* Macabor Editore, 2023, pp. 94
Prefazione
(Tommaso Di Brango)
Nel baccello dell’alleanza
si parla al singolare
pur essendo in tanti.
M. B. Cerro
A volte alta / o con un sussurro?
I versi con cui Maria Benedetta Cerro apre le sue Prove per atto unico parlano di una «città poetica» in cui l’io si trova «errante e solo». Si tratta, chiaramente, di una metafora che allude all’interiorità, centrale già nello Sguardo inverso («[nella città poetica] si accede ad occhi chiusi / e il versante è al buio»1). Il fatto che ora la Cerro impieghi una metafora urbana segna, però, ad avviso di chi scrive, un passo in avanti, ovvero un’ulteriore evoluzione nel suo cammino di poetessa. Accostando l’interiorità allo spazio cittadino, infatti, l’autrice di Regalità della luce afferma che il «muto abisso»2 interrogato negli anni precedenti – il territorio «meditativo e intimo»3 da cui nasce la poesia – è, in realtà, il luogo di una unità articolata o, se si preferisce, di una molteplicità che cerca di assemblarsi attorno a un più o meno stabile ubi consistam. L’io, insomma, non è solo la sede del sé, ma è anche il luogo in cui trova spazio l’altro da sé: dentro ognuno di noi c’è quel che siamo ma anche ciò che vi è stato collocato dalle nostre esperienze, relazioni, interazioni col prossimo.
Se così stanno le cose, però, è anche evidente che i recessi dell’io, lungi dal fornire soluzione alle inquietudini esistenziali del poeta – e, in ultima istanza, di ognuno di noi –, costituiscono un problema o, forse, una serie di problemi o, meglio, un mistero4. In che misura, infatti, l’altro che mi abita è occasione per farmi accedere alla luce, ovvero alla pienezza di senso e alla compiuta felicità cui pure, costantemente, aspiro? Quando, invece, la sua presenza non costituisce altro che il persistere di vecchie maschere, rottami di un passato di cui sbarazzarsi?5 Di fronte a queste e a molte altre domande, la poesia di Maria Benedetta Cerro riconosce con franchezza che la «città poetica» ha «i suoi labirinti» e che, non di rado, attraversarli significa perdersi, ovvero, letteralmente, perdere sé stessi: «Mi sono assentata. / Sono stata – anche per me stessa – / introvabile. / E non chiedermi dove sono stata. / – Non lo so – / Neppure adesso che cerco di capire / come fa l’anima a smarrirsi. / È il castigo dei labirinti / il contrappasso / dell’amore smisurato per la vita / – il confino negli abissi –.».
Cionondimeno, l’io lirico, in questi versi, non abbandona l’impulso a «discernere / nel nulla un cammino possibile». È anzi vero che «[l’] Anima ha passi pesanti / – porta in salvo un bambino tra le braccia –»: la fatica del vivere è data dall’importanza della sua posta in gioco, ovvero dalla possibilità di lasciare traccia sulla linea di una temporalità che, pur potendo serenamente fare a meno di noi («(…) neppure laverà col pianto / la soglia che avremo appena attraversato»), rimarrà in qualche modo modificata dai segni del nostro passaggio («Il tempo si ricorderà dell’inciso / di ciascuna delle nostre vite»). D’altronde, se è vero che «[è] un bosco intricato l’esistere», è anche vero che «sempre uno spazio / apre nell’ombra il sole / sempre negli uguali giorni ve n’è uno diverso»6. L’ingresso nella «città poetica», da parte di Maria Benedetta Cerro, però, porta anche a maturazione quanto rimaneva solo intuito e alluso in un libro – La soglia e l’incontro – denso ma, forse, troppo poco considerato nella ricezione critica. In quelle pagine, infatti, tematizzando la necessaria complementarità tra ciò che ci separa dall’altro – la soglia – e ciò che a esso ci unisce – l’incontro –, la Cerro apriva la sua poesia a una possibile composizione armonica degli «opposti» che, pochi anni prima, avevano occupato un posto centrale nella sua scrittura7. Parlando, ora, dell’interiorità come «città», ovvero luogo di interazione tra i molteplici, l’autrice di Lettera a una pietra mostra che tra l’io e l’altro non c’è solo complementarità, ma necessità reciproca: si dà il primo in quanto distinto dal secondo – la soglia è soglia solo se c’è qualcosa da cui occorre differenziarsi –, ma già questa distinzione comporta una forma di relazione – ovvero: un incontro.
