“poesia” è ancora la parola giusta?
Il dibattito-discussione, proposto per questo numero, ci deriva da un titolo postato da Marco Giovenale il 23 gennaio 2022, È ora di cambiare nome a quello che facciamo?; “poesia” è ancora la parola giusta?, sulla sua pagina di facebook. Come per i precedenti dibattiti-discussioni proposti, quasi sempre derivanti dai social, con l’autorizzazione a procedere da parte del titolare del tema proposto (in questo caso Marco Giovenale), anche questa volta pubblichiamo i post in risposta tra i più significativi ed articolati.
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Francesca Perinelli ‒ Per me, sì. Anche se ricordo che a un certo punto si era convenuto di chiamare poesia l’insieme che comprende “anche” ciò-che-facciamo.
Bradamante De Luca ‒ Non cambierei, anche (e non soltanto) per tigna: sarebbe troppo favorevole a certi menelicchi zorobabeli; e dopo anni di “Ma è poesia questa?”, altre discussioni “L’avevo detto io che questa non…”, che si aggiungerebbero agli agguati (sempre pluriennali) sulla nuova definizione, sento di non volerlo. Che i maggiorenti mungitori i di mandrie si spolpino da soli o con i propri “poeti” scantinati.
Jesse Glass ‒ Perché non prendiamo la parola “poesia” e “qualsiasi altra parola qualcuno voglia usare per definire quello che facciamo” e li liberiamo in una scatola di sigari e lasciamoli combattere? Possiamo anche scommettere sull’esito: io metterò X numero di crediti Internation Pwo-Mard su Poetry e tu fai la tua offerta anche in International Pwo-mards (ricorda 1 Pwo- Mard = 05 F.I.R. [scoregge sotto la pioggia]) sul tuo contendente. Non importa quante volte la Poesia incontra il tuo contendente per qualsiasi cosa facciamo, prevedo che la Poesia vincerà! Il motivo per cui lo dico è perché la Poesia ha ciò che serve per essere una vincitrice: Stamina (ci accompagna da migliaia di anni!), Grande Atteggiamento (Imparato dalle sue muse madri), Durevolezza e Adattabilità. Ha superato imperi, secoli bui, e varie eruzioni di estinzioni, colpi di asteroidi, ecc. La poesia è il nostro Campione a mani basse! Evviva!!!!!! Preparatevi, nemici della Poesia a pagare in International Pwo-Mard Credits! (Molto più facile da usare rispetto a Pay-Pal! e più sicuro dei Bit-Coin).
Marco Giovenale ‒ Gli strati geologici di ciò che generalmente chiamiamo testualità (e nello specifico poesia) scivolano uno sull’altro, sono attraversati da fratture che impiegano forse più di secoli, millenni per completarsi. probabilmente tra qualche generazione la domanda sarà posta in un altro modo, e le mie parole sembreranno archeologiche.
Emilio Giovenale ‒ Marco Giovenale, io seguirei il profeta di Quelo e mi limiterei a spostare un accento, chiamandola poèsia.
Johannes S. H. Bjerg ‒ Cosa c’è in un nome oltre a nuove possibilità di discussioni infinite, noiosi video su youtube e podcast di discussioni di vecchi uomini, noiosi documenti scritti da vecchi uomini, altre divisioni… facciamo quello che facciamo e o funziona o non funziona…
Daniele Ventre ‒ Una volta si sono abbandonate determinate forme perché, si diceva, anche una macchina può farle, e sono roba vecchia.
Ma ora un computer può costruire asemantismi deliziosi perfettamente matematici. Il cut up e il googleism sono emergenze spontanee.
Ma gli aniconismi con conato di senso risalgono al paleolitico inferiore, e al ms. Voynich, i calligrammi sono ordinaria amministrazione dal tardoantico. Il dadaismo è di inizio Novecento ed esiste perfino “la tradizione delle avanguardie”, un ossimoro davvero spassoso. Per non parlare del fatto che i poemi epici di Ugarit erano in versi atonali. E Gherasim Luca è la reiterazione di un processo stilistico in atto nel XXIII canto dell’Iliade. E i poeti tardo-ellenistici sono ottimi esempi di new sincerity.
Tanto vale tornare al sonetto, all’esametro, agli elegi e all’endecasillabo sciolto.
Per lo meno il disinteressato uditorio li riconosce. Chiedo scusa per aver usato cattive parole.
P.s. Sono usurati anche la illeitas, la cosa, l’attualità, la storia e la sua fine, la narrazione e la sua decostruzione, la fine del soggetto e la sua rinascita, la novità e il silenzio.
E naturalmente lo è anche quello che ho appena scritto.
Pps. All’inizio della poesia il termine “poesia” non esisteva. Esisteva un complesso di termini specifici del tipo di performance. Il poeta e la poesia è invenzione tarda, di fine VI sec. a.C.
Marco Giovenale ‒ Daniele, non pensavo primariamente a questa, in effetti.
