini è nata a Pistoia il 19 luglio 1975. Attiva nell’ambito della poesia visiva, è stata modella nelle Accademie di Belle Arti di Firenze, Parigi e Versailles. Ha compiuto studi di filosofia all’Università di Firenze e ricerche nel campo della sociologia, dell’antropologia culturale, della psicologia e dei linguaggi dei media che ritroviamo nel suo lavoro artistico, oltre a una solida conoscenza letteraria. Note sono le sue collaborazioni con i poeti visivi Miccini, Sarenco e Luc Fierens. Ha partecipato a fiere, mostre collettive e realizzato due mostre personali, Doppelgänger (2016) e La lotta poetica continua (2017). I suoi SPOT sono presenti in diverse collezioni private in Italia, Europa e negli USA, oltre che nella Collezione Palli a Prato.

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GIAN PAOLO ROFFI
Intuizione

Poesia “visiva” o “visuale”? C’è stato per lunghi anni, a partire dai Sessanta, un confronto di posizioni che spesso ha portato allo scontro e alle condanne reciproche. Ma essendo arrivato più tardi, con quella che si può definire una seconda generazione rispetto ai maestri fondatori, ho sentito solo gli echi ormai attutiti delle loro diatribe e ho avuto positivi rapporti di collaborazione con gli uni e con gli altri. Per di più ho potuto godere della forte amicizia e – mi permetto di dire – dell’apprezzamento di due grandi rappresentanti dei fronti opposti, che tuttavia – posso testimoniarlo – si stimavano moltissimo l’un l’altro: Adriano Spatola ed Eugenio Miccini.
Orientato e favorito anche dalla mia formazione filologica e linguistica, ho intrapreso così una strada che, senza prescindere dai modelli esistenti, non si limitasse soltanto, da un lato, a rappresentare la dissoluzione del linguaggio o, dall’altro, a rovesciare gli stereotipi della comunicazione di massa.
Ho cercato, così, di ripartire da quello che mi piace definire il momento “originario”, “aurorale” del linguaggio, con la serie di tavole concretiste “L’immagine del respiro”. In queste ho utilizzato solo tre lettere: la “a”, vocale del respiro, dell’emissione di voce a bocca aperta, del rapporto fra interno ed esterno; la “m”, vibrazione che si emette a bocca chiusa, suono della risonanza interiore; e poi la “h”, consonante muta, segno della pausa, del silenzio, o del prolungamento dei suoni. Si trattava, per me, di risalire non certo scientificamente, ma poeticamente, alle forme primordiali dell’espressione vocale umana.
Subito dopo ho creato le “Schizografie”, scritture costruite per tagli, che intendono rappresentare e cercano di superare la frattura fra le parole e le cose. Qui i vuoti di immagine sono gli spazi in cui entrano i segni linguistici per misurarsi con le cose rappresentate, per imitarle mimeticamente, per definirle, per interagire o configgere con loro, per sostituirsi ad esse. Le lettere si pongono in relazione alle cose con la loro fisicità grafica e fonica, ricomponendo, o forse rivelando, un alfabeto elementare. I grumi di lettere, se non sono “parole”, sono “fantasmi” di parole, “indizi” di parole.
Per questa via, perseguita nell’arco di decenni, arrivo agli ultimi collage, che chiamo “Intuizioni” e “Testure”. Nelle prime, dall’immagine lacerata di un paesaggio, o di un ambiente, o di un oggetto, emerge un alfabeto sovrabbondante, a significare che dietro la realtà così come la percepiamo e la rappresentiamo, sta sempre il linguaggio, strumento che permette di relazionarsi con quella. Nelle seconde – figlie dirette delle prime Schizografie – è ancora più evidente l’interscambiabilità fra i ritagli di immagine, che hanno la forma e la misura delle righe di un testo, e le righe di lettere in ordine alfabetico che si alternano a quelle. “Testura”, dunque, è la rappresentazione visuale dell’intreccio fra realtà e linguaggio, della “tessitura”, nello spazio di una pagina, fra le parole e le cose.
È questa la “terza via” che ho cercato di percorrere usando gli strumenti di cui disponevo, per non cadere nell’imitazione di modelli altrui, ma rimanendo saldamente nell’area di chi ha lavorato e ancora lavora sul rapporto fra parola e immagine.