La relazione con l’altro può assumere varie configurazioni. Può darsi nel momento in cui l’io si raccoglie, come in preghiera, nel tentativo di trovare le parole adatte a dire l’«indicibile» della «città poetica» («Rendimi esperta del sentire più profondamente. / Forzare la lama / perdere gli occhi / fino alla visione. / Dare un nome a tutto questo»); può essere un proprio simile che offre un anche minimo segno di cordialità («(…) agli umani / basta uno sguardo luminoso / un sorriso / a fugare il sapere doloroso / d’essere sospesi al caso»); possono essere i trapassati che, inaspettatamente, sembrano parlare attraverso gli occhi dei vivi («orli di un pozzo che è l’abisso umano») quasi fossero semi nascosti nella loro interiorità («Da quel punto parlano i morti / – dalla carne dove hanno scelto di dormire – / Dove a volte germogliano»).
Ma può darsi un’eventualità in cui l’altro diventi, semplicemente, tutto quel che resta? Ovvero: può darsi uno scenario in cui l’io scompaia? La risposta, nella sua tremenda immediatezza, è affermativa: è la possibilità della morte, ovvero della manifestazione dell’altro nella sua piena e compiuta radicalità. Non è un caso, dunque, se le Prove per atto unico di Maria Benedetta Cerro, nella loro esplorazione dell’altro e della sua relazione con l’io, si confrontano insistentemente col morire, con l’angoscia che produce ma anche con la sua intima necessità. Solo sapendo che verrà il momento decisivo – quello dell’«”atto unico” risolutivo», come scrive la Cerro nelle Note ai testi –, infatti, si ha la possibilità di dare senso e direzione ai momenti che lo precedono e che, in ultima istanza, a esso tendono.
È grazie alla morte, insomma, che l’io può diventare davvero io, ovvero dare consistenza e direzione a un’esistenza che, altrimenti, rimarrebbe pura incompiutezza: «Non pensare alla morte / mentre la morte impera. / È il suo tempo – e se lo abbia intero – / Pensa secondo l’infanzia / che sa la morte come un gioco / una parola fra le altre / – che significano il nulla che sono – / Pensa alla vita come un rotolo chiuso / – aprilo ogni giorno per la prima volta – / Credi alla sua lunghezza / e non t’illuda il peso / – secondo lo spessore è la lunghezza / secondo l’immaginazione è la bellezza – / Pensa alla morte come a te stesso / – al suo diritto d’esserti ombra – Perché chi non ha ombra / non è vivo.»
Come questi versi lasciano chiaramente trasparire, però, la morte di cui parla la Cerro ha una dimensione metafisica che non fa a meno di confrontarsi con le asperità della storia con-temporanea. «[La] morte [che] impera», che è bene «abbia intero» quello che, agli occhi del poeta, appare essere «il suo tempo», corrisponde infatti al tragico spettacolo di devastazione offerto dalla pandemia da Covid-19 che, negli ultimi anni, ha violentemente flagellato le nostre esistenze. Molti dei versi presenti nelle Prove – di fatto, le sezioni Versi della mala-pena e La mala hora nella loro interezza – sono stati infatti concepiti durante il lockdown del 2020, quando un’umanità smarrita seguiva quotidianamente, sui teleschermi, l’algido rito della conta dei deceduti («Le morti sono numeri in una sfera opaca») e la primavera italiana faticava a mostrarsi nelle forme di un’effettiva rinascita alla vita («Il quasi aprile è un assedio di neve»).
