(Riceviamo da Carla Malerba – e volentieri pubblichiamo – questo breve saggio, uno scritto colettaneo di alcune sue alunne datato 2006, che ci consente di ricordare Italo Svevo, lo scrittore che indagò l’inconscio come recupero e salvaguardia della vita evidenziando, in un contesto mitteleuropeo dei primi decenni del Novecento, la crisi esistenziale dell’individuo in una società priva di valori)
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Con l’avvento del Novecento si affaccia in Europa il tramonto della società borghese e dei suoi valori. Questo fenomeno può essere collegato a una lunga serie di cause concatenate tra loro: in campo industriale il sopravvento della macchine sulla forza lavoro; il crescente accentramento del potere nelle mani di ristretti gruppi dirigenziali; il ridimensionamento dei ruoli politici e sociali dei singoli; la dissipazione delle certezze ideologiche del Positivismo.
È in tale contesto che l’individuo del Novecento si ritrova contrassegnato dalla perdita della propria identità, inquadrato in uno status di alienazione e solitudine e imprigionato all’interno degli ingranaggi di una società fredda, calcolatrice e orientata all’utilitarismo. La realtà mitteleuropea del tempo si presenta imbevuta di questa molteplicità di sconvolgimenti e di involuzioni e si configura come luogo geografico scientificamente avanzato e cosciente della decadenza borghese.
È proprio per questa serie di motivi che gli intellettuali mitteleuropei erano sicuramente i più atti a cogliere la crisi che aleggiava, in quanto testimoni delle spinte nazionalistiche manifestate dalle varie etnie che popolavano l’impero.
Le menti più brillanti dell’epoca si formano nel clima dei maggiori centri culturali di quell’area: centri nevralgici di questa evoluzione culturale sono dunque Monaco, Praga, Vienna e Trieste perché rispettivamente legati a Mann, Kafka, Musil e Svevo.
Trieste, agli albori del secolo, si presenta come città cosmopolita, nata dall’incontro di svariate etnie e dominata dall’ emergente ceto mercantile che vedeva convergere i suoi interessi nell’operoso porto franco cittadino.
La città, tra l’altro frequentata anche dal medico viennese Sigmund Freud, risente dell’influenza delle sue teorie e manifesta interesse per l’introspezione e lo studio della psicoanalisi.
La società triestina appare dinamica, attiva, laica e aperta alle innovazioni scientifiche, come si evince dalle parole dello scrittore: «Bisogna aver presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste alla Porta Orientale d’Italia: funzione di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina».
L’anima della città era costituita dalla cultura italiana, dall’operosità commerciale e bancaria tedesca, dalla presenza dell’elemento slavo fortemente indipendentista che trovava un riscontro nello stesso irredentismo italico. Questi aspetti determinarono quel vivace assetto cosmopolita della città che cela tuttavia dietro il dinamismo commerciale e imprenditoriale quell’ accentuata propensione all’indagine interiore cui abbiamo precedentemente accennato.
Possiamo perciò comprendere perché Trieste giochi un ruolo così di rilievo nella formazione di Ettore Schmidt, impiegato alla Banca Union, collaboratore del «Piccolo», industriale e aspirante scrittore di successo.
Secondo Giorgio Luti, Svevo è l’unico scrittore italiano che ha effettivamente colto fino in fondo la crisi dell’individuo europeo nei primi anni del Novecento, ben delineata nei protagonisti dei suoi tre romanzi, afflitti da una malattia immaginaria, intesa come diversità, che li esclude dal mondo dei “sani”.
Proprio a causa di essa vi è uno stato di insoddisfazione costante e un’ossessione nevrotica che porta l’autore ad analizzare l’interiorità dei suoi personaggi e conseguentemente se stesso e che fa dire a Zeno Cosini che «la malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione…».
Il malato di Svevo è caratterizzato da una debolezza della volontà, perciò viene rappresentato come un emarginato dalla società, nella quale non riesce ad inserirsi.
Che poi questa malattia che lo affligge rappresenti, come l’autore stesso la definisce, «la condizione non biologica, ma morale dell’inazione», si evince dalle molte pagine di scrittura sveviana prima che sia raggiunto nella Coscienza il traguardo dell’accettazione ironica dello stato di malessere del protagonista.
