
Spesso gli amori letterari si configurano in strane costellazioni, apparentemente casuali ma in realtà determinate da ragioni profonde di affinità e consonanza. Così mi trovo a introdurre le mie riflessioni e le mie emozioni relative al libro Sul confine di Luciana Gravina attraverso le parole che Cristina Campo scrisse a proposito della scrittura di Katherine Mansfield perché trovo che esprimano perfettamente e molto meglio di quanto potrei fare io quello che penso dell’opera di Luciana Gravina in tutti i territori linguistici che esplora: «Al di là di ogni conquista di stile, l’opera letteraria che può dirsi tale proietta sempre, sullo schermo della pagina, l’elemento predominante nella personalità del suo autore. Vi è un’opera-spirito, un’opera-cuore, un’opera-cervello, un’opera-sangue, un’opera-nervi, un’opera-memoria” e quella di Luciana è, appunto, perfettamente, integralmente, “l’opera-creatura. Sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma.»
Luciana ascolta la voce delle cose, le interpreta, le restituisce filtrandola attraverso la sua conoscenza delle vicende umane, attraverso la sua esperienza, attraverso la sua sensibilità, il suo cuore e il suo respiro e quando scende nel profondo del suo essere per ascoltare le voci che lo abitano in realtà si apre al mondo. La sua scrittura è quindi ascolto di sé stessa e delle voci della storia e della contemporaneità, è ricerca interiore ma anche indagine della realtà. «Ora di nuovo / la parola torna alla mano, / digita senso e suono, / corre pagina e bianco, salda il gesto, / prende ritmo con l’acqua / che la denuda. E riscrive / la storia all’infinito.» La parola in questa silloge abita il confine ma è aperta a tutti gli altrove, alla storia, alla memoria, e se, come dice tra gli altri Alvaro Mutis, la poesia dev’essere visionaria o non è, la visionarietà della poesia di Luciana è tutta nella parola, centro degli amori/umori di una poeta che adora/odora le parole, le annusa quasi per ricavarne tutti i possibili succhi, significati da accostare ad altri significati/suoni a creare ritmi pensieri sussulti di senso.
In questo suo intrigante e “necessario” percorso à rebours che diventa un inventario di poesia, una testimonianza antologica di una presenza e un impegno costanti Luciana ripercorre tutta la parte della sua vita intrecciata e direi connaturata alla poesia, dalla nascita in Cilento, terra a cui è legata da un cordone linfatico (e non ombelicale, che la chiuderebbe in uno stretto orizzonte) che continua a nutrire la sua sensibilità e le permette di aggirarsi liberamente ma consapevolmente in tutti i territori della poesia, dagli studi classici e filologici alle esperienze nelle capitali europee, da cui ha origine il suo personale orizzonte, il lessico, la sintassi, il ritmo, i nessi tra le parole e il loro ordine, la tessitura dell’immagine, conciliando, anzi saldando, il profondo senso classico della forma e del gusto con una particolare “mobilità” all’interno della lingua, un rapporto quasi fisico con la parola, una curiosità intellettuale sempre viva e una spontanea apertura alla sperimentazione, non scevra talvolta da una vena di dissacrante ironia. «Lo avessi / auscultato, appunto, attraverso la pelle. Ma io, / maintenant, io a credere che l’esprit fosse appunto de finesse, / al limite, de geometrie, magari entrambi per una testa ancipite, / come giaÌ, bel viso, anche, d’una compiutezza, cosiÌ mi / sembrava, où tous se tenait, dove la svasatura del rischio sotto / controllo si glissasse egli medesimo sine cura.»