Gian Paolo Roffi è nato nel 1943 a Bologna, dove vive e lavora . Proviene, per studi e attività, dall’area letteraria, alla quale continua a fare riferimento. Ha scritto testi per spettacoli musicali (Con gli occhi di Simone, 1978; Ricordando Milly, 1981). All’inizio degli anni ’80 è venuto in contatto con l’area della “Poesia Totale”, collaborando intensamente con Adriano Spatola fino alla sua scomparsa. Ha pubblicato le raccolte di poesia Reattivi (1984), Madrigali (1986), Perverba (1988), Contesti (1997), Intuizioni (2018). è stato redattore delle riviste «Tam Tam», «Baobab», «Dopodomani». Ha fatto parte del gruppo di poesia sonora “Baobab”, del gruppo d’intervento artistico “I Metanetworker in Spirit” e del “Jazz Poetry Quartet”. Attivo nel campo della poesia sonora, ha partecipato a numerose rassegne ed è presente in antologie-cassetta, LP e CD in Italia e all’estero. Nel 2009 ha raccolto la sua produzione sonora nell’album di 2 CD Vox. Come poeta visivo, ha realizzato la serie di tavole L’immagine del respiro (1986-87) e le successive Schizografie (1988-89 e oltre), ed ha pubblicato Voli (testo verbo-visivo, 1991); Segni & Segni (poema visuale, 1997); Letterale (2000); Te Rerioa (2007); Della Luna (2008); Syncrasies (2011); Sintassi dei frammenti (2013); Recovered Words (2016). Il collage, il libro-oggetto, l’assemblaggio sono le forme prevalenti del suo lavoro artistico, sempre legato al fenomeno del linguaggio e alla visualizzazione della scrittura. Nel 2016 Pasquale Fameli gli ha dedicato la monografia Gian Paolo Roffi. La quadratura del cerchio (Campanotto Editore).

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CLAUDIOI ROMEO

Vedersi nell’anima

Superare i concetti per crearne di differenti
Conoscere il passato, capire il presente, pensare al futuro

Mi è stato chiesto di rispondere alla domanda “Che cos’è la Poesia Verbovisuale e come deve essere per te oggi?”, la mia prima reazione è stata quella di chiedere di poter rispondere in modo “visuale”, avendo avuto risposta affermativa ecco qui sotto la mia risposta. Una piccola mappa concettuale, che dovrebbe evocare e creare spunti di riflessione. Una sola precisazione, quando uso il termine grammatica intendo l’insieme delle convenzioni che danno stabilità alle manifestazioni espressive, quindi anche le immagini oltre che le parole.


Claudio Romeo è nato a Monza nel 1962. Grafico. Dal 2002 attivo nel network della Mail Art. I suoi lavori, in massima parte, sono realizzati a computers con, a volte, interventi a collage. Nell’arco di questi anni ha partecipato a numerosi progetti ed è presente in varie riviste: “Brain Cell”; “Di segni di Sogni”; “Friour Magazine”; “Nada Zero”; “Pips 2004”; “BAU-2”. Ha organizzato alcuni progetti di “Arte postale”.