Svevo fa dire ad uno dei suoi personaggi: «solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi», intendendo sottolineare con questa asserzione la capacità di autoanalisi di cui il malato gode in contrapposizione con il sano ottuso e conformista.
Come guarirà Zeno dalla malattia? Passando dalla parte dei sani, dei lottatori? No di certo, perché Zeno è troppo disilluso per credere ad una soluzione così facile.
La tragedia dell’esistenza è destinata a perpetuarsi fino al presagio della deflagrazione illustrata nelle ultime pagine del romanzo: «forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli, Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto dove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e malattie».
Ma l’uomo di Svevo dalla malattia non vuole più guarire perché essa gli dà quella chiaroveggenza necessaria per guardare dentro se stesso, constatare l’ambiguità del suo comportamento, l’incapacità di risolvere i contrasti della vita interiore e di affrontare la realtà. Il personaggio dell’inetto è complicato e contraddittorio, impacciato e indolente, privo di senso pratico e astratto sognatore.
Ma, nonostante tutto l’antieroe sveviano con la sua tendenza a fantasticare, a sfuggire le incombenze quotidiane, incatena chi legge per la novità di un personaggio che già allude a Charlot. Accomunati dalla tendenza a fantasticare, i protagonisti della trilogia sono spinti ad una fuga da una realtà in cui non si riconoscono, fuga che rappresenta un mezzo per non affrontare le difficoltà quotidiane. Altro elemento che accomuna Alfonso ed Emilio è la passione per la scrittura e la velleità di un successo letterario. Lo stesso Zeno adopera la scrittura su consiglio del suo psicanalista, ma per guarire dal vizio del fumo.
Scrivere, dunque, per conoscersi a fondo, così come lo stesso Svevo afferma in una lettera del 2 ottobre 1899: «Io credo, sinceramente credo che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentare di portare a galla dall’imo del proprio essere ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile…».
In queste parole si può cogliere la determinazione che celebra la scoperta terapeutica della scrittura introspettiva per uscire parzialmente dalla malattia della coscienza.
Nei primi due romanzi infatti Alfonso ed Emilio sono bloccati nella loro condizione di vittime e non riescono a riscattarsi: il primo ricorre al suicidio, mentre il secondo rimane nel suo stato di senilità perenne, accettazione del grigiore della propria vita.
L’unico a superare l’alienazione di un vissuto insoddisfacente è Zeno che giunge ad una conoscenza disincantata e profonda della realtà umana attraverso l’accettazione ironica del quotidiano e della funzione terapeutica della scrittura.
La conclusione del tema della malattia è che i veri malati sono i presunti “sani”, coloro i quali non si curano mai, che guardano con freddezza dentro e fuori del proprio animo e che si occupano solo dell’aspetto apparente della vita, come scrive l’autore stesso: «Sono malati tutti coloro che appaiono sani ad uno sguardo superficiale e distratto, sono malati gli uomini apparentemente virtuosi e incuranti di tutto ad eccezione della propria gloria e della propria ricchezza…».
In contrapposizione gli altri, gli inetti hanno il vantaggio di esercitare continuamente il pensiero abituandosi al sogno e all’invenzione. Solo loro, i personaggi dei romanzi di Svevo potrebbero scoprire l’originalità della vita perché altro non sono che un unico individuo, specchio di un’evoluzione personale, la maturazione di un uomo che arriverà, certo, tardi al successo letterario, ma che, come tutti sappiamo, è riuscito magistralmente a fissare il tarlo epocale del Novecento, la coscienza malata dell’individuo.
L’inetto sveviano, tre volti, un’unica persona schiacciata dal peso del cambiamento che la stritola, ci fa ripercorrere la vicenda letteraria del suo autore per farci meglio comprendere la complessità della trama che si sviluppa all’interno dei tre romanzi.
Svevo può essere considerato un innovatore, in quanto Alfonso, protagonista di Una Vita, è un personaggio nuovo rispetto a quelli della narrativa europea del tempo, ma non riesce ad accattivarsi le simpatie di lettori non abituati allo scandaglio psicologico, specialmente se la vicenda si colloca entro una cornice di impronta naturalistica. Alfonso Nitti può tuttavia essere visto come progenitore di molte figure inquiete ed alienate, prototipo del problematico protagonista del Novecento che Svevo magistralmente tratteggia nei suoi romanzi.