Di se stessa la nostra poeta racconta l’infanzia trascorsa a Torraca, nel Cilento, dove torna spesso, e la sua formazione classico-umanistica a Napoli, presso l’Università Federico II, ma anche i suoi frequenti viaggi, soprattutto a Parigi. Si definisce scrittrice di narrativa, poesia e critica letteraria, artista di sculture e gioielli ma conoscendola scopriamo che è molto di più: poliedrica multiforme poeta traduttrice critica scultrice, autrice in tandem con altri artisti – tra i quali particolarmente significativo per l’intensità, la durata e gli esiti della collaborazione Salvatore Giunta – di preziosi Libri d’Artista, creatrice raffinatissima di gioielli/sculture, la si può considerare a tutto diritto appartenente a quel territorio che Lotman indica con il nome di semiosfera, capace com’è di tenere insieme nel suo operare in poesia un’apertura costante e un’adesione all’insieme delle arti figurative, cinema, teatro, vissuti quotidiani, in quella che possiamo appunto definire una sorta di semiotica della cultura, caratteristica che me la fa particolarmente amare, insieme alla constatazione che mai i suoi testi, anche i più sperimentali, sono privi di senso anche se, ovviamente, non di senso comune o scontato si tratta, ma di un senso intimamente connesso al ritmo, al suono, alla forma anche in eventuali slittamenti o scarti improvvisi, dunque non lineare ma plastico, da artista, perché lei manipola, anzi di più, come diceva Mario Lunetta, scolpisce le parole sicché la sua lingua diviene materia espressiva scabra e preziosa quanto originale e viva. E questa sua attitudine la rende anche un’eccellente traduttrice, tra le migliori che abbiamo, e anche in questa raccolta ce ne dà un saggio, consapevole dell’irrisolto interrogativo di ogni traduttore: tradurre/tradire, e allora ecco che ci regala una “doppia” traduzione di Saffo, quella rigorosamente filologica, con una resa stupefacente dell’endecasillabo saffico e quella “libera” che smontando e “attraversando” il testo originale ce ne restituisce tutta la potenza poetica e l’incanto costituendo un vero e proprio cameo a testimonianza di una perizia tecnica che per Luciana non è mai disgiunta da una forte vibrazione emotiva che informa sempre la sua scrittura essenziale e costantemente in equilibrio tra ragione e sentimento «Pari agli dei mi sembra l’uomo che a te di fronte / siede e ti guarda che parli e ridi incantevole e / subito il cuore mi frulla nel petto, non appena infatti ti / vedo non mi resta piuÌ voce nella bocca, ma la lingua si / inceppa e nelle ossa un fuoco sottile si insinua, gli occhi si / abbuiano nel nulla e le orecchie rombano, di se stesse e un / tremito tutta mi percorre, sono piuÌ verde dell’erba e / prossima alla morte mi sento, eppure tutto si sopporta…». Terrena e tuttavia liquida, acquatica, la sua memoria poetica registra, la sensibilità elabora e componendo silenzio suoni e parole perviene alla grazia dell’Augenblick e alla precisione/definizione in profondità di una stratigrafia, o anche, per restare in ambito marino, poiché L. si autodefinisce donna di mare, benché tellurica sia la forza delle sue parole, getta nell’abisso lo scandaglio del ricercatore di tesori marini. Tra le onde mentali nate dal mare nasce una particolare composizione di silenzio e parole, una musica in cui suono ritmo e senso semantico accompagnano segnalano e esaltano lo stare sul confine, luogo/non luogo, in questo caso privilegiato, dove la poeta sta, consiste direi, saldamente piantata ma non immobile, frenata per sua decisione ma immersa nel ritmo dei suoi versi lunghi, particolari, che dilatano lo spazio anche figurativamente e in cui spesso un imprevisto a capo spezza il ritmo e arresta il fluire di una sorta di danza sul posto, un rigaudon, un passo avanti e uno indietro, una danza antica e ripetuta in cui si sta fermi e si ascolta, si dà spazio al silenzio, al respiro… per ridefinire il mondo attraverso la parola che non è mai parola abilmente ma arbitrariamente giocata ma parola necessaria, che nasce dal silenzio interiore, che sboccia improvvisa sul confine tra mare e cielo, un confine aperto, indefinito, che invita al viaggio e al volo, in una sosta indispensabile per riprendere il fiato, per guardare oltre, per guardare l’oltre.
febbraio 2025