Daniele Ventre ‒ Marco, eppure è così. Poeta è quasi una parola di IV sec. Una parola della fase di crisi e transizione di una cosa che chiamiamo poesia e conobbe il suo apogeo nei secoli dall’VIII al V, nei quali il termine era assente o poco usato. Il termine poeta/poesia venne inventato da quelli che erano sub-poeti o post-poeti.
Marco Giovenale ‒ eh ma dico, appunto. L’orologio si sarà un po’ impolverato, comunque, no?
Daniele Ventre ‒ Marco, in effetti non so. Per esempio, ci sono pagine del Tristram Shandy che sono di fatto asemiche. Però pensa che un contesto in cui la produzione “poetica” non è qualificata come poesia, ma a partire dalla tipologia performativa, risale al più presto alla fine dell’età omerica.
Marco Giovenale ‒ Daniele, tutto nasce vecchio. per questo preferisco il meno vecchio.
Daniele Ventre ‒ Marco il problema è che non c’è un meno.
Marco Giovenale ‒ Daniele, eh insomma, tra dada e i sonetti direi di sì. Così come il googlism. Prima di google mica c’era.
Daniele Ventre ‒ Marco c’era, con una medialità un po’ diversa.
Marco Giovenale ‒ Daniele, maddai, su. La medialità diversa “diversifica” tutto. Allora c’erano anche le auto perché c’erano i carri. La storia esiste.
Daniele Ventre ‒ Non è proprio lo stesso.
Marco Giovenale ‒ Daniele, comunque stiamo qui a discutere e hai visto Franco Forte? che notizia buia…
Daniele Ventre ‒ Marco ormai è finita una stagione. È come se ci stessimo perdendo i pezzi lungo la strada.
Annamaria Ferramosca ‒ Marco Giovenale il meno vecchio inevitabilmente invecchierà. Lapalisse.
Marco Giovenale ‒ Annamaria, per fortuna!
Annamaria Ferramosca ‒ infatti. cerchiamo di non agganciarci al tempo.
Marco Giovenale ‒ Annamaria , il contrario! bisogna essere assolutamente moderni.
Peter Richards ‒ L’impulso di definire, e troppo spesso, di rivendicare con durezza la provenienza, di automarchiare, è quanto di più insemico possa essere. Anche poco poetico. Più storia dell’arte, meno striscioline, risolverebbero questo, o almeno aiuterebbero.
Andrea Inglese ‒ Caro Marco Giovenale, per me è impossibile taggare, ma t’incollo anche qui sotto il pippone, che ho fatto, condividendo il tuo post: Marco Giovenale, con noncuranza di guerrigliero della rete, ha infilato tra un post e l’altro una domandina esplosiva. Che meriterebbe subito un paio di convegni, alcuni festival di esemplificazione, una biblioteca di supporto. E davvero vale la pena di rifletterci al volo, ma anche rasoterra, non solo con battito d’ali, ma anche con zappe e vanghe. Ci gira in testa da un bel po’ di tempo ormai, questa domandina. (Ci hanno messo le mani già le neo-avanguardie e le neo-critiche del secolo scorso ‒ dalla seconda metà almeno ‒. Tipo Barthes, tipo “Tel quel”, per rimanere su di un terreno a noi vicino.) Qui più che la risposta (o le risposte), che si possono trovare nel thread, ma anche altrove ovviamente, mi limito a esplicitare che cosa implica una domanda del genere. “Poesia” è il nome largamente e vagamente condiviso di una pratica collettiva codificata storicamente. Più un nome designa qualcosa di condiviso più implica una certa vaghezza (ci ricordava Wittgenstein che un concetto funziona bene anche quando ha i confini molto sfumati.) Ora si sente il bisogno di cambiare il nome a una pratica collettiva quando le parentele di famiglia tra la “poesia” di X e la “poesia” di Y sono divenute invisibili. Insomma, smettiamola di dire che X e Y fanno la stessa cosa. Fanno due cose diverse, e quindi diamo (a queste cose) due nomi diversi. Fino a ora fila tutto liscio. Ma qui interviene la dimensione “politica” della cosa. La percezione che le “somiglianze di famiglia” tra una pratica e l’altra sono sparite non può sussistere esclusivamente nei soli “praticanti”, ossia nei soli attori di questa pratica (gli scrittori). Il divorzio tra le pratiche (e la conseguente rinominazione) deve ottenere un impatto su larga scala, ossia su critici, lettori, editori, librai, bibliotecari, perché il nuovo nome possa funzionare appieno. La rinominazione, per essere efficace, deve prendere atto che non solo la pratica è mutata, ma anche tutto il mondo specifico che le sta intorno. Finché questo non avviene con sufficiente forza e in qualche modo per un accordo collettivo, si è condannati a cadere nella vecchia semantica, vaga, insidiosa, piena di malintesi e di coabitazioni assurde.
Daniele Ventre ‒ Andrea Inglese, se le categorie a cui ci si rivolge sono le stesse per la ricezione diffusione riconoscibilità di tutte queste pratiche, si finisce per creare un polo e un tratto comune a tutte le pratiche in questione proprio nella sede della loro ricezione possibile presunta o mancata. Ergo…
Marco Giovenale ‒ Andrea, uhmm, mi sembra che da un bel po’ di tempo la coscienza della pertinenza della domanda sia più che collettiva, addirittura virale. Senza che con questo si abbia da qualche parte un diverso nome
Riccardo Innocenti ‒ Lo aveva “capito” anche Croce: se Petrarca è poesia Rimbaud non può esserlo.