Fu questo uno dei motivi per cui le opere non furono accettate favorevolmente dalla critica e l’autore dovrà attendere l’incontro fortunato con Joyce prima di ottenere il desiderato successo.
Nel primo romanzo Svevo tratta la storia del fallimento esistenziale del personaggio e sostituisce alla figura dell’eroe romantico quella dell’inetto: proprio questo doveva essere il titolo dell’opera sicuramente più pertinente rispetto a quello definitivo che si ricollega al romanzo Una vie di Maupassant.
Svevo riesce ad incarnarsi in un giovane colto ed economicamente disagiato che si trasferisce a Trieste per lavorare presso la Banca Maller nella quale non riuscirà mai ad integrarsi.
Spesso assalito da sentimenti di nostalgia e insoddisfazione, Alfonso Nitti sembra avere una vita meno triste quando Annetta, figlia del banchiere Maller, suo principale, gli propone la stesura di un romanzo a quattro mani: tra loro nascerà una storia, ma il protagonista non riesce ad inserirsi nella società alto-borghese triestina e quando la giovane gli propone il matrimonio, preferisce fuggire. Al suo ritorno scopre che Annetta si è fidanzata con il cugino Macario. Inoltre Maller lo accusa di avergli sedotto la figlia, lo taccia di arrivismo, ma quando Annetta non si presenta all’appuntamento propostole dal giovane per riabilitarsi di fronte a lei, Alfonso ormai pensa al suicidio come unica soluzione ai suoi errori.
Lo scrittore si sofferma sui luoghi e sulla vicenda umana di Nitti per meglio evidenziare l’isolamento del personaggio dal contesto sociale in cui è inserito: l’ambiente bancario risulta freddo e improntato essenzialmente su rapporti gerarchici e l’unica preoccupazione è quella di assicurare all’azienda il massimo profitto o di ottenere una promozione. Questa tipica visione capitalistica della società produce nel giovane un conflitto interiore che matura un sentimento di nostalgia nei confronti delle sue origini. In questo primo romanzo il tema del suicidio assume due significati: mentre da una parte costituisce la sconfitta dell’inetto, dall’altra richiama l’affermazione ancora romantica della superiorità dello spirito sulla limitatezza dell’esistenza. Alfonso possiede una personalità morbosa che non gli permette di scorgere la possibilità di una via di uscita ed è quindi, tra gli inetti di Svevo, quello più infelice e maggiormente toccato dalla sventura, poiché inadatto a vivere.
In Senilità, per alcun critici il miglior romanzo della trilogia, Emilio Brentani rappresenta una parziale evoluzione del personaggio del primo romanzo in quanto la sconfitta non comporta il suicidio, ma una presa di coscienza della condizione di inettitudine del protagonista. Egli è un intellettuale, fa l’impiegato, nutre una forte passione per la scrittura che lo porterà alla pubblicazione di un romanzo e gli procurerà una piccola notorietà cittadina. Emilio Brentani incarna il classico personaggio sveviano, l’inetto, il rappresentante dei malesseri interiori dell’individuo del Novecento. Svevo trasferisce in lui gli aspetti di un individuo che esprime il disagio della crisi della borghesia dal vittimismo all’inazione all’incapacità di risoluzione dei problemi esistenziali.
Racchiude in sé profonde frustrazioni che gli derivano da una vita statica e da una condizione interiore di senilità che rivela il disagio di un uomo che non è mai stato giovane. Così è incapace di agire, ma riesce a idealizzare aspetti e creature della sua vita. Come fa con Angiolina che egli idealizzandola, chiama Angie. Si lascia coinvolgere dalla passione amorosa per Angie, senza tener conto della volgarità e amoralità della ragazza. Angelina rappresenta il mondo dei sani ed è, tra i personaggi di Svevo, la più sensuale tanto più se confrontata con la sorella di Emilio, debole e malata. Anche immaginando la vita di Angiolina, i tanti amanti che la visitavano, egli la desiderava e la elevava sempre rimuovendo i sospetti sul suo conto. Ma nel contempo Emilio si rende conto della sua debolezza, dei propri limiti e accetta perfino di crederle pur di non perdere la tormentata felicità del loro rapporto accettandone i compromessi per averla. La passione di Emilio si trasforma ben presto in un amore morboso che ha come conseguenza una esasperata gelosia che l’uomo non riesce a contenere. Egli le dice: «Io non valgo mica molto più di te» ed esprime con queste parole l’insostenibile fardello della sua torbida passione per Angioina che spesso si trasforma in masochismo. D’altronde, nel sistema dei personaggi di Senilità, Emilio fa parte del gruppo dei deboli con sua sorella Amalia, travolta anche lei dalla passione amorosa per Stefano Balli, il suo amico scultore che insieme ad Angiolina figura tra le personalità forti del romanzo. Infine Brentani deciderà di metter fine alla sua relazione e di tornare alla tranquillità del suo vissuto, ma solo apparentemente perché in realtà la sensazione di senilità interiore lo accompagnerà per sempre.
