MASSIMO PAMIO, Per “Ventilabro” di Francesco De Napoli

Su Ventilabro. Scotellariana, testo poetico di Francesco De Napoli sono stati versati fiumi d’inchiostro da storici e critici della letteratura, che potrebbero dissuadere chiunque dall’intraprendere uno studio ulteriore. La gentilezza di De Napoli, però, vincendo sul mio codardo personale ritegno, mi ha spinto ad intraprendere l’analisi di un’opera dotata di una suggestività tale da far scaturire l’immediata produzione di un commento andato inopinatamente perduto nel caos del mio computer. Ricordo che il poemetto mi aveva ispirato una lettura puramente metrica in cui non seguivo il senso del dettato ma soltanto la potenza ritmica dei versi doppi, che producevano, serializzati, un’andatura incalzante, un passo marziale, affannoso, ripetuto ossessivamente.
Ci sono passione e veemenza – non solo l’affanno -, ed anche un procedere quasi dissennato e provocatorio, a tratti intimamente declamatorio, per quanto tutto venga annotato e registrato con toni ovattati: il confronto va vinto. Quale confronto? Con il ritmo stesso, con il respiro delle parole, con la storia dell’oralità poetica e della sua organizzazione metrico-sonora e perfino melica. Agli inizi, probabilmente la poesia orale pubblica era epica, affidata a cantori prezzolati, abili nel narrare le gesta militari degli uomini di potere al fine di magnificarne l’eroicità con toni e accenti reboanti.
Non molti sono gli esempi moderni di questo genere; l’inno e l’epica non appartengono agli uomini del presente, presi da un vortice di accadimenti enunciati quotidianamente dalle voci anonime di giornalisti senz’anima. Il raffreddamento climatico della narrazione è dettato da esigenze diverse: in un mondo infarcito di inganni più che di scontri diretti con le armi in pugno, la persuasione più che la notizia conta per coinvolgere gli animi. Se si distrugge senza più l’uso di uomini, quali possono essere i toni d’una descrizione narrativa riguardante i droni che colpiscono obiettivi militari o distruggono edifici e infrastrutture?
Un alto esempio del secolo scorso è quello di Giuliano Dego, La storia in rima, in ottava toscana, rimata secondo i canoni (tre distici di endecasillabi a rima alternata e un distico finale a rima baciata), che osserva un tono più comico che epico. De Napoli, nel secolo successivo, in Ventilabro, ne riprende le fila. Egli ricorre alla figura di un grande uomo, Rocco Scotellaro (il sottotitolo è Scotellariana) che fa tornare in vita per esaminare vizi e difetti del presente; tono epico ed innografico sono le strutture ritmiche portanti, sebbene il verso, libero, assecondi necessità espressive più che un progetto ritmico-comunicativo.
La comunicazione, in De Napoli, è dunque al servizio di un’enfasi logica, di un’espressività acuta, tagliente, dolente, ironica, sarcastica, malinconica, atta a sollevare questioni etiche, a suggerire e a impartire consigli, giudizi, ad emettere condanne, a esaltarsi quando sferza, irride, critica, contesta, ammonisce, denuncia, disprezza.
A proposito della poesia italiana degli anni ottanta, scrive Mario Lunetta: «La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia». Un’indiretta stilettata egli vibra nei confronti della corrente della “parola innamorata”, dei poeti che ritengono la poesia il luogo del sublime e di un’ontologia intima spesso pretestuosa e incauta, ripiegata in sé stessa, che mostra un presente inesistente, indolore e mesto, solipsistico e stitico.