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ALBERTO VITACCHIO
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Dare una definizione di poesia verbovisuale o semplicemente visuale risulta quanto mai complesso data la grande mole di scritti e di posizioni critiche che si sono succedute nel campo artistico che dal novecento giungono fino a noi. Basterebbe citare la lunga serie di scritti che si sono confrontati a lungo sulla definizione di visuale e visiva per dare un’idea di quanto si sia scritto e di come il confronto critico o di posizione degli artisti si sia ampliato spesso oltre misura, spesso nel tentativo di affermare e difendere linee precise nel campo di ricerca che ciascuno cercava di sviluppare e meglio definire.
Penso che sia più utile cercare semplicemente di delineare lo spazio nel quale la propria ricerca di espressione artistica si è espressa e si sta esprimendo in relazione a quella che, in quanto artista, amo semplicemente definire Poesia Visuale.
Certamente è inevitabile ricordare l’idea dell’uso di una scrittura che dilaga sulla pagina invadendola con forme grafiche diverse sia nel segno che nel volume, così come è stato fatto nelle tavole parolibere futuriste. Un punto inevitabile di transito o di partenza che ha spesso influenzato tutti coloro che, come il sottoscritto, sono partiti dalla scrittura di testi di poesia confrontandosi con l’idea di usare le impostazioni grafiche come uno strumento utile per influenzare la stesura prima e la lettura del testo, poi.
In molti di noi il passaggio dalla pagina alla lettura dinanzi al pubblico è stato fondamentale per una ricerca che considerava la stesura del testo sulla pagina come una possibile partitura, e in questo si è stati certamente influenzati dal confrontarsi con l’uso dei microfoni, e quindi sulla necessità di utilizzare la voce come un ulteriore e fondamentale strumento che coinvolgeva quindi anche il testo e spesso anche nella sua stesura.
Questa realtà che sempre amato indicare come sconfinamento non fa che seguire quella spinta evidente negli artisti che utilizzavano la parola, ma anche quelli che privilegiavano l’immagine di uscire dai confini specifici di una pratica d’arte per invadere spazi altrimenti pertinenti ad altre forme artistiche, come la musica, la ricerca sul suono, la vocalità ed altro.
Era quindi inevitabile che la parola scritta del poeta si trovasse a scivolare sulla pagina accanto, od invadendo, il campo dell’immagine. Così gli elementi grafici della parola si rivestivano d’immagine sconfinando al principio nel campo della grafica, della pubblicità saccheggiandone la comunicazione visiva e trasformandola in una nuova ricerca artistica facendo uso dei mezzi utilizzati fino ad allora dai pittori e dai grafici.
Il mezzo privilegiato è stato per lungo tempo (ed in certa misura lo è ancora) quello del collage che si prestava docilmente a rivestirsi in tavola grafica, in manifesto, in comunicazione visuale che stravolgeva il campo della comunicazione commerciale.
È stato proprio nel confrontarmi con l’esigenza di uscire dalla pura scrittura che mi sono ritrovato, come moltissimi, a privilegiare l’uso del collage ma, per una serie di pure deviazioni di percorso mi sono ritrovato presto ad usare una particolare forma di collage che ho poi chiamato pulling up. Si tratta semplicemente di uno strappo della superficie di una pagina patinata (soltanto della superficie) tramite l’uso di nastro adesivo per disegnatori con il quale si ottengono strisce di materiali nelle quali possono comparire anche lettere oltre che colori, e che vengono poi utilizzate per comporre alla fine il lavoro che è in sostanza un collage in più fasi successive.
Tutta questa spiegazione la ritengo importante per fare comprendere come si possa operare una serie di sconfinamenti a partire dalla scrittura di un testo pe concentrarsi prima sullo spessore grafico e visuale delle parole e poi, scivolando oltre il significato utilizzare le singole lettere quasi come colori da tavolozza, sfruttandone il puro aspetto visivo e componendoli sulla pagina operando in una dimensione artistica dove la fluidità della parola, della lettera e quindi anche del suo suono si integrano sulla pagina offrendosi a chi la legge, la scruta o semplicemente se ne lascia coinvolgere sul piano puramente visuale. Era necessaria quindi una definizione e quella di Poesia Visuale ed anche Verbovisuale e Visiva sono apparse agli artisti una utile etichetta di percorso.
Naturalmente, quando si operano intrusioni in campi diversi di espressione e ricerca artistica si è portati, inevitabilmente a mio vedere, a seguire un proprio percorso che porta ad ulteriori sconfinamenti talvolta molto personali che comunque nascono sulla base dell’esigenza di procedere sulla propria linea di sperimentazione.
In questo penso che sia stato inevitabile per molti artisti rendersi conto che la nascita di materiali nuovi non poteva che influenzare anche il campo artistico e quindi a spingerli verso nuove sperimentazioni e modificando così il percorso della loro ricerca artistica. Per cui, già come la disponibilità di microfoni, registratori, strumentazioni digitali avevano spinto poeti sonori verso nuove ricerche, il comparire di sempre più disponibili sistemi informatici e programmi di elaborazione digitale hanno portato molti artisti operanti nel campo della poesia visuale ad utilizzare i nuovi supporti tecnologici.
Per quanto mi riguarda il passaggio da composizioni/collage su carta o fotografia a quello di lavori basati sull’idea di collage e composizioni/scomposizioni digitali è stato (come per molti altri artisti d’altro canto) è stato estremamente naturale. In fondo si trattava semplicemente di utilizzare una sorta di nuova tavolozza che permetteva grande elasticità e che stimolava la ricerca di nuove soluzioni visuali. I collage che si dipartivano da frammenti di materiali di lavoro si trasferivano semplicemente su di una pagina virtuale.
Viene naturale aggiungere l’osservazione nulla di nuovo sotto il sole; la curiosità dell’artista rapido ad impadronirsi di nuovi supporti e materiali magari trovati casualmente non faceva che continuare il cammino di sperimentazione su fogli virtuali.
E quindi, eccoci qui !!


Alberto Vitacchio vive a Torino dove è nato nel 1942. Poeta lineare, visuale e sonoro si dedica pure al lavoro sul libro oggetto e d’artista. Opera nel campo della performance internazionale e dirige con Carla Bertola la rivista multimediale “Offerta Speciale”. Si interessa attivamente di Mail Art ed elabora personalmente i materiali suono su multipiste che costituiscono il tessuto dei lavori di Poesia Sonora. Ha esposto suoi lavori in molti Paesi (Francia, Belgio, Germania, Latvia, Serbia, Usa, Messico, Cuba, Brasile) e in Italia. Ha pubblicato alcuni libri di poesia visuale. Alcune mostre: III Biennale di Poesia Visuale (Mexico City, 1990); Think Europe, Studio Bildende Kunst (Berlino, 1992); “Collezione” Sala Paschetto (Torre Pellice, 1994); Hommage à Dick Higgins (Ernst Museum, Budapest, 1999); Cairn L, Stone 19’ THE ROOM (Torino, 2000); Martin Arte (2005); The Quest Sirius Arts Centre (Cohb, Irlanda, 2013).

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Una risposta a “AA. VV.
Alchimia della parola / Alchimia dell’immagine
Antologia minima di poesia visiva”

  1. Negli anni Sessanta ho fatto la mia parte esponendi in un paio di gallerie milanesi mie tavole verbovisive. Ma sono un poeta in incognito e sono ignorato dai più. Giustamente.
    Lelio Scanavini.

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