Ne La coscienza di Zeno si compie il superamento, con esito positivo, delle tipologie caratteriali dei due personaggi precedenti. Protagonista delle vicende del terzo romanzo è Zeno Cosini, ricco commerciante triestino che decide di liberarsi dal vizio del fumo affidandosi alla psicoanalisi.
Tutti conosciamo la storia: il medico che lo cura, un certo dottor S. invita il suo paziente a scrivere i suoi ricordi in una sorta di diario personale: nascono così le storie del fumo, della morte del padre, della storia del suo matrimonio e la storia di Carla, amante di Zeno. Personaggio insolito quello di Zeno Cosini! Montale lo descrive come un Brentani che ha fatto carriera, che si è costruito una posizione, un uomo che sa sorridere di sé e degli altri e che conserva il segreto delle sue precedenti incarnazioni.
Zeno è un personaggio dalle tante sfaccettature, tra esse una delle più rilevanti è la comicità o meglio l’umorismo che trapela improvviso da situazioni apparentemente normali come quella del funerale mancato, con evidente riferimento ai lapsus freudiani. Si è fatto precedentemente cenno al nesso che lega questo personaggio a Charlot, nesso individuato da Benjamin Crèmieux che, con Valéry Larbaud, fu tra i primi critici letterari che contribuirono al successo e alla divulgazione del romanzo poi riconosciuto incondizionatamente con il saggio di Montale del 1925 su «L’esame».
Infatti Zeno ricorda Charlot in molti atteggiamenti, basti pensare all’andatura dei due personaggi, claudicante quella di Zeno e volutamente ridicola quella di Charlot.
Un’altra caratteristica di Zeno è l’ambiguità, il restare sempre con un piede fuori e uno dentro certe situazioni come avviene nel doppio gioco che conduce con la moglie e con l’amante per non perdere nessuna delle due in quanto esse si completano a vicenda: la prima, perfetta padrona di casa; la seconda, affascinante compagna di evasioni amorose.
Svevo ritorna spesso al suo personaggio, ne mette in evidenza il suo assillo derivante dalla convinzione di essere afflitto da malattie di origine nervosa fino a che Zeno giungerà a capire che la nevrosi è la valvola di sicurezza per ogni frustrazione e che, accettandola, riuscirà a trovare il proprio equilibrio interiore. Consapevole della propria inettitudine, in lui la senilità che è il limbo di Brentani, assume la connotazione di una condizione comune a gran parte dell’umanità.
Personaggio sempre diviso tra desiderio e rimorso, Zeno si procura alibi e autoinganni, si trova fuori posto nella società in cui vive: è, infatti, un eccentrico, un clown involontario, mai una vittima, è «un uomo dalla sensibilità morbosa, avido di esperienze, curioso di sé e degli altri, soggetto ai più mutevoli umori» come scrive Silvano del Missier.
Zeno è il personaggio sveviano che riesce a dedicare maggior attenzione ai propri sogni rispetto alla realtà in quanto analizzandoli si possono scorgere in essi i desideri più profondi, anche se spesso sono in contrapposizione con l’etica comune.