Questo tremendo triumphus mortis postmoderno, però, non occupa l’intero giro d’orizzonte, nello sguardo della Cerro. Nel riscoprire, dopo averle a lungo negate celebrando i miti del progresso e del benessere, le proprie impotenze e fragilità («Mi credevo esperta / ed ero impreparata»), infatti, l’umanità provata dalla pandemia ha avuto l’opportunità – invero: non troppo sfruttata – di accorgersi di essere parte di una natura dotata di vitalità ed energia propria, refrattaria a essere considerata un semplice deposito di materiali indefinitamente sfruttabili e manipolabili e, anzi, pronta a far valere le sue istanze contro l’avidità della civiltà tecno-capitalistica. Si tratta, insomma, di un’«Ampia Madre»8 che, con una sensibilità panica rara nel panorama della letteratura contemporanea, la Cerro rappresenta come una totalità di fronte a cui l’uomo non dovrebbe sentirsi un privilegiato e in cui dovrebbe, piuttosto, tornare a immergersi: «Il male ci riconosce / lui sa / e contamina le nostre ore. / Ci chiama con diritto – anima mia – ci precipita nella sua notte. / Eppure dice al mandorlo – fiorisci – / e i passeri accorrono / alla messa cantata dell’albero / maggiore. / Ora la parola è fatta scorza. / Potremo stormire – forse – quando avremo foglie».
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1 L’impossibilità (metaforica) di vedere, dovuta a cecità o alla chiusura delle palpebre, impone al poeta di guardare in un’altra direzione (in modo, ap-punto, inverso) rispetto a quel che accade di consueto, ovvero nelle profondità dell’io. In proposito, mi permetto di rimandare a T. Di Brango, Il «miracolo crudele» della parola – Lo sguardo inverso di Maria Benedetta Cerro, in Id., Scritture dell’incompiuto – Saggi e recensioni, Cassino (FR), Mondostudio Edizioni, 2022, pp. 97-102.
2 M. B. Cerro, Tu mi dici “terrifica e infelice”, in Id., Lo sguardo inverso, Faloppio (CS), LietoColle, 2018, p. 24.
3 M. B. Cerro, Purché sia la gioia: la profondità della gioia, op. cit., p. 49.
4 Sulla differenza tra problema e mistero vedi G. Marcel, Essere e avere, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999. In questa sede, possiamo sintetica-mente dire che, mentre il problema, nei suoi termini essenziali, può essere definito dall’io, il mistero è una questione non pienamente definibile perché inglobante l’io stesso.
5 «In due / nella stessa carne / eravamo in troppi. / Di chi il dire / di chi l’ascolto / e chi di noi era il diverso? / In questa moltitudine / la parola era sola», M. B. Cerro, La soglia e l’incontro, Venafro (IS), EVA, p. 18. Qui, come si vede, la molteplicità interna dell’io resta legata alla dimensione della dualità. Non siamo ancora alla «città poetica», ma siamo già all’immagine di un’interiorità intesa come unità articolata. Sull’importanza dei versi della Soglia nella recente produzione di Maria Benedetta Cerro vedi oltre.
6 La metafora eliaca appena riportata mostra che, benché messa a dura prova, la tensione luministica tipica di Maria Benedetta Cerro non è venuta meno. Queste Prove, aggiungono, ad avviso di chi scrive, un tassello alla «trilogia della luce» formata da Regalità della luce. La congiura degli opposti e il più volte menzionato Sguardo inverso.
