Talvolta non è dato a uomini e donne accorgersi di quanto il mondo abbia bisogno, persino urgenza, di un pensiero gentile, che è forse anche un pensiero più lento, attento al richiamo del giorno e della notte. Lungi da me sostenere vanamente l’argomentazione, pur importante e necessaria, dei ritmi vitali e dei cicli circadiani. Io che, talvolta, lavoro sino allo stremo delle forze e che spendo sui libri buona parte della mia giornata, notte compresa, non sono davvero la persona più adatta a rammentare agli altri quanto siano vitali il riposo e una buona alimentazione. Certo, secondo la celebre teoria degli alimenti di Feuerbach, secondo la quale “l’uomo è ciò che mangia” [“Der Mensch ist was er isst”], non si vede davvero come si possa coltivare un pensiero gentile quando si è mortalmente stanchi e digiuni. Forse, buona parte della nostra irascibilità, dei nostri atteggiamenti superficiali e incauti verso noi stessi e il prossimo derivano anche da un’alterazione delle funzioni biologiche di base, eppure ritengo che l’alienazione in cui siamo immersi e che ci connota non abbia preso le mosse da un fatto biologico né dalla biologia sia risolvibile se non per aspetti oramai purtroppo marginali. Penso a Hegel il quale, a proposito della coscienza infelice, una delle figure della sua Fenomenologia dello Spirito, poneva in luce il fatto che l’infelicità derivasse alla coscienza del singolo dalla sua incapacità di ricomprendersi nella totalità dello Spirito, ossia di sentirsi parte della totalità processuale di una realtà in costante divenire. E penso alla critica, forse un po’ riduttiva, mossa al filosofo dello Spirito da un altro gigante del pensiero, Karl Marx il quale, nella sua Ideologia tedesca ricordava al mondo intero che non l’Idea, ma la struttura economica determina (“bestimmt”) i rapporti sociali. Così che un operaio alienato difficilmente potrebbe coltivare un “pensiero gentile” verso il capitalista che lo opprime e, se lo facesse, tale pensiero sarebbe anch’esso il frutto di una forma alienata del pensiero, una dinamica difensiva che sublima l’aggressività.
Eppure, Hegel voleva dire altro e altro significare, asserendo l’infelicità del singolo che non si riconosce nel mondo. Qualcosa che è in parte legato al solipsismo, in parte all’isolamento in cui viviamo anche oggi, qualcosa che rassomiglia al canto delle sirene dal quale siamo spinti nell’abisso indistinto di un non-essere collettivo e stagnante, giù lungo una china che è difficile risalire. Lo Spirito di Hegel non era il collettivo cieco e amorfo di oggi, non era neppure, però, l’individualismo cinico e chiuso in se stesso di colui che, invece, si strugge invocando il riconoscimento del mondo per un ascetismo che è quasi di maniera. Mi piace qui pensare al giovane Hegel, a quando, nella sua Vita di Gesù, ancora intrisa di morale kantiana, parlava della “comunanza dei cuori”. Ecco, il pensiero gentile, la Gemeinschaft di cui Hegel argomentava, la quale non ha nulla di stucchevole, bensì è fondata sull’ascolto di sé e dell’Altro (lo si scriva e lo si intenda con la “a” maiuscola e minuscola), sulla comprensione e sull’accoglimento di una realtà che pur, nelle sue innumerevoli contraddizioni e debolezze (“l’anello che non tiene” di Montale), ci appartiene e chiede, questa sì, di essere riconosciuta e vissuta.
Il pensiero gentile non è contegnoso distacco, non è acquiescenza, non è superficiale gaiezza, né giustificazione a tutti i costi. Il pensiero gentile, per come la vedo io sulla scorta dell’insegnamento che mi viene dalla filosofia e dal complesso pensiero junghiano, è domanda, apertura, tentativo di comprensione e pudore. Non è repressione né rimozione dell’aggressività, non è ignoranza della paura, ma acquisizione di un punto di vista e di un sentire in cui aggressività e paura vengono esperite e messe in tensione con il dolore che esse provocano in noi e nell’altro, nonché ricomprese all’interno di un lavorio interiore di crescita e adattamento, nel senso junghiano, in cui l’inconscio non si ammutolisce, ma si esprime nella ricerca complessiva di senso.
Il buon Kierkegaard diceva che la scelta gli procurava angoscia, ma il grado zero del vivere, la non scelta, è nello stesso tempo rinuncia alla libertà e quindi la peggiore delle scelte, quella definitiva che annichilisce ogni tipo di pensiero e impedisce, pertanto, ogni forma di gentilezza in quanto atto da compiersi scientemente. Non l’aggressività, ma la negazione e la condanna di essa; non la paura ma il tentativo di estirparla finiscono per esaltare quello stesso nemico che vorrebbero abbattere.
Con ciò non voglio dire che sia necessario dare libero sfogo alle pulsioni, né che si possa vivere rintanati come conigli. Da un lato, si tratta di sentire e cogliere l’antinomia che è insita nella natura umana ‒ e questo me lo ha insegnato Jung – dall’altro lato, si tratta di vedere come questa antinomia arrivi ogni giorno a sintesi e come da questa sintesi, in un movimento generativo costante, nasca una nuova tesi. Riscopriamo l’esame di coscienza alla maniera rivendicata da Seneca! E troveremo in noi l’altro (ancora lo si scriva e lo si intenda con la “a” maiuscola e minuscola) e scopriremo che l’ecumenismo hegeliano non è un fatto di fede, ma una problematica e difficile “fatticità” che si costruisce giorno dopo giorno. In questa “fatticità” risiede il germoglio del “pensiero gentile” che giunge consapevole dopo la donazione di senso cui cooperano l’inconscio e una coscienza, forse, chissà, finalmente felice.
Biografia di Eliana Forcignanò