Ci appare un individuo che difende i suoi egoismi e non rinuncia ai suoi vizi, un antieroe che gode dei vantaggi del privilegiato, rappresentazione ben riuscita della coscienza borghese. Ritorna il tema del fumo a meglio delineare come il Cosini possa elaborare un compromesso, quello dell’ultima sigaretta: fumare sempre una possibile ultima sigaretta. Già Freud nell’opera Psicopatologia della vita quotidiana aveva mostrato che i propositi presi troppo energicamente sottendono sempre una volontà, seppur inconscia, di trasgredire a un determinato divieto. Allo stesso modo tutti i buoni propositi del protagonista si riveleranno un fallimento totale, in quanto le sue decisioni non saranno mai definitive. Tuttavia egli vorrebbe liberarsi di quella “sozza abitudine”, liberarsi del vizio che lo allontana dalla” salute” essendo convinto che, se smetterà di fumare, tutti i suoi mali spariranno, ma ogni tentativo di liberarsi dal suo vizio riuscirà inutile e vano.
Le implicazioni psicoanalitiche si colgono spesso nelle vicende dell’originale Cosini, non solo parlando dell’ultima sigaretta, ma anche nell’episodio del funerale che è, come abbiamo già detto, un vero e proprio lapsus freudiano o atto mancato che rivela l’odio del protagonista verso il suo rivale in amore Guido; altre se ne colgono nel rapporto conflittuale col padre, frutto di antagonismo nei confronti del genitore. Significativo è l’episodio dello schiaffo, dato dal vecchio genitore in punto di morte al figlio, schiaffo che segnerà tragicamente la vita di Zeno con quel senso di colpa che gli deriva per il rimorso di non essere stato un bravo figlio.
Infine è utile ricordare che la fortuna della Coscienza risiede nel fatto di essere una sorta di autobiografia di Ettore Schmitz che costruisce un personaggio immaginario molto simile al proprio doppio reale e attribuisce alla vicenda di Zeno particolari veritieri attinti dalle esperienze di vita dello stesso autore.
Se i personaggi della trilogia sono accomunati da una inettitudine che si manifesta sotto vari aspetti, spicca il diverso tipo di inazione di Zeno Cosini perché egli non intende sacrificare le proprie abitudini per realizzarsi in pieno in una sola direzione; non sa sottrarsi alle innumerevoli opportunità che la vita gli sta offrendo; è una figura molto particolare che accetta la malattia e se ne fa un punto di forza, è una figura di diverso che ha scelto di non soccombere, ma di imporsi agli altri, che usa l’autoironia per confrontarsi con i “sani” e dedurre da questo confronto che solo i “malati” hanno un’acuta sensibilità e una capacità straordinaria di intuizione.
Solo alla fine del romanzo il protagonista Zeno si renderà conto che la sua malattia è in realtà la sua salute e segna l’evoluzione di sé stesso che da apparente inetto risulta essere il personaggio meglio riuscito della trilogia sveviana.
La vera forza dell’inetto sta nel non essere inchiodato a delle certezze destinate a crollare da un momento all’altro. Nelle pagine conclusive del romanzo, Zeno che non è guarito grazie alla psicoanalisi, ma alla felice ripresa della sua attività commerciale dichiara: «Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute».
L’unica possibilità che l’uomo ha per liberarsi dalla malattia – sembra dirci Italo Svevo – è l’accettazione della propria precarietà e dei propri limiti. È a questo punto che i tre volti dell’inetto si sovrappongono e mentre quelli di Alfonso ed Emilio si sfocano, il volto di Zeno si definisce più nitidamente: in lui la fisionomia del vinto si è trasformata in quella del vincente. Zeno Cosini ha scoperto il segreto della vita che – come dice lui stesso – «non è né brutta né bella, ma è originale».
* Nei contenuti sono tratti dal lavoro di gruppo di alcune alunne di una classe V trilingue nell’anno scolastico 2006. Insegnante di Lettere: Carla Malerba. La tesina partecipò alla V edizione de “I colloqui fiorentini” – Convegno di letteratura italiana per le scuole superiori.
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BIBLIOGRAFIA
Italo Svevo, Racconti, saggi, pagine sparse, Dall’Oglio editore, 1968;
Silvano Del Missier, Italo Svevo, Le Monnier, 1969;
Mario Lunetta, Invito alla lettura di Svevo, Mursia, 1973;
Italo Svevo, Epistolario, Dall’Oglio editore, 1966;
Id., Una vita, Garzanti editore, 1985;
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Arnoldo Mondadori editore,1988.