CARLA MALERBA, Il tempio sulla collina

L’autobus sobbalzando percorreva la distanza tra la città, languente sotto un caldo precoce per il mese di aprile, e il mare. Qua e là negozi con le saracinesche abbassate, segni di attività un tempo fiorenti ora in abbandono. Strisce di plastica annerite dal fuoco di un incendio svolazzavano all’ultimo piano di un edificio. L’ incendio aveva lasciato segni vistosi sui muri esterni del palazzo e su quanto si intravedeva degli interni delle abitazioni. La città, un volta che l’autobus si era allontanato dal traffico caotico delle auto rumorose, si era spalancata improvvisamente sulle ultime piazze assolate, aveva lasciato scorgere lo stadio maestoso, l’eleganza di certi palazzi e più in alto le vestigia incantevoli che il tempo non riusciva a cancellare.
Ora l’autobus imboccava la litoranea ed era un’esplosione di azzurri che orlavano la costa in quella giornata di primavera che pareva estiva, un regalo improvviso per chi amava tuffarsi già nelle acque forse ancora fredde dell’Egeo. Sull’automezzo vecchi dimessi dai profili assorti, popolane con bambini e borse della spesa, un gruppo di ragazzi vocianti con zaino in spalla e già negli occhi l’aspettativa di una partita di calcio sulla spiaggia.
La donna osservava tutto con la curiosità della viaggiatrice che tenta di immedesimarsi nella gente del posto. Aveva proprio bisogno di staccare dalla sua vita, dalla delusione provata dopo la scoperta che lui, quello che credeva il suo uomo per sempre, aveva un’altra. Li aveva incontrati per caso una mattina nei pressi dell’Università quando la sua lezione era stata spostata senza preavviso perché l’aula era inagibile. A quello non era preparata: alla tranquillità con cui lui allacciava alla vita la giovane donna avvicinando il viso al suo per baciarla, come avrebbe fatto un ragazzino. No, a quello non era preparata. Lo aveva sempre stimato, ancor prima di amarlo, collega desideroso di affermarsi nella ricerca, compagno dolcissimo per tutti quegli anni della loro storia pieni di complicità e di interessi comuni, di intenti condivisi, di amore.
Amore? No di certo, per lui, se non aveva avuto neppure l’onestà di parlargliene di questo nuovo legame che lo allontanava per sempre da lei.
Così era partita, aveva preferito scomparire, non pedinarlo, non cercare spiegazioni, non volerlo riconquistare. Era andata via con l’orgoglio dei suoi quarant’anni, ancora bella forse, ma non desiderabile quanto una che aveva almeno vent’anni meno di lei.
Ripensava a tutto questo ormai senza dolore, né rancore. Una vita si apre ad altre risorse, non finisce se una storia finisce, si consolava.
In quel momento l’autobus stava rallentando per assecondare le prime curve della costa. I passeggeri erano scesi quasi tutti, la periferia era stata oltrepassata ed ora si apriva ai suoi occhi la vista del mare, senza più stabilimenti, abitati, cartelli di fermate a richiesta. Era lì, maestoso, nel suo splendore di cobalto, così placido da sembrare più che una distesa d’acqua, una valle silenziosa, un mondo a parte, lontano dalle inquietudini e dalle angosce degli uomini.
Ora il pullman arrancava in vista della sommità di una collina: aveva seguito docile le rientranze dei golfi, sfiorato i cigli erbosi punteggiati già di giallo e di viola. Salivano a piedi pochissimi turisti attirati dalla vista che si doveva scorgere dall’alto. Già dalle prime curve si vedevano le colonne di un tempio che dominava il promontorio. Rivelavano antichi fasti e risplendevano di bellezza sull’alto basamento quasi intatto. La vastità dell’orizzonte non sgomentava, quel mare non confinava con gli oceani, era un mare di terre e di isole.
Mentre saliva anche lei verso il tempio, vide uscire dalle acque di una piccola insenatura un giovane uomo dai capelli lunghi, fermati al disopra della nuca. Due bande inanellate gli scendevano sul petto. Fissava un punto lontano oltre la riva, le sembrava un enigmatico kuros moderno.
Senza accorgersene adeguò il passo a quello del giovane che aveva preso a inerpicarsi sullo scosceso pendio che dalla riva portava sulla strada. Ora gli stava dietro e rallentava di proposito il passo mentre lui muoveva le lunghe gambe abbronzate e muscolose con ritmo cadenzato.
Si accorse di essere sola con il ragazzo davanti a lei, non un turista, nessuno, ad eccezione di alcune pacifiche e aggraziate coturnici che pascolavano nelle zone ombrose presso i cespugli.
Si disse che non doveva temere. Perché avrebbe dovuto rinunciare ad arrivare all’altura?
Non aveva paura alcuna di quel giovane che andava verso il tempio e vi sarebbe arrivato senz’altro prima di lei. Lo vide infatti entrare nella cella, là dove venivano custoditi i simboli sacri del dio e in quell’istante un raggio obliquo di sole gli illuminò la capigliatura che rifulse, bionda com’era, di un bagliore repentino.
Ma quando anche lei raggiunse gli scalini di accesso al colonnato, lui era scomparso!
Sparita ogni sua traccia. Si affacciò appena un poco dal dirupo, ignorando la recinzione che impediva di avvicinarsi troppo al baratro azzurro, e guardò giù, i piedi ben piantati sulla piattaforma di terra battuta che precedeva il vuoto. L’acqua era calma, quasi mormorante e descriveva cerchi leggeri che si allargavano piano.
Allora pensò di essersi imbattuta, forse, in una divinità sperduta nel nostro mondo che cercava il punto di rientro, il passaggio dall’una all’altra dimensione. Gli era comunque grata, fosse stato uomo o dio, perché il suo animo si era riconciliato con la natura, fonte di gioia infinita.
Scese la collina con una nuova leggerezza, quasi correndo.
Strano – si disse – questa sera al tempio non c’era nessuno a fotografare il tramonto.


Biografia di Carla Malerba


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