Annamaria Ferramosca ‒ Riccardo Innocenti, varrebbe allora anche il contrario: se Rimbaud è poesia, Petrarca non può esserlo. Ma sta di fatto che entrambi sono memorabili.
Marco Giovenale ‒ Annamaria, esatto, quindi forse la compresenza di entrambi sotto una stessa etichetta pone un interrogativo. Interrogare questo interrogativo era l’intento di questo post. Che considero aperto, come il thread sembra in effetti dimostrare…
Giorgio Moio ‒ Domanda, anzi domande che fanno riflettere. Ma allora va cambiata anche la parola prosa se continuiamo a fare prosa dalla notte dei tempi. I termini servono a definire un orientamento e una differenziazione tra diverse discipline. Quello che conta è cosa si produce sotto la definizione di “poesia” o di “prosa”: preferibilmente scritture non antiche o vecchie. Potremmo anche continuare a chiamarle poesia e prosa, anche ‒ e me lo auspico ‒ sempre più nuove, anche se il nuovo sarà il vecchio di domani, come il nuovo di oggi è il vecchio di ieri. Abolendo i termini, per altri diversi (quali, poi?), dovremmo riscrivere tutti i libri? Credo cambi poco: per es. ho chiamato tempo fa le mie poesie visuali “poesigraphie”, ma sempre poesie visuali restano, anche perché di nuovo nuovo non c’è mai nulla, veniamo sempre dopo qualcosa di cui inconsciamente e come fatto storico non riusciamo a farne a meno. Caro Marco, per realizzare la tua proposta (come operatore d’avanguardia, alternativo, mi troveresti disponibile) dovremmo rinnegare in primis noi stessi e credo che non tutti siano d’accordo. Ma poi che ce ne frega dei termini, poesia non-poesia, prosa non-prosa: l’importante è costruire nuovi linguaggi da poter abitare.
Marco Giovenale ‒ Giorgio, trovo sensata la tua osservazione, specie nella conclusione, che rispecchia il “mood” di vari commentatori anglofoni del thread. Io credo che la questione possa dirsi ancora aperta, e che le placche tettoniche dell’esperienza linguistica del senso (=la cosa che chiamiamo scrittura, letteratura) siano costantemente in movimento, creando una quantità di riassestamenti nell’impianto teorico-critico che si incarica di osservarle.
Tra pochi istanti nel flusso del thread posto un link a un articolo in cui tempo fa elencavo alcuni dei nomi che i materiali testuali “eccentrici” si sono dati, negli anni.
Giorgio Moio ‒ Marco, certo è che la scrittura, poesia prosa ecc. è sempre in movimento o almeno dovrebbe essere, visto che la realtà muta in continuo, come muta il pensiero. E questo che mi auspico, che ci auspichiamo, no? Il resto, nome sì nome no saranno le nuove generazioni a decidere: per noi è troppo tardi, troppe cose dovremmo rivedere e sistemare in un tempo abbastanza lungo che, ahimè, non abbiamo. Comunque, in linea di massima sono d’accordo con te: cambiare non è mai negativo e nomi, come le etichette, sono solo nomi: è come si utilizzano che conta, ovviamente non legarsi al passato.
Marco Palladini ‒ Io opino che non esista la poesia, esistono i poeti. Poi ognuno scrive e compone come può e come sa… augh.
ma perché ostinarsi sul chiamare o no poesia ciò che proviene dalla nostra creatività? a me sembra che la parola poesia possa benissimo contenere tutto, visto che finora nessuno è riuscito a darne una definizione e a selezionare forme, stili, canoni, contenuti, come requisiti sine qua non. continuiamo nella nostra creatività, che si chiamerà come si vuole, ma sempre mai normata, senza condizioni escludenti, di nulla, di nessuno. a giudicare, volendo, saranno solo uno sterminato numero di lettori e un altrettanto lunghissimo tempo, e si potrà dare dignità ad ogni libera espressione creativa, perfino alla pagina bianca. magari si potrà dire: “questa cosa è nel territorio Memorabilia”?
Daniele Ventre ‒ Poesia: espressione in vario modo connotata da funzione poetica nel senso di Jakobson, o comunque caratterizzata da un uso non ordinario del linguaggio a scopo estetico.
Essendo “linguaggio” un termine ad ampio spettro, ed essendo “estetico” un termine fuzzy, considerando l’infinita gamma di usi non ordinari del linguaggio, in questa definizione di poesia entra tutto ciò che non è prosa a scopo meramente referenziale e non è arte figurativa o aniconica o materica.
Vale a dire che il termine può includere manifestazioni che vanno dalla prosa d’arte alla narrativa letterariamente costituita, dal verso di petrarca alla poesia asemica, dall’oral poetry alla docta poesis.
Marco Giovenale ‒ Daniele, sì, diciamo che negli USA attualmente è questa l’accezione: amplissima.