7 Alludo a M. B. Cerro, La congiura degli opposti, Faloppio (CS), LietoColle, 2012.
8 Sulla figura della madre nella poesia di Maria Benedetta Cerro si potrebbe scrivere e, verosimilmente, si scriverà molto. Nelle Prove, essa assume i già evocati caratteri della natura ma anche quelli dell’origine vagheggiata e perduta: «Ed io vorrei a volte essermi madre / darmi una carezza / smettere il rifiuto / di un’attenzione / un gesto / e persino di una bella parola / sentire sul capo come un peso».
* * *
Considerami – per favore –
tra quelli che non hanno il dono della lingua.
Il mondo ha fatto strage nei miei occhi.
Vita – vita delle mie viscere – l’umano se ne va senz’anima!
Se dovessi mancare / a chi griderò?
Persino il mio cane alza la zampa
scuote la terra e se ne va senza voltarsi.
Che ne sarà del mio giardino primitivo?
*
Il tempo. Il tempo si ricorderà dell’inciso
di ciascuna delle nostre vite.
Non se ne andrà
senza fare un nodo al filo che si tira dietro.
Ma neppure laverà col pianto
la soglia che avremo appena attraversato.
*
Rendimi esperta del sentire più profondamente.
Forzare la lama
perdere gli occhi / fino alla visione.
Dare un nome a tutto questo
perché solo ciò che ha nome / esiste e vale.
Ha diritto alla nascita
ciò che è battezzato dalla lingua.
*
Vengo dallo scarto / sono il penultimo.
La morte incarnata
che ricorda la morte a chi l’ha dimenticata.
Non vedo uguaglianze
né differenze.
Le morti sono numeri in una sfera opaca.
Anche da lì
con tutti i segni matematici
compiono operazioni elementari.
I conti tornano sempre.
*
Gli occhi giustiziati / il corpo spianato
ma il sole che mi acceca amo nei tuoi occhi.
E tu sei vita povera e imparziale.
Tu ordini – vivi – e questa briciola ti basti.
Ad altri che pure non ti adorano l’eccesso riconosci.
Di alcuni ti scordi.
Poi dici – essi c’erano – Chi li ha uccisi?
*
Guarda – mi disse – è stampato a lettere cubitali.
E se non basta / evidenziato a sangue.
è tutto qui quel che devi fare.
Istruisciti. E-segui.
Io vedevo una scrittura minuta
in mezzo alle righe un corsivo manoscritto.
Un lillà fiorito appena
e all’opposto il glicine fastoso.
Colori uguali con diversa lingua.
Mi parlava l’aprile sciagurato
e non la pagina piovuta sulle nostre vite analfabete.
*
Uno ad uno / all’appello.
Ciò che non dissi
ogni giorno scrissi.
Parole come filo spinato.
Chi restò impigliato
e nel fuggire si strappò il sorriso?
Chi da me diviso per sempre
annullò tutte le distanze?
*
Al di qua dei nuvoli
signori dalla luce negata / improvvisati fratelli
– Non morire
ti tengo stretta la mano –
già un altro cercando cui aggrapparsi.
Perché la salvezza
passa sempre da uno che non si accorge di morire.
*
A colpi di versi / come una contesa
arriverai in ritardo
o forse mai.
Un sole maligno fulmina il limbo
dove cogli frutti addormentati.
Una lente è la penombra
del giorno appena tramontato.
Una foto antica
una carta ingiallita.
Ma il rosso / il sangue / la vita.
Ancora viva ––– Andata.
*
Muerte querida – compañera muerte
non starmi dietro – passami accanto.
Voglio alle tue appoggiare le mie ossa stanche.
Le mani bianche appiglio non trovano
e barcolla il capo che ha in fronte un invisibile pugnale.
Tu il sole mi mostri che dilaga nel giovane verde.
I primi fiori muoiono
le primizie muoiono dei versi
che non immaginavo di scrivere nel vento.
Quanti pungiglioni per un frutto!
Quante api addosso!
E tu sprechi il mantello per te stessa sola.
Biografia di Maria Benedetta Cerro