De Napoli appartiene ai poeti di razza, a quelli che sono capaci di espandersi per indignarsi, di porsi nell’hic et nunc con il proprio ingombro fisico, culturale e logico in virtù di una vibratile coscienza critica. Egli genera un testo sanguigno, appassionato, perspicace, vivo, attuale, infatuato non di “belle parole”, di sentimenti “sublimi”, di aperture “metafisiche”, di imponderabili allegorie dell’Arte Poetica Teologica e Filosofica; De Napoli, impegnato nel sociale, sentendosi fortemente in dovere di farsi interprete del contesto storico in cui agisce, non celebra un Sé smisurato, ma propone un’attenta ricognizione del presente, in cui non si trova, e si dibatte, scoprendo i mali di una società che provoca ferite e cicatrici, illusioni e delusioni cocenti. Il poeta si difende grazie alle sue doti di ironia, giungendo perfino al sorriso (magari sarcastico), al riso (beffardo), al divertissement, al gioco sottile e ombroso. Si professa testimone della sua terra, la Lucania, piccolo universo in cui ciascuno può riconoscersi, ma anche regione con una tradizione poetica antica e valorosa, che parte da Orazio, passa per Isabella di Morra e giunge a Scotellaro (a Raffale Nigro, a Vito Riviello, ad Albino Pierro, a Leonardo Sinisgalli, a Mariolina Venezia). Per De Napoli, è come se la terra evocasse i suoi cantori, è come se Orazio e Scotellaro fossero ancora presenti: in Ventilabro, non a caso, li fa tornare, fisicamente, grazie a un dettato lessicale forbito e aulico e a un’immaginazione fervida e visionaria. Generato da una terra di argille e pietre, di nudi picchi dolomitici, egli si sente fatto di quella sostanza, con un bisogno di immensità che a Metaponto e a Maratea si materializza. Similmente, la poesia di De Napoli è attraversata da sinuosità e ondulazioni timbrico-sonore, da frequenze logico-sintattiche di cui sono in qualche modo responsabili Orazio, Isabella, Rocco.
Fedele alla terra, poeta meridionalista, patisce sentimenti utopici e tensione visionaria, De Napoli appartiene a quella splendida genìa di eruditi, di bibliofili puntigliosi, chiusi in una loro torre eburnea, che è quella della provincia, tormentati dalla sete di giustizia sociale, infebbrati dall’idea di un equilibrio giuridico che dovrebbe sostanziare i rapporti tra gli uomini, rendendoli potenzialmente uguali perché tutti figli della stessa terra.
Da questa fedeltà alla terra, la capacità di metamorfosare, di essere vento e natura, potenza equorea o aridità del fiume, che forse si potrebbe definire “sindrome di dissoluzione panica”, di dissolvenza o incorporazione dionisiache negli elementi naturali.
Poeta non provinciale, bensì orgogliosamente e superbamente meridionale e meridionalista, ultimo esemplare di una civiltà magnogreca, sibarita e pitagorica, eleatica e parmenidea, forte della crudezza rude del guerriero e di un’antica nobiltà del sangue che recano le tracce di un Oriente che giunse attraverso la Persia fino al Medio Oriente e infine nell’Egeo, nell’Ellade, De Napoli è un classicista, nel ritmo dei versi, nella scelta dei vocaboli, nell’uso combinato di metrica e retorica, di figure che assumono un grado altissimo di contenuti e virtuosismi nella costruzione:

Imbarbarite perversioni elogia l’umanità, l’infanzia
del mondo disdegnando dilaniata e fatta poesia

versi dove si legano iperbato e zeugma in un gioco sottile e complesso, una modalità che quasi si ripete anche qui

Sia molato il dionisiaco canto come ventilabro
che dalla pula affranca e i legacci scioglie del maligno

umane turpitudini, composite d’animi nequizie -,

perché è tanta la tensione, che solo una struttura ardita può soddisfare l’esigenza moralistica dell’autore. Potremmo parlare di un poeta epigrammatico, che si esprime per brevi sentenze, per aforismi. Chiaramente, avendo letto solo Ventilabro, la mia lettura è parziale, insufficiente, ma certamente rende giustizia al grande valore fattosi audacia di uomo e poeta.

Francesco De Napoli
Ventilabro. Scotellariana
Edizioni Graphisoft, Roma, 2019, pp. 48

Biografia di Massimo